§Fare Mondi.
Tra ricerca e fabulazione
Le lingue delle anguane
di Chiara Cecconello

È una domenica pomeriggio appena dopo pranzo. Durante “l’ora del silenzio” – tra le 12.30 e le 15.30 – nell’androne condominiale di un palazzo in una cittadina veneta, una bimba chiama forte la sorella, che è nell’appartamento al secondo piano: la chiama e la esorta a uscire con lei a giocare. Nessuna risposta. Chiama più forte. Ancora nessuna risposta. Chiama più in alto. Risponde una voce roca e scura: no stà sigàr come n’anguana!, (non gridare come un’anguana!). Commento in dialetto veneto comunemente usato per zittire qualcuno.
Sigàr ovvero oxare, criàr, sbecare significa urlare, gridare, strillare. 

Come n’anguana, creatura magica e acquatica che popola l’immaginario mitologico veneto. Figura che mescola tratti umani ed animali, è protagonista di storie e racconti dove viene descritta come entità minacciosa: donna, animale e mostro, simile a una strega o una ninfa. Longana/agana,/vivena/subiana/aganis/guana, l’anguana cambia il suo nome come se stessa e si mostra con la coda da serpe o con piedi da capra e lunghissime mammelle da vecia che arrivano fin dietro le spalle (Spada, 1989).

Tutto l’arco prealpino del nord-est Italia è costellato da una toponomastica legata all’anguana: la Grotta delle Anguane a Valdagno; il Buso delle Anguane e la Valle delle Anguane a Corsara di Marostica, gli Anelli delle Anguane a Valdastico, il Covolo di Aganè a Malo, per menzionarne qualcuno. Si tratta di ruscelli, valli, laghi, spelonche che, in tempi inoltrati, raccontavano di figure e posti pericolosi: “non stà ndàr là che che ze e guane” (non andare lì che ci sono le anguane). I luoghi delle anguane erano le zone franche e misteriose da evitare (Tolfo, 2022). 

Nei racconti orali, le anguane attraevano e infatuavano con il loro canto giovani uomini di ritorno dal lavoro nei campi per soddisfarne i desideri sessuali,  smembrarli e ucciderli. Erano le deviazioni fatate-fatali, le figure a cui dare la colpa per azioni peccaminose. In altre narrazioni, le anguane assumevano sembianze umane perfettamente integrate e mimetizzate nella società: accettavano di sposarsi e di fare figli, con il vincolo che il marito rispettasse un accordo di segretezza per un tempo pattuito, pena il disvelamento della natura mostruosa dell’amata. In ogni racconto, in linea con il mito di Melusina, l’accordo veniva puntualmente violato facendo precipitare la trama verso conclusioni tragiche, spesso con la decisione dell’anguana di lasciare la famiglia o di uccidere il marito. Ancora, in uno dei più antichi racconti ambientati nelle Dolomiti, la Saga dei Fanes, l’anguana è descritta come donna delle acque e dei boschi, capace di predire il futuro. 

L’anguana compare e scompare tra le grotte, i racconti e i modi di dire tipici del dialetto che va scomparendo: resto di una tradizione orale e di una lingua parlata pregna di necessità pratiche e concrete. Fatto di riferimenti tangibili e comunicazioni brevi e impellenti, il dialetto si forma nella compresenza di corpi in prossimità tra loro. La parlata popolare si muove con le persone e con le cose che cambiano, con le urgenze e i paradossi di una società che si parla sempre più spesso online. Il dialetto è ormai la lingua vecchia, quella che si conosce, che viene compresa ma che non si parla più. È lingua fantasma, presente ancora nelle vecchie voci delle nonne, nella sintesi dei detti locali. Nel dialetto, la lingua si articola con parole asciutte, «si affida al lavoro minimo, corre lungo la curva più efficace per inseguire la materia nascosta. Il dialetto e la poesia: insieme possono far saltare tutto» (Porcelluzzi, 2022). 

L’anguana, in dialetto, si tocca; è materia nascosta che si rende percepibile. Dentro la negazione del sigàr come n’anguana c’è un suono presente e contemporaneamente inascoltabile, c’è un riferimento inudibile a qualcosa di stonato e zittito. Come la voce troppo squillante di una bimba troppo esuberante che chiama troppo forte nelle scale di un condominio del profondo veneto durante “l’ora del silenzio”, l’anguana è una voce che non rispetta i codici acustici dell’ambiente in cui vive. Voce fuori contesto, che parla fuori dal coro; che urla e chiede di ascoltare e di rispondere.

Dalle grotte, le valli e i ruscelli, l’anguana parla seriamente, crea interferenze nel mondo visibile e udibile. Traccia sentieri attraverso affascinanti luoghi umidi, alle volte bui e freddi, altre volte morbidi e caldi. In accordo con la toponomastica mi suggerisce di andare lì, in quei topoi, a cercare come suona quel suo sigo – per imparare ad urlare come lei.

 

Anguane e unicorni – ascoltare l’inudibile

Una serie di spettri sonori mostrano alcune registrazioni nei luoghi delle anguane.

FOTO 1 — Buso de le Anguane, Crespano del Grappa (TV)
FOTO 2 — Valletta delle Anguane, Corsara di Marostica (VI)
FOTO 3 — Buso delle Anguane, Corsara di Marostica (VI)
FOTO 4 — Grotta delle Anguane, Valdagno (VI)

Si nota una separazione dello spettro sonoro tra arancione/giallo e blu, tra caldo e freddo.

Visualizzazione di ciò che vibra e ciò non lo fa; o lo fa, ma troppo lentamente per essere percepibile dal microfono o dal mio orecchio. Divisione tra ciò che è udibile e ciò che è inudibile. 

Nello spettro, l’inudibile è uno spazio che ha un proprio colore, una densità e una presenza. Esiste. È ciò che suona ma che non viene sentito. È un “luogo della percezione” da cui il mondo si manifesta sia nelle sue possibilità, sia nelle sue impossibilità (Voeglin, 2014). Si manifesta in ciò che non esiste perché passa inosservato, oppure in ciò che viene immaginato e che potrebbe mostrarsi possibile. 

È il luogo da cui l’anguana grida quel grido inascoltabile.

Ascoltare l’inudibile, secondo Salomé Voegelin, significa ascoltare il suono dell’unicorno, cioè accedere in una possibilità nell’impossibilità: l’inesistenza nel reale della creatura dell’unicorno fa sì che questo nome, “unicorno”, non debba esistere in carne ed ossa per esistere comunque nell’immaginario. Basta nominare e ri-nominare l’unicorno perché esso esista: l’atto del dare un nome crea una referenza che, seppur invisibile, diventa reale. 

«We can consider the inaudible, the sound of the unicorn, as a sonic myth that while unheard is nevertheless real and deserves a name through which it becomes accessible as a possible impossible and gains its generative power to infiltrate a sonic imagination and make itself heard» [1].
(Voegelin, 2014)

Il processo di denominazione nel paradigma acustico è utile per muoversi dentro lo spettro, tra  l’inudibile e l’udibile, e interrogarne i confini: nominare i suoni non per rappresentarli e sintetizzarli, ma per aprire l’udito nella continuità dell’ambiente sonoro in cui io sono costantemente immersa:

~ fischio, fruscii, foglie, aereo, scricchiolii, sfiato, campanellini, rombo, boato, voci acute in lontananza ~

Nomi che suonano: arrivano, accadono e cadono. Cose che, nel momento in cui le nomino, si posizionano in mezzo al discorso, in mezzo ai reciproci mondi sonori. 

~ ora puoi sentire che c’è un fruscìo specifico nell’ambiente in cui stai leggendo – un fruscìo che esiste anche se lo immagini ~

Da qualche parte della percezione, quel suono compare e scompare. E intanto ci allineiamo in un tempo presente – effimero, instabile e intersoggettivo. Stiamo insieme.

Percepire l’inudibile, ovvero il suono dell’unicorno, è quindi una pratica di sensibilità sonora che inventa, usa, cambia e inverte i versi e le parole – nominando e rinominando. Cambiando nome, l’anguana/vivena/subiana esiste. Innesca un’immaginazione sonora che rende il suo grido possibile da ascoltare.

Nella sfera acustica, l’atto del nominare è profondamente intrecciato a quello dell’ascoltare. Sono due pratiche intrinsecamente relazionali perché permettono di accedere a mondi sonori di altre persone. È importante scegliere: come ascoltare, chi ascoltare e da dove ascoltare. Ovvero, collocarsi nello spazio-tempo per nominare bene decidendo, con la giusta affezione, parole non definitive. Parole che aprono, come quelle presenti in questo noto estratto del trascendentalismo americano:

«[…] Mi giunse in questo caso una melodia distorta dall’aria, che aveva conversato con ogni foglia e ago del bosco, quella parte del suono che gli elementi avevano preso, modulato e fatto riecheggiare di valle in valle. L’eco è, in una certa misura, un suono originario, e da ciò proviene la sua magia e il suo fascino. Non è meramente una ripetizione di ciò che vale la pena di ripetere nella campana, ma in parte la voce del bosco; le stesse banali parole e note cantate da una ninfa dei boschi».
(Thoreau, 1920)

Qui Thoreau descrive l’esperienza percettiva dei suoni delle campane che lo raggiungono in mezzo al bosco quando il vento era favorevole. Per ascoltare, Thoreau sposta l’orecchio e insegue l’aria. Il suono “conversa” con “ogni foglia e ago” e arriva a chi ascolta. Il corpo che ascolta è un corpo che percorre gli stessi sentieri del suono. In una parola presa in prestito dall’antropologo Tim Ingold (2011), il corpo che ascolta è un corpo ensounded (en: mettere dentro, essere dentro; sounded: suonato).

La compositrice e musicista Pauline Oliveros (2005) ha dedicato la sua vita a percorrere gli stessi sentieri dei suoni; ad attraversare stati percettivi uditivi, inventandosi pratiche per trasformarsi-muoversi con i loro. Il corpo che cercava Oliveros era avvolto, aperto e attento ai suoni circostanti e a quelli inudibili della memoria, del ricordo del passato e del futuro. Dalla pratica sonora, Oliveros ha articolato una teoria sull’ascolto, nominandola Quantum Listening: un ascolto “quantico” che simultaneamente crea e cambia ciò che percepisce (2022).

As you listen, the particles of sound decide to be heard. Listening affects what is sounding.
It is a symbiotic relationship. As you listen, the environment is enlivened. This is the listening effect [2].
(Oliveros, 2005)

Essere all’ascolto significa essere in una  spazialità in cui l’ascolto ha luogo contemporaneamente all’evento sonoro dove diventa impossibile separare il soggetto all’ascolto dal soggetto dell’ascolto, il soggetto percepente dal suono percepito, perché l’ascolto si co-costituisce con il suono. 

Il suono è un mezzo dentro cui percepisco il mondo. Ascolto e mi muovo con i suoni, nomino, e i suoni si ricollocano. Dunque, nominare ed ascoltare sono due pratiche che si intrecciano in un corpo ensounded, un corpo che cerca il grido dell’anguana. 

Chissà se l’anguana vorrà farsi sentire.

Alleate

Residuo folklorico che vive ai margini della memoria, l’anguana ritorna nelle dissoluzioni tra i racconti della nonna, i libri in cantina, i suoni misteriosi della grotta e quelli distanti nella valle. È un eco, un resto sonoro ancora nominabile che persiste nel tempo, presente ancora per un altro po’.

Mentre suona scomparendo, l’eco mi dice quanto è grande l’ambiente in cui ascolto, quanto è distante e di che materiale è fatta la parete che si trova di fronte a me. Mi orienta. Mi situa dentro e fuori le grotte.
Nelle Metamorfosi di Ovidio, Eco è la ninfa che ripete, incapace di formulare un discorso autonomo. È colei che parla per risonanza, figura vocale che, senza scelta, ripete non tutta la parola ma parte della stessa (Cavarero, 2004). Questo fa sì che la parola stessa si spolpi di significato: nella ripetizione è solo suono senza senso. La parola si spezza, dissolvendosi in una voce mineralizzata; il corpo della ninfa si confonde con la roccia della montagna. Voce senza corpo. 

pratica ecolalica:
Occhi chiusi – colloca i suoni circostanti.
Nominali.
Ospita nella bocca ogni specifico suono. Come si muove, qual è il timbro, il colore, l’intensità.
Cambia il nome.
Unisci i suoni e inventa una melodia – questo è il tuo nuovo nome [3].

Eco non si limita a ripetere il già detto, e, con diversi gradi di latenza (ovvero il ritardo tra quel momento in cui viene creato il suono e quando viene sentito) lo restituisce spezzato, diffratto, tagliato. Eco è la voce dell’ambiente in cui quella stessa la voce è situata. Come Eco, l’anguana si fa nella latenza, in quel tempo di ritardo in cui è già morta ma continua ad esistere, in cui passato e presente si confondono. Si fa tubo connettore tra presenza materiale e immateriale, tra il detto e il non detto. Come Eco, l’anguana restituisce diversamente tutti i suoni del mondo – si fa medium di una memoria inappropriabile, che non è di nessuno. 

Eppure, la sua voce risuona ovunque.

Sta lingua la xe quela
che doparava me nona stanote
vardandome da dentro la soàsa.
La boca stava sarà, le parole
mi le sentiva ciare.

Me nona
la ga imparà sta lingua da le anguane
che vien zo da le grote
co sona mesanote
caminando rasente le masiere:
e da le róse
dove le lava fódare e nissói
se sente ciof e ciof sora le piere
e te riva un ferume de parole
supià dal vento
che zola par le altane.

Me nona
se ga levà na note co le anguane
par vegnere in sità.
Par paura dei spiriti che va
de sbrindolon tel scuro
la diseva pai trosi la corona.
La xe rivà de matina bonora:
subito dopo un brolo de pomari
ghe iera case e case da ogni banda.

La domandava el nome de na strada,
scoltando na sirena
la xe rivà in filanda.
«Senti sta tosa come che la parla»,
i pensava vardandola tei oci
i botegari e i coci,
«la pare un stelarin che vien dai orti»…
Sta lingua
la so ma no la parlo,
la xe lingua de morti.

(Bandini, 1994) [4]

Questa poesia di Bandini, intitolata Sta lingua, si apre con l’immagine di una voce che provenire da una bocca chiusa: è la voce della nonna che la ga imparà sta lingua da le anguane, ha imparato la lingua dalle anguane. Si riferisce al dialetto, la lingua de morti. Dentro la poesia, la voce della nonna diventa plurale, risuona ovunque: un ferume de parole/supià dal vento/che zola par le altane, il recitare intimo e monotono di una preghiera, la voce di una sirena che nelle prime luci dell’alba indica la strada e una voce che la pare un stelarin che vien dai orti. Tutte voci evocate da una bocca che parla ma non si apre. “Fantasma di presenza” (Dolar 2004) che richiama la morte: la lingua dei morti, è anche la voce del morto che parla dissociata dal corpo. È l’illusione acustica del ventriloquio, in cui immagine e suono non coincidono, vanno fuori fase. L’effetto è che il suono sembra provenire da un altrove. Steven Connor (2000) descrive questo fenomeno come un’illusione ottico-uditiva: una bocca chiusa che parla, una voce che si manifesta senza una fonte apparente. Secondo Connor, il primo ventriloquio nella cultura europea è quello della pizia di Delfi, oracolo di Apollo dove la voce rivela morti e destini. Nel ventriloquio la voce ha funzione oracolare, la stessa dell’anguana quando compare nell’antica saga dei Fanes: «ben presto la stella di Dolasilla tramonterà […] La sua rovina sarà la superbia di suo padre», dice l’Anguana al protagonista Ey de Net. 

In questa raccolta romanzata di leggende e mitologie della popolazioni ladine, l’anguana appare anche con il nome di vivena e anticipa la caduta del Regno di Dolasilla e la morte del protagonista: «per la terza volta ti sei dimenticato delle frecce infallibili. Ora il Regno dei Fanes è perduto per sempre, e presto dovrai morire». Donna delle acque e dei boschi, si coglie molto poco dei suoi tratti corporei. Come le streghe nella tradizione europea e la pizia delfica, la sua voce è acusmatica e il suo corpo ventriloquo incarna la mediazione tra il visibile e l’invisibile, tra i vivi e i morti, l’udibile e l’inudibile.

bruxa/mes/ti/fìn/naèla
xafà/er/bischia
bruxa/mes/la/nès/poén
tà/moia/l’mís/ponen/ta
ella/fìn/sur
ti/so/mmi/
Ia/son
Ia/son/lae/ga/bís
ti/jora/mis/ti/ama
mi/ra/po/so/lo/mi/léo
e/l’a/qua? [5]

Un’altra comparsa dell’anguana si trova nel “De Ierusalem Celesti” per mano di Iacomino da Verona, un poeta veronese del XIII secolo. Il  poeta affianca l’anguana alla sirena e le contestualizza in una ricerca terminologica per la voce divina che và cercando, e che descrive escludendo:

En ben ve dico ancora en ver, sença bosia,
Ke, quant a le sue voxe, el befe ve paria
oldir cera né rota, organ né simphonia,
né sirena né aiguana né altra cosa ke sia [6]

L’affiancamento di queste due figure, “sirena” e “aiguana” (anguana), suggerisce che non sono da considerare identiche, ma possono avere dei tratti comuni. È così che, nella ricerca del grido dell’anguana, emerge un’altra alleanza, la più pericolosa. Due vocalità distinte, affiancate per non essere divine.

Le sirene omeriche erano inizialmente donne-uccello abitanti del cielo e dell’aria poi silenziate, trasferite in mare e trasformate in sinuose donne bellissime dal corpo pisciforme. Questo cambio di dimora conduce a una perdita di parola delle sirene e corrisponde anche all’affermarsi di uno degli stereotipi di genere che riducono il femminile al silenzio, a un’incapacità di pronunciare parole articolate e di produrre discorsi logici (Cavarero, 2003). Quello delle sirene, secondo la ricezione patriarcale, è un corpo silenziato; è puro vocalizzo che non si propaga più nell’aria ma entra nella densità dell’acqua, sottrae armonici, si fluidifica, si disperde e viene estraniato dalla dimensione del logos. Adriana Cavarero, ribaltando il destino delle sirene, sposta l’orecchio: smette di raccontare il canto dalla postura d’ascolto dell’Ulisse omerico, legato all’albero maestro della sua nave, e cambia prospettiva, lo racconta da quella delle Sirene, dalla potenza e dal godimento del loro vocalizzo incorporato. Il canto esiste per godere, far vibrare il corpo, vivere. In questo duetto con la sirena, l’anguana siga.

Voci vociferanti

A fianco della ninfa Eco, della pizia delfica e delle sirene, il grido dell’anguana assume delle  specifiche forme e funzioni vocaliche. Quest’ultime sono intrecci spazio-temporali tra ciò che una o più voci dicono e le modalità con cui occupano uno spazio in relazione a chi/cosa parla e chi/cosa ascolta. In breve, sono configurazioni di come una o più voci si muovono in un contesto.
Ogni volta con una configurazione vocalica differente, il grido dell’anguana sceglie quando parlare, a chi parlare, se parlare, come suonare e cosa dire. Le anguane seducono, ammoniscono, prevedono il futuro, tacciono, rivelano il passato, ripetono. Portano istanze vocaliche in relazione al loro corpo sfuggente, sempre uguale e sempre diverso. Ribaltando le dinamiche spaziali per cui il canto può non essere dedicato alla centralità dell’ Ulisse, le anguane giocano con il triangolo percettivo bocca – voce – orecchio. 

Dentro le grotte, lontano dagli occhi, si rivelano una lente – presenza latente – attraverso cui guardare e ascoltare il mondo. Pretendono un corpo ensounded e situato, disponibile a vibrare e a chiedersi quali altri corpi-suoni non stanno ascoltando. Un corpo che si sposta tra udibile e inudibile e si trasforma con i suoni.

Poi escono dalle grotte e vanno in piazza con le mammelle allungate e i piedi da capra. Invitano a tírar fora la voxe (tirare fuori la voce), par tacàr el beco (per attaccare il becco), ovvero iniziare a parlare, avviare una discussione. Interferiscono col rumore di fondo e occupano uno spazio nello spettro, uno spazio vocalico. Invocano le alleate – la ninfa Eco, la pizia delfica e le sirene – per formare un coro fuori dal coro. Per far suonare le voci stonate, fare i versi, fare clamore e godere. 

Per inventare modi di dire e di contraddire.

Note 

[1] «possiamo considerare l’inudibile, il suono dell’unicorno, come un mito sonoro che, pur essendo inascoltabile, è comunque reale e merita un nome attraverso il quale diventa accessibile come possibile impossibile e acquista il suo potere generativo per infiltrarsi in un immaginario sonoro e farsi sentire.» Voegelin S., Sonic Possible Worlds. Hearing the Continuum of Sound, Bloomsbury Academic, 2014
[2] «Mentre si ascolta, le particelle del suono decidono di essere ascoltate. L’ascolto influisce su ciò che sta suonando. È una relazione simbiotica. Mentre si ascolta, l’ambiente si anima. Questo è l’effetto dell’ascolto.» Oliveros P., Deep Listening. A Composer’s Sound Practice, iUniverse, New York, 2005
[3] Annotazione di una di una serie di pratiche vocali sonore condotte dall’artista Chiara Cecconello nei luoghi delle anguane tra il 2022 e il 2023.
[4] «Questa lingua. Questa lingua è quella / che mia nonna adoperava stanotte / guardandomi da dentro la cornice. / La bocca restava chiusa, le parole / io le sentivo chiare. // Mia nonna / ha imparato questa lingua dalle fate d’acqua / che scendono dalle grotte / quando suona mezzanotte / camminando rasente le muricce; / e dalle rogge / dove lavano fodere e lenzuola / si sente ciof e ciof sulle pietre / e ti arriva un polvere di fieno di parole / soffiata dal vento / che vola attraverso le altane. // Mia nonna / si è alzata una notte assieme alle fate d’acqua / per venire in città. / Per paura degli spiriti che vanno / a zonzo nel buio /diceva per i sentieri il rosario. / È arrivata di mattina presto: / subito dopo un brolo di meli / c’erano case e case da ogni parte. // Chiedeva il nome di una strada, / ascoltando una sirena / è arrivata in filanda. /«Senti come parla questa ragazza», / pensavano guardandola negli occhi / i negozianti e i fiaccherai, /«sembra un fiorrancino che viene dagli orti»… // Questa lingua io / la so ma non la parlo, / è lingua dei morti.» Bandini F., Santi di Dicembre, Garzanti, Milano 1994
[5] Testo del canto dalla performance Aganis di Chiara Cecconello, che ha debuttato al Festival di Arti Performative Short Theatre 2024: Viscous Porosity, con la curatela di Piersandra di Matteo.
[6] «E bene vi dico ancora in verità, senza bugia, / che, quanto alla sua voce, il suono sembrava / udire cera né ruota, organo né sinfonia, / né sirena né anguana né altra cosa che esista» Giacomino da Verona, De Ierusalem Celesti et de pulchritudine eius et beatitudine et gaudia sanctorum.

Bibliografia

Bandini F., Santi di Dicembre, Garzanti, Milano 1994
Cavarero A., A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli Editore, Milano, 2003
Coltro D., Gnomi, anguane e basilischi: esseri mitici e immaginari del Veneto, del Friuli-Venezia Giulia, del Trentino e dell’Alto Adige, Cierre Edizioni, Caselle di Sommacampagna, 2006
Connor S., Dumbstruck. A Cultural History of Ventriloquism, Oxford University Press, New York, 2000
Spada D., Gnomi, fate, folletti e altri esseri fatati in Italia, Sugarco, Milano, 1989
Dolar M., Clemente L.F. (a cura di), La voce del padrone. Una teoria della voce tra arte, politica e psicoanalisi, Orthotes Editrice, Napoli-Salerno, 2014
Giacomino da Verona, De Ierusalem Celesti et de pulchritudine eius et beatitudine et gaudia sanctorum, consultabile online al LINK (ultima verifica 02/01/2025)
Ingold T., Being Alive. Essays on movement knowledge and description, Routledge, New York, 2011
Oliveros P., Deep Listening. A Composer’s Sound Practice, iUniverse, New York, 2005
Oliveros P., Quantum Listening, Ignota, UK, 2022
Porcelluzzi N. Fare i versi. Poesia, infanzia, apocalisse.Giulio Einaudi Editore, Torino, 2022
Thoreau H. D., Proietti S. (a cura di), Walden. Vita nel bosco, Feltrinelli, Roma, 2005
Tolfo D., Le anguane, creature ai confini del contratto sociale, articolo in attesa di pubblicazione, 2022
Voegelin S., Sonic Possible Worlds. Hearing the Continuum of Sound, Bloomsbury Academic, 2014
Wolff K. F., Leggende delle Dolomiti: il Regno dei Fanes, Mursia, Milano, 2013

Chiara Cecconello è artista sonora e performer attiva tra arti visive, performative e musica di ricerca. Ha presentato i suoi lavori in diversi contesti, tra cui Errant Sound (Berlino), Short Theatre (Roma) e Ocean Space (Venezia). Dal 2019 è interprete e collaboratrice di Ari Benjamin Mayers e di altre artiste, tra cui Josephine Baan e Monica Francia/Archivia. Si è laureata nel 2023 all’Università IUAV di Venezia con una tesi su  Aganis. Performatività orali e poetiche dell’inudibile. Nel 2021 si è formata con la Socìetas al Corso di Ritmo Drammatico. Attualmente è in residenza presso MAC – Studi d’artista di Padova.