Paul Klee descriveva la pratica del disegno come «una linea che esce a fare una passeggiata fine a se stessa, senza meta» (1961). La traccia che osserviamo su un foglio nel momento in cui proviamo a disegnare una linea non è altro che il segno lasciato dal passaggio della matita sulla carta, uno spaccato del movimento della linea che in realtà non ha un inizio né una fine: esso era già avviato prima che la matita toccasse il foglio, e prosegue dopo che questa lo ha abbandonato (Ingold, 2007).
Analogamente al segno impresso dal procedere di quella linea, gli oggetti raffigurati (Figure 1 e 2) rappresentano le tracce di un movimento vitale, del tempo che – semplicemente – va avanti imprimendo di tanto in tanto segni visibili sui materiali di cui lo spazio che si abita è popolato. Si tratta di due opere rinvenute nel casolare di G., un uomo che vive nelle campagne piemontesi e che, dopo tanti anni trascorsi in manicomio, è considerato manchevole a priori, come un essere inferiore che va trattato senza troppi riguardi: spesso ciò che propone è condannato immediatamente come lacunoso o insensato, senza che sia posta adeguata attenzione alle cose – molte, troppe – che i suoi comportamenti così come i suoi oggetti esprimono.
Le due opere, realizzate a distanza di cinque anni l’una dall’altra e immortalate nelle fotografie, testimoniano la profondità dei tempi e l’originaria appartenenza dell’uomo a uno stato che non si è mai evoluto, caratterizzato dalla “giusta misura”, da una tendenza al riparare sempre facendo appello alle risorse immediatamente disponibili. Nel mondo contadino a cui G. appartiene, infatti, gli attrezzi agricoli sono oggetti “densi”, significativi a prescindere dal loro valore commerciale o d’uso. Essi sono spesso conservati anche quando divenuti inservibili, come oggetti inalienabili frutto di un’intima patrimonializzazione individuale e familiare. L’intimità deriva direttamente dall’azione produttiva e riparativa che coinvolge il corpo e la mente dell’uomo, il suo tempo, le sue competenze manuali impresse nella memoria. Oggetti così intrinsecamente legati alla persona non possono essere abbandonati, ma necessitano di essere riportati a casa e recuperati, con una finalità non pratica o funzionale, bensì simbolica e addirittura ontologica.
Riparare gli oggetti, infatti, non è che un modo per riparare il mondo e se stessi, in un continuo processo di mutua costituzione che lega uomini e cose. Fare con le proprie mani significa incontrare il mondo, mettersi in relazione con esso, esserci nel risultato materiale del proprio fare. Ripetere gesti e abitudini di lunga data, osservati sin dall’infanzia, conferisce all’uomo sicurezza ontologica e continuità, testimoniando una connessione temporale con il mondo: un legame con la propria storia e con quella della propria famiglia.
La necessità di trovare sostegno esistenziale nelle gestualità di un tempo passato si fa particolarmente pressante quando quel tempo è messo in discussione da eventi traumatici, rotture biografiche e sradicamenti – in questo caso, l’intensificarsi di una distanza dal mondo intersoggettivo e comunicabile e l’allontanamento forzato dal proprio ambiente domestico durante gli anni del manicomio. Gli oggetti riparati attraverso quei gesti sicuri e familiari diventano tecnologie del sé, che intervengono sulla propria auto-rappresentazione, traslando sul piano dell’identità e dell’immagine di sé l’atto trasformativo operato materialmente. Ecco che la pala, concepita come inservibile perché ferita, è un’opera da trasformare senza esitazione, e il gesto diviene presa di coscienza della propria persona e del proprio orientamento nel mondo. Tale metamorfosi permette a G. di impadronirsi di ciò che non è altrimenti narrabile, lo incarna nell’oggetto e traduce così in materia tangibile una cosmologia sopravvissuta a elettroshock e bagni intermittenti.
L’affinità tra le vicende dell’attrezzo agricolo e quelle dello stesso G. è suggellata dall’intervento che ne sostituisce la forma naturale con una forma immaginaria superiore, rivestendo gli antichi materiali di un significato nuovo. Sacrificando la pala, G. le imprime un’espressione che non potrà più essere contraffatta, così come la sua biografia. L’oggetto trasformato, abbandonato all’infinito, risponde per G. a istanze riparative proiettate: lui stesso ha una profonda ferita all’occhio destro prodotta da un ulcus rodens. La pala diventa così una maschera capace di risvegliare un guizzo nell’osservatore, perché porta fissato su di sé il volto di indizi di una potenza appartenuta ad un uomo perduto, fantastico.
Nell’avvicinare queste tracce materiali, siamo colti da un sentimento di inquietudine non immediatamente comprensibile, che ha a che vedere con la non integrità di ciò che osserviamo e, a una riflessione più attenta, con l’inservibilità di ciò che riconosciamo essere una pala in una forma sempre più sbiadita e astratta.
Entrambi gli artefatti possono essere – come qualsiasi immagine – guardati oppure letti: la mescolanza di lettura e visione accompagna qualsiasi sguardo sufficientemente ravvicinato a un’opera visiva (Elkins, 1999). Mentre vedere significa “guardare a” – in questo caso a una pala, attraverso un’operazione inversa a quella proiezione che ha condotto l’oggetto dalla mente di chi l’ha prodotto nel mondo fisico – leggere significa scomporre l’intero nelle sue parti e ricomporle come segni in una sequenza sintattica ordinata. Leggendo, ripercorriamo a ritroso i movimenti che hanno formato ciò che stiamo osservando.
Il primo artefatto (Figura 1) è visto e riconosciuto in maniera relativamente immediata come “pala”; a un’osservazione più prolungata, leggiamo alcuni segni – la frattura che attraversa la lama, il pezzo di ferro e il filo che sembrano volerla riparare – e ci interroghiamo sulla genesi di un oggetto che rasenta piuttosto l’idea di pala, di fatto inadoperabile. Il secondo artefatto (Figura 2) pare invece tutto spostato sul segno: intuiamo in esso una pala non già vedendola ma leggendola, individuando cioè i segni di un’idea di pala quasi teorica e ridotta alla sua struttura fondamentale. Nel passaggio dall’una all’altra immagine, l’attrezzo agricolo appare deteriorato e come regredito alle sue forme elementari – cioè, le geometrie che lo compongono sovrapponendo a una linea verticale una forma triangolare – sempre più estraneo alla sua funzione d’uso e alla sua natura strumentale.
Se collochiamo i due artefatti sulla linea del tempo biografico del suo autore, tornando a immaginarle come tracce impresse nel mondo materiale dallo scorrere della sua vita solcata dal progredire della malattia, cogliamo il movimento crescente della destrutturazione, catturata come in due fotogrammi a distanza di cinque anni uno dall’altro. L’attività tecnica che ha prodotto i due oggetti – inscritta nelle mani dell’uomo nel corso di una vita intera dedicata alla pratica – ha un carattere mnemonico che attinge direttamente al suo passato e alle gestualità apprese in seno al contesto contadino in cui è nato e vissuto. Il passato riemerge e si rivela nelle opere che G. produce, lacerate e ricomposte dai materiali di risulta che popolano il suo mondo presente.
Come su di un palinsesto, i solchi impressi di recente sono più nitidi e visibili: il rosso e il nero di membra eterogenee cucite insieme trafiggono lo sguardo e l’anima dell’osservatore, conferendo connotati mostruosi all’intera opera. Cionondimeno, emergono le tracce di incisioni passate, fruste ed erose dal trascorrere del tempo, coperte da un velo di terriccio che tradisce l’intenzione di uno strumento incompiuto. Come leggere impronte sulla superficie terrestre che le pale avrebbero desiderato penetrare, le vestigia dell’antico mondo agricolo e della sua attitudine al recupero resistono e al tempo stesso sbiadiscono inesorabilmente, così superficiali da essere sul punto di svanire, cancellate dalle intemperie dell’affezione presente.
Accanto all’analisi diacronica e in qualche modo biografica dell’artefatto e del suo processo creativo, possiamo leggere l’opera in relazione a colui che l’ha realizzata, offrendone un’interpretazione psicologica e fenomenologica. Si pone, infatti, la possibilità di immaginare la pala come simulacro di un corpo che la prospettiva soggettiva riconosce come familiare perché rotta, danneggiata: una proiezione di quel sentimento d’angoscia “ipocondriaco” (Freud, 1914; Lombardi, 2016) mobilizzato da qualche esperienza della funzione corporea vissuta sempre come sull’orlo di una spezzatura o di uno spezzamento o di una brusca interruzione (Rosenfield, 1965). In questa prospettiva, G. reitera il tentativo di tenere in funzione (in vita) la pala (il suo corpo) stando al mondo con un grado di funzionamento sufficiente per poter essere socialmente accettato, seppure entro i limiti non comunicabili imposti da una foschia psicotica che pervade e sbiadisce. I rapporti figura-sfondo sono così perduti: in questo tipo di nebbia la figura galleggia (Correale, 2021) su uno sfondo che è per G. la sua cosmologia, in cui la funzione del riparare restituisce significato di essere, acquisendo così caratteristiche “magiche”. Con la sua consistenza sensibile la pala è allo stesso tempo presenza e assenza, reale ed irreale, originando lo stesso gioco paradossale di rinnegamento e riconoscimento che attribuisce al feticcio la teoria di Freud. Oggetto misterioso, bizzarro, dotato in qualche modo di “vita”, sovrannaturale come i “fantasmi” di Robertson [1].
La riflessione circa i rapporti figura-sfondo e il loro rimescolamento in relazione alla follia riporta alla mente l’opera pittorica Madman of Syracuse (“Il matto di Siracusa”) di István Farkas, conservata presso la Galleria Nazionale Ungherese di Budapest. Il pittore rappresenta il mondo del raffigurato, la sua cosmologia, priva di figure che non siano quelle a lui familiari o per lui costitutive del mondo (la sua casa, il suo cane, il suo paesaggio delimitato dal profilo dell’Etna). Anche il matto di Siracusa, rivolgendosi al cielo o al mare con un gesto che appare usuale e routinario – attorno tutto è tranquillo, il cane è sdraiato in una posa rilassata che tradisce ordinarietà –, brandisce un oggetto all’apparenza insensato e privo d’uso, che simboleggia l’insensatezza da egli incarnata agli occhi dell’altro, l’indecifrabilità delle sue azioni, l’inintelligibilità della sua esistenza. La scelta cromatica, tuttavia, suggerisce la corrispondenza o il nesso invisibile tra l’oggetto brandito e il cielo (oggetto che in tal senso lega colui che lo detiene all’universo che lo contiene). I colori della terra bruciata dal sole richiamano la barba e la capigliatura dell’uomo, che sembra fondersi con il paesaggio in cui è immerso al punto da dover essere rimarcato nel proprio perimetro da spesse linee nere come il mare, sintomo della precarietà di contorni sfumati che richiedono rinforzo e sforzo osservativo. La focalizzazione del pittore/ osservatore – che verosimilmente distilla da una scena realmente osservata non già il mondo di cui è stato testimone, bensì il mondo che il protagonista del quadro esperisce, cristallizzandolo in un’immagine – costituisce sforzo analogo a quello sin qui condotto: la ricostruzione di un paesaggio esistenziale suggerito da pochi, simbolici e instabili indizi, invisibili alla più parte delle sensibilità. L’analogia, tuttavia, procede per un verso in un certo senso speculare o inverso: laddove si è partiti dall’interpretazione degli artefatti di G. per ricostruirvi attorno significati e mondi possibili, Farkas pare muovere dal contesto mediterraneo di contorno e ambienta, al suo interno, il mondo autoreferenziale e impassibile del “matto di Siracusa”, sino a raffigurarlo in un oggetto ermetico forse mai esistito od osservato, fulcro di una stramberia indicibile e muta che qui trova espressione. Entrambi i movimenti – centrifugo nel caso delle pale di G., centripeto in quello del quadro di Farkas – rappresentano un tentativo di comprensione e di contestualizzazione che prendono le mosse da note categorie preferendovi chiavi di lettura soggettive, mosse da un esercizio di immedesimazione che è tuttavia intrinsecamente intersoggettivo, unico accesso al territorio della comprensione dell’umano capace di valicare i limiti della ragione e della sragione.
La dimensione soprannaturale e magica della pala di G. così come dell’oggetto misterioso impugnato dal “matto di Siracusa”, che legano i loro possessori alla realtà spazio-temporale in cui sono immersi, apre ad un’altra possibile speculazione, ovvero a uno strato interpretativo ulteriore che vede i due artefatti come espressione di funzioni difensive che conducono alla finzione, al fingimento immaginifico: “fare finta” di riparare un utensile agricolo per poter tornare a zappare la terra, “fare finta” di produrre un effetto reale attraverso un bastone impugnato a mo’ di scettro.
There must be some of way out of here… (Bob Dylan, “All Along the Watchtower”). “Dev’esserci una via d’uscita, c’è troppo rumore qui”: gli artefatti potrebbero rappresentare in tal senso l’esito della ricerca di una via di uscita dal mondo reale, in una sorta di irrealismo magico-fantastico per sottrarsi e prendere le distanze da un mondo irriverente e indecifrabile. In questa prospettiva costruire un mondo fantastico e per questo fittiziamente reale è un’operazione capace di normalizzare le stramberie e quanto di bizzarro abita la mente. Tipicamente, i bambini ricorrono a questo espediente immaginativo mettendo in forma attraverso il gioco le proprie fantasie, trasformando così un oggetto insignificante in un potentissimo veicolo spaziale diretto chissà dove, oppure in un’arma carica di tutta l’aggressività che non vede l’ora di prendere forma. Questa creazione di mondi assolve a temi tipici, quali ad esempio svincolarsi dalla noia, fronteggiare la solitudine, rispondere al bisogno di “costruire” un posto dove le regole possano essere infrante, allentando le costrizioni della fisica, del tempo e della disciplina impartita da qualcuno.
Fare finta consente, insomma, di sperimentarci, e sperimentandoci impariamo a modellare le nostre prospettive accordandole con le variazioni emotive. In questo processo, i modi di sentire sono armonizzati con gli strumenti espressivi, ovvero il somatico è accordato allo psichico, fino a quando il percorso ci porta a sentire che cosa proviamo, a comprenderlo ad un livello astratto che può essere ripreso e ripensato, fino a percorrere la strada inversa (se riusciamo a immaginare con sufficiente intensità una forte nevicata, potremmo sentire freddo). Allo stesso modo, se un soggetto riesce ad immaginare la pala funzionante perché è riuscito a ripararla o a renderla una pala speciale, è possibile che possa figurarsela come l’oggetto capace di operazioni che disvelano quegli scenari sfocati che gli sono di contorno, ma che sono anche la sostanza di un mondo che la persona ha visto, sentito, che le hanno raccontato o da cui è sempre stata esclusa… In questo processo trasformativo, il continente dell’Inconscio o del profondo non altrimenti comunicabile, la forza oscura capace di dare origine agli atti umani, è trasferito in azioni che modellano la materia così come la mente traduce i pensieri in parole, disegni, suoni o altra forma espressiva.
Nell’esplorazione dei molteplici strati interpretativi, delle “versioni” dell’artefatto nelle sue multiformi rappresentazioni, stiamo in qualche modo cercando di svelare, dietro le fattezze di una pala o di uno strano bastone, l’anima, ovvero l’identità non solo di un uomo, ma anche di tutto un mondo, di una cultura, di una storia che di quell’uomo rappresentano le propaggini spazio-temporali. Introdursi in questo affascinante viaggio significa scoprire un punto di vista nuovo sulla storia, seguendo lo sviluppo di un’estetica che, legando all’evidenza dell’espressione artistica i nostri sensi, ci mostra un itinerario umano ed esistenziale di assoluta originalità. Cercare di capire come e con che intenzione G. abbia costruito queste ed altre pale significa probabilmente tentare di decifrare la sua inesauribile sete di libertà e di presenza (“io sono un uomo, un contadino”), intendendo per “presenza” il prodotto rappreso dal tempo e dalle tribolazioni del suo essere e dello stare nel mondo.
La distinzione fra le cose per come appaiono e la loro realtà intrinseca consente, come ci insegna Kengiro Azuma [2], di coinvolgere la relazione fra quanto è destinato a scomparire nelle pieghe del tempo o nella decadente florescenza della memoria e quanto potrà sussistere per sempre, perché narrato ovvero cicatrizzato sulla superficie corporea della materia: il significato che l’artista – Azuma, G., ciascuno e ciascuna di noi – viene a cogliere e ad esprimere.
Note
[1] Étienne-Gaspard Robert, noto come “Robertson”, fu un inventore e fisico belga che, alla fine del XVIII secolo, introdusse le fantasmagorie: spettacoli che, attraverso animazioni luminose evocate all’interno di una stanza buia per mezzo di un ingegnoso utilizzo di lanterne mobili, stoffe e trucchi sonori, affascinavano e spaventavano gli spettatori simulando il manifestarsi delle anime dei defunti.
[2] Kengiro Azuma (1926-2016), artista estremamente versatile e autore di una vasta serie di opere intitolate Mu (vuoto, assenza, essenza, invisibile, immateriale, infinito) e Yu (pieno, presenza, esistenza, visibile, materiale, finito), ha sviluppato la propria opera attraverso la bidimensionalità (superfici sulle quali l’artista interveniva “epidermicamente”, come un orafo, tradendo la sua formazione nella bottega di famiglia) e poi la tridimensionalità (sculture sempre caratterizzate da crepe, fenditure, buchi, asimmetrie, spaccature, assenze necessarie per individuare, per contrasto, le presenze). Vale la pena di richiamare, perché rilevante per la riflessione qui proposta, quanto scrisse di lui lo studioso Fabrizio Parachini: “In tutta l’opera di Azuma c’è il segno. Nelle sue sculture ha l’aspetto della materia che manca, della superficie scavata, forzata, in poche parole superata. Il corpo bronzeo diventa forma rivelatrice di ciò che veramente conta: il vuoto, l’anima, ovvero ciò che sta ‘oltre’ la nostra esistenza visibile” (Parmiggiani, 2009).
Bibliografia
Correale A., La potenza delle immagini. L’eccesso di sensorialità nella psicosi, nel trauma e nel borderline, Mimesis, Milano, 2021.
Dylan B., All Along the Watchtower, Columbia Records, 1967.
Elkins J., The Domain of Images, Cornell University Press, Ithaca, NY, 1999.
Freud S., Opere, Bollati Boringhieri, Torino, 1980.
Ingold T., Lines. A brief history, Routledge, New York, 2007.
Klee P., Notebooks Volume 1. The thinking eye, Humphries & Co. Ltd., London, 1961.
Lombardi R., Shame in relation to the body, sex, and death: a clinical exploration of the psychotic levels of shame, Psychoanalytic Dialogues, 17(3), 385–399, 2007.
Parmiggiani S., Parole figurate, Skira editore, Milano, 2009.
Rosenfield H., Stati psicotici, un approccio psicoanalitico, Armando Editore, Roma, 1973.
Andrea Barbieri è medico psichiatra presso il Dipartimento di Salute Mentale della ASL CN1 e docente di Psichiatria clinica e salute mentale presso l’Università degli Studi di Torino. Responsabile del Centro Diurno di Cuneo e della Comunità Terapeutica “Cascina Solaro” di Mondovì (CN), si occupa, inoltre, di realizzare progetti terapeutico-riabilitativi con numerosi attori sociali del territorio. A partire dalla nozione di “paesaggio terapeutico della mente” – che interseca la dimensione relazionale, affettiva e sociale dei luoghi – ha sviluppato, fra altri, il Progetto Vineyard, Scan Me! e altre iniziative legate alla montagna-terapia.