Gettare il corpo nella lotta
L’arte, il corpo, l’istituzione:l’A/Social Group dal “Frullone” alla Biennale di Venezia
di Stefano Taccone

Tra la seconda metà degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta le tendenze dell’arte a sconfinare negli spazi non deputati – della vita quotidiana e/o dell’emarginazione – raggiungono senz’altro il suo acme sia a livello internazionale sia nel nostro paese. L’Italia si distingue – tra l’altro – per interessanti esperimenti nei contesti manicomiali che, dichiaratamente influenzati dalle teorie di Franco Basaglia ed altri psichiatri che in quel periodo propugnano una profonda riforma della disciplina, affinché si cominci a guardare al folle non solo come ad un malato, ma anche come ad un essere umano che al pari di tutti gli altri presenta le sue necessità, si collocano cronologicamente pochi anni prima della legge che, portando appunto il nome dello psichiatra veneto, sopprime i manicomi. I loro artefici possono così rivendicare di aver fornito anch’essi un piccolo contributo alla causa.

La vicenda più celebre, anche perché probabilmente la più longeva (1974-1980), in tal senso resta indubbiamente quella di Piero Gilardi. Ve ne sono tuttavia anche delle altre, ancora assai poco o nulla conosciute, che meriterebbero di venire alla luce. Tutta da studiare resta, ad esempio, la coraggiosissima esperienza di una allora giovanissima artista napoletana come Franca Lanni, che prima opera in solitudine presso l’Ospedale Psichiatrico di Aversa e poi si associa ad un’altra giovanissima artista sua conterranea, Renata Petti, per condividere il lavoro presso Ospedale psichiatrico “Frullone” di Napoli (1971-1975). A quest’ultimo è legata anche la più nota, benché comunque lungi dall’essere adeguatamente analizzata, attività di un altro soggetto campano, l’A/Social Group, composto dagli artisti Gerardo Di Fiore, Aulo Pedicini, Carmine Rezzuti, Errico Ruotolo e dal critico, poeta e scrittore Gerardo Pedicini ed operante nella struttura psichiatrica del capoluogo tra il 1975 ed il 1977. Se il caso della Lanni e della Petti colpisce – tra l’altro – per la profonda coerenza e dedizione, per l’assoluto disinteresse a ricondurre in qualche modo una esperienza del genere all’ambiente artistico ufficiale – la loro pressoché totale assenza dalla storiografia artistica che si occupa di questo periodo, anche quella più radicalmente calata in vicende di impegno politico e di eccedenza nei luoghi del sociale, non è certo casuale -, quella dell’ A/Social Group, con la sua presenza alla Biennale di Venezia del 1976 – invitato da Enrico Crispolti, curatore della sezione italiana, Ambiente come sociale, che intende proprio fare il punto sulle molteplici esperienze di operatività nello spazio della società che, anche grazie al suo impulso di critico ed organizzatore, sono andate fiorendo negli anni immediatamente precedenti –, risulta estremamente interessante anche per tutta una serie di problemi relativamente nuovi che solleva il passaggio dal delicato lavoro quotidiano in un contesto di cura del disagio psichico a quella che è una delle più grandi vetrine del sistema artistico internazionale – malgrado l’intera operazione di Crispolti contenesse insita in sé tale sfida.1

Sulla relazione tra arte e follia, artista e folle, esiste una vasta letteratura e non è facile individuare le origini precise del riconoscimento di tale prossimità, anche perché si intreccia con l’altrettanto spinosa questione dell’individuazione del momento in cui l’arte e l’artista possono dirsi storicamente conformi alla nostra odierna concezione. Se Freud sembra additarla nel momento in cui, avendo premesso che «il poeta fa quello che fa il bambino giocando: egli crea un mondo di fantasia che prende molto sul serio»2, avverte che «L’eccesso di effusione e di intensità delle fantasie costituisce le condizioni per la caduta nella nevrosi e nella psicosi; le fantasie sono anche i primi abbozzi mentali dei sintomi morbosi lamentati dai nostri ammalati. Da qui si dirama un’ampia via che conduce alla patologia»3, la figura dell’artista non propriamente come folle, ma certo come “razza a parte dal resto dell’umanità”4 che presenta molte attitudini che ricordano quelle del folle è il soggetto che attraversa la storia – dall’antichità alla Rivoluzione francese – nel noto studio dei coniugi Wittkower. È lecito, in ogni caso, ipotizzare che una delle ragioni – magari anche non conscia – che spinge questi artisti negli anni settanta – così come i numerosi artisti che riprendono il filo di questi esperimenti nei decenni successivi – ad andare ad incontrare i folli risieda nella percezione di una sorta di – forse non sempre ben chiara neanche a loro stessi – affinità di famiglia. In essi gli artisti potrebbero rinvenire quasi dei lontani cugini, appartenenti allo stesso nucleo parentale, ma poi differenziatisi nelle rispettive scelte di vita. E chissà se l’artista non nutra persino una certa inconfessabile invidia nei confronti del folle, in quanto colui che, a differenza sua, ha avuto l’ardire di non adeguarsi alle regole del “vivere civile”, colui che non è sceso a compromessi con la realtà esterna non volendo rinunciare a quel freudiano “eccesso di effusione e di intensità delle fantasie”.

In queste considerazioni risiede senz’altro la ragione in più che può portare in quegli anni un artista a dislocare – e radicalmente trasformare – la sua pratica in un manicomio invece che, ad esempio, in un’altra istituzione totale come il carcere. Sarebbe fuorviante tuttavia sottovalutare l’altra istanza, quella squisitamente politica, che, tanto più in anni ancora profondamente connotati da lotte ed aspirazioni verso una generalizzazione della libertà e della felicità – anche se, col senno di poi, sappiamo che a metà degli anni settanta il riflusso è dietro l’angolo – costituisce una componente fondamentale per tutti gli artisti che compiono questa scelta, compresi quelli dell’A/Social Group. Le sue pratiche – come un po’ del resto tutte quelle messe in atto dai numerosi gruppi attivi in quegli anni – possono in realtà considerarsi proprio come la risultante di una sintesi, peraltro mai compiuta e definitiva, tra istanze socio-politiche ed estetico-creative, con tanto di membri che spingono più in un senso e membri che spingono più in un altro, in una dialettica che ora può essere molto feconda ed ora può essere occasione di frattura e quindi di blocco.

L’“ala politica” dell’A/social group è quella di G. Pedicini e Ruotolo. Entrambi fortemente implicati nella militanza in un P.C.I. allora all’apice della sua forza, il primo è il vero e proprio teorico e promotore del gruppo, mentre il secondo traspone nell’impresa la medesima, profonda eticità che sempre pervade la sua vita e la sua opera, ma, pur essendo un artista di un certo talento, sembra più esteticamente inibito degli altri tre colleghi, forse per prudenze politiche, ma forse anche per la minore congenialità della situazione rispetto alla sua specifica poetica, oltre che al suo carattere. L’“ala estetica” è quella di Di Fiore, A. Pedicini e Rezzuti. Quest’ultimo condivide con G. Pedicini il senso di incertezza e di travaglio che pervade gli artisti in quel territorio e non solo durante quegli anni, un momento di profonda interrogazione sul senso o meno di continuare ad operare in un certo modo e/o sulla possibilità di battere nuovi sentieri – il progetto del “Frullone” costituisce appunto il tentativo di fornire una risposta a tutto ciò -, ma, rispetto a G. Pedicini, è molto più fermo nel rivendicare la permanenza di mezzi ed obiettivi estetici; d’altra parte l’opzione dell’A/Social Group può essere letta anche come una sorta di radicalizzazione e politicizzazione di una vocazione all’espansione nell’ambiente già attiva da anni nel suo lavoro, benché ancora sostanzialmente investita in contesti convenzionali. Di Fiore è forse il più consapevole e maturo di una pratica artistica non più fondata sull’oggetto e sull’esposizione, ma giocata attraverso il comportamento ed in un contesto non preparato ad accoglierla, ma da sfruttare anche nelle sue potenzialità di opposizione e resistenza all’elemento divergente della creazione, forte della memorabile scuola che ha costituito per lui, all’inizio del decennio, la partecipazione alle attività della Galleria Inesistente5 dell’eccentrico artista italo-americano Vincent D’Arista. A. Pedicini, fratello di G. Pedicini, è sostanzialmente uno scultore, benché molto attento ai fermenti internazionali allora di punta e da tempo approdato a modi che nel loro assemblaggio di oggetti quotidiani e materiali estranei alla tradizione artistica lo approssimano ad esiti “nuovorealistici”, benché poco prima del “Frullone”, in occasione della storica collettiva di Marigliano, Napoli Situazione 75, abbia già sperimentato, sempre conservando la traccia dell’originaria ricerca di carattere plastico, il linguaggio della performance.

La presenza del gruppo al “Frullone” si connota così come attività di convivenza e condivisione – prima ancora che di sollecitazione estetica -, a partire dalla strategica, fondamentale relazione che essi instaurano con l’équipe medica del centro, che, guidata da Sergio Piro – il quale già da alcuni anni ha scelto di seguire le orme di Basaglia nel solco della psichiatria alternativa -, si dimostra mediamente alquanto aperta e disponibile a sperimentazioni inedite, nonché votata già di per sé ad un superamento dei tradizionali metodi repressivi – «al “Frullone” non si respira aria di istituzioni», chiarisce di seguito il primo dei numerosi documenti prodotti dal gruppo, «L’équipe è formata da psichiatri che negativizzano il loro ruolo storico e già ne percorrono uno diverso».6 Gli artisti partecipano alle loro riunioni ponendosi più in ascolto che prendendo la parola, persuasi che, almeno all’inizio, vi sia assai più da imparare che da insegnare – d’altra parte uno degli psichiatri, Gian Mario Borra, non manca di sottolineare lo «stimolo per un lavoro qualitativamente migliore per l’équipe».7

Tuttavia incontri ravvicinati avvengono non di meno quotidianamente anche con gli “psichiatrizzati” – ché, come afferma perentoriamente l’incipit del primo documento, «Operare nelle istituzioni totali significa vivere direttamente con i “malati” e partecipare attivamente alla loro rabbia»8 – cercando di stabilire un dialogo e perseguire momenti di integrazione, se non proprio di identificazione – di «necessità di partire dall’identificazione col negativo storico (gli esclusi, cioè dalla condizione della solitudine del malato mentale) per un’effettiva riappropriazione del termine humanus»9, si legge nel loro Schema di lavoro –, e riscuotendo in definitiva esiti non certo scoraggianti, pur non mancando episodi di tensione – come quando uno di essi lancia delle pietre contro Ruotolo rischiando di ferirlo seriamente. L’obiettivo dell’identificazione implica, d’altro canto, come recita il primo punto del medesimo Schema, il «Rifiuto di identificazione di un ruolo»10, il rovesciamento, come afferma il contributo esplicativo dell’esperienza del “Frullone” nell’incontro con la Fabbrica di Comunicazione di Milano, di «ogni possibile o prevedibile funzione naturaliter storicamente determinata fino a noi dell’artista».11 Se non è lecito dunque ritenere che si stia parlando di una prospettiva di abolizione dell’artista come specialista separato, egli si sta quantomeno imponendo da sé un passo indietro. Per Crispolti da ciò discende, del resto, anche il loro proporre «qualcosa di radicalmente diverso sia dal semplice impiego del mezzo estetico a fini terapeutici, sia dalla ricerca ormai ben vecchia della produttività estetica dell’alienato, sia infine dalla semplice che a volte finisce per essere prevaricatoria, giacché appunto strumentalizzante, “animazione” nel campo dell’ospedale psichiatrico».12

Infine, poiché, come proclama la loro Dichiarazione di esistenza, l’intera operazione lancia la proposta di «nuova dimensione del concetto di cultura», in quanto fondata sul «lavoro di base nel territorio» – che diviene così «schema reale per un’analisi dei meccanismi escludenti e per un’ipotesi di direzione di lavoro che unifichi e sviluppi forze e determinanti diverse per configurare un’immagine nuova della società» – la loro esperienza trova continue occasioni di socializzazione attraverso dibattiti organizzati «in scuole, in comitati di quartiere, in organizzazioni democratiche»13 – «in pochi mesi sono riusciti a non farci sentire isolati e a creare una serie di rapporti con l’esterno»14, commenta ancora Borra.

La crescente familiarità e sicurezza che naturalmente genera il prolungarsi della frequentazione induce però ben presto a ritenere possibile anche cominciare ad osare comportamenti un po’ più audaci, allentando, almeno in parte, il controllo del proprio prepotente estro creativo. Di Fiore, ad esempio, recupera un vaso vacante dal giardino e, dopo essersi integralmente denudato – riferimento alla nudità degli ospiti del manicomio – vi “pianta” se stesso, come fosse un albero o qualunque altro vegetale, esplicitando la forma di vita che sta mimando attraverso un cartello appeso al collo con la scritta: “vita vegetativa”. Si tratta di un gesto che possiede una valenza tanto di denuncia che di sollecitazione comunicazionale, sia pure non verbale: se infatti l’allusione è alla degradazione del soggetto umano a puro essere vegetante, deprivato della possibilità di esplicare liberamente le sue facoltà non – o non solo – a causa della malattia, ma del trattamento repressivo che aggrava i suoi sintomi piuttosto che attenuarli, l’emulazione a catena che suscita tra gli abitanti dell’istituto, intenti alla ricreazione nel cortile, dimostra che l’artista ha colpito nel segno, toccando le corde della loro complicata ma spesso intensa ed imprevedibile sensibilità. Rezzuti punta invece sul fascino del colore, l’intenso rosso dei copiosi cuoricini di cartone attraverso i quali traccia un percorso che dall’ingresso del “Frullone” conduce ad una panchina sulla quale sono adagiati due cuori più grandi, ma anche nella sua operazione c’è un voler dire qualcosa, magari in termini più soffusi e poetici e meno crudi rispetto al collega Di Fiore, sulla condizione di minorità coatta dei degenti psichici, i quali, sensibilmente attratti da tali forme, si affrettano a raccogliere i cuoricini per il mero gusto di tenerli tra le mani. La semina rimanda infatti alla caduta dell’umano in contrapposizione alla sua potenziale ricchezza – «sapendo che l’uomo è infinito», è scritto a mano su di uno dei cuoricini. Il tentativo di più piena, immediata identificazione viene però probabilmente da A. Pedicini, il cui apparente avanzato egotismo nel porsi davanti ad uno specchio e prendere ad intonare una insistente nenia anaforica – «io storico, io filosofico, io psicologico, io antropologico…» – corrisponde in realtà al collasso totale di ogni traccia identitaria, alla radicale, nefasta spersonalizzazione che il manicomio produce. La documentazione di ognuna di queste azioni viene poi esposta alla Biennale di Venezia insieme ad un’opera di Ruotolo – che invece all’interno “Frullone” non mette in atto alcun intervento individuale -, frammenti di foto di un malato cui è giustapposta la scritta “Volontà di ricostruire”. Le modalità compositive dei suoi consueti pianali pittorico-oggettuali, di cui quest’opera sembra tradire un’eco, sono poste così al servizio di una fase che, già sostanzialmente consumato il momento della denuncia, guarda ad una possibile via di rigenerazione.

Anche l’agire più specificamente artistico – come il resto dell’esperienza – si fa infine collettivo. Si è detto della pregressa implicazione di Di Fiore nelle vicende della Galleria Inesistente. Il progetto mai realizzato – come tanti altri della compagine di D’Arista – di barrare il palazzo del Comune di Napoli con una grande croce, in segno di irriverenza e di spirito anarcoide, diviene nelle mani del nuovo gruppo espediente per attaccare l’istituzione manicomiale. Un grande telo recante la croce atta all’invalidazione simbolica è così issato davanti alla facciata del “Frullone” quasi a rivendicare una, sia pur parziale, vittoria, giacché, anche se il manicomio non è ancora realmente abolito, il loro costante impegno – unito a quello dei medici più illuminati – sta piano piano erodendo quei rapporti di dominio ed oppressione che in esso normalmente vigono, preparando in tal modo la sua soppressione materiale. Non a caso Piro considera tale operazione «a metà strada tra il sogno e la realizzazione», mentre G. Pedicini avverte che «La cancellazione non potrà che essere lunga perché ha molti sedimenti da consumare». Entrambi dimostrano comunque di intendere il manicomio e la sua cancellazione anche come paradigmi di una situazione più generale: «Ma se noi facciamo un lavoro sul territorio è il manicomio che vogliamo abolire o tutto ciò che rappresenta un piccolo modo campione?», si chiede lo psichiatra rendendo ancor più evidente l’importanza di trasmettere e discutere l’esperienza presso le realtà di base, ed il critico si dimostra in piena sintonia con lui, parlando di «un’indicazione di massima, un’ipotesi di massima che non è solo del manicomio ma che dal manicomio bisogna trasferire all’esterno per cancellare nei meccanismi mentali del singolo logori stilemi o condizioni di intima frustrazione che dovrebbero avviare il piano dell’acquisizione della coscienza».15

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A/Social Group, Cancellazione, 1976, Ospedale Psichiatrico “Frullone”, Napoli

 

Il telone crociato fa la sua seconda – ed ultima – apparizione qualche mese dopo alla Biennale di Venezia, ove viene utilizzato per la plateale azione che l’A/Social Group inscena a Piazza San Marco: esso avvolge oppressivamente tre dei suoi membri – Di Fiore, A. Pedicini e Rezzuti -, trasformandosi così da oggetto di negazione simbolica del manicomio in figura del manicomio stesso, finché gli altri due – G. Pedicini e Ruotolo -, muniti di forbici, non sopraggiungono a garantire loro il “inserimento nella realtà” – come recita il titolo dell’azione stessa -, cosicché i primi possono finalmente schizzare fuori in tutta la loro furiosa, folle, vitalità, accentuata dal curioso trucco col quale si scoprono essersi preparati per l’occasione, i volti dipinti di un colore verdastro ispirandosi direttamente ad uno degli ospiti del “Frullone”. La circostanza per cui ad impersonare i malati da liberare siano proprio i tre della pur assolutamente informale “ala artistica” del gruppo, mentre i liberatori siano interpretati dai due della pur altrettanto informale “ala politica” non può non dare adito a letture allegoriche: se tra la figura dell’artista e quella del folle si avanza ancora una volta una sorta di identificazione – anche se in termini un po’ differenti rispetto a quanto avviene in manicomio, benché forse anche possibilmente conseguenziali, giacché se lì l’artista si disidentifica di fronte al paziente onde reidentificarsi con la sua condizione, alla Biennale l’artista può, sia pure su di un piano più ideale, continuare ad identificarsi in quest’ultimo, ma difficilmente può nuovamente disidentificarsi in quanto artista -, è la politica – e quindi la lotta, la coscienza… – a far sì che le catene vengano marxianamente spezzate.

L’istanza linguistico-performativa si ibrida invece all’esigenza documentaria in un altro evento veneziano del gruppo, questa volta allestito in una zona più decentrata della città: la facciata di una chiesa accoglie la proiezione di una sequenza di diapositive che mostrano la vita degli ospiti del “Frullone”, sia quella consueta all’interno del manicomio, sia i momenti eccezionali di libertà vigilata – una gita al mare ad esempio -, mentre dall’altoparlante proviene una voce a delucidazione e commento delle immagini. Il piano incedere del racconto viene però ad un tratto turbato da uno strano, curioso, reiterato grido catturato, attraverso un registratore portatile, al manicomio, il verso tipico di uno dei malati che, nella situazione biennalistica, si carica – come del resto le stesse immagini proiettate e qualunque altro materiale che dal contesto psichiatrico si voglia trasporre a quello artistico – di una inevitabile valenza estetica. Uno slittamento tanto più propiziato dal fatto che siamo negli anni in cui si va consacrando a livello internazionale la body art, quella tendenza cioè che – tra l’altro – sembra come mettere in discussione i confini tra artista e folle che abbiamo udito tracciare da Freud, giacché molte delle sue manifestazioni parrebbero somigliare ad attitudini patologiche tanto quanto Fountain di Duchamp è prossimo a qualunque altro orinatoio. Sulla delicata questione interviene peraltro di recente uno degli artisti stessi, Di Fiore, riconoscendo «che avevamo uno sguardo condizionato dal nostro essere artisti. Ad esempio: era il periodo della body art e tra le azioni di un Vito Acconci che si confessava in pubblico su un letto nella galleria di Lucio Amelio e un malato mentale del “Frullone” non facevamo tanta differenza».16

Il medesimo discorso si ripropone per il filmato, di circa un’ora, girato dagli artisti all’interno del manicomio – ove sono documentate peraltro anche le azioni individuali e quella collettiva descritte sopra -, che, pure presentato alla Biennale di Venezia, riscuote pareri contrastanti. Franca Ongaro Basaglia – compagna di Franco tanto nella vita quanto nella lotta per l’umanizzazione delle psichiatria, essendo assistente psicologica – avanza, senza peli sulla lingua, le sue perplessità, pur premettendo di essere arrivata in ritardo e di aver visto dunque solo la parte finale. Ella rimprovera al gruppo di essersi eccessivamente concentrato, «con un’insistenza abbastanza estetizzante», su «tutte le stereotipie che presentano i malati come se si trattasse di stereotipie prodotte realmente dalla malattia e non soprattutto dall’internamento, dato che è già stato praticamente dimostrato che un’organizzazione assistenziale diversa in cui cominciano a crearsi dei rapporti diversi, reciprocamente protettivi e non di violenza, con dei progetti quotidiani che coinvolgono sempre più gli internati e il mondo esterno, queste stereotipie, per la maggior parte, spariscono». Questa apparentemente «totale oggettivazione del malato» non potrebbe che «entrare in contraddizione con lo scopo e la finalità della presenza di un gruppo di lavoro all’interno di un ospedale psichiatrico» e sarebbe ancor più grave qualora tale scelta fosse dettata dalla necessità «di utilizzare un linguaggio specifico per la Biennale» – come le stesse parole di G. Pedicini le paiono confermare – «passando letteralmente sulla sua (del malato) testa», senza che peraltro si comprenda granché circa «la partecipazione concreta dell’A/Social Group nell’Ospedale Psichiatrico di Napoli».17

La replica del gruppo, affidata a G. Pedicini, è molto secca, ritenendo «primo che abbiamo ripercorso nel filmato, per un verso, tutte le inquietudini e le problematiche dell’impatto con l’ammalato e poi, per un altro verso, abbiamo indicato le cause e le radici profonde dell’esclusione e dell’emarginazione». Una scelta dettata dalla profonda convinzione che «agire nel territorio col riportare le immagini, le più ossessive e le più incisive possibili dell’interno in scuole, nei comitati di quartiere, ecc. possa costituire un momento importante per innescare processi nuovi di conoscenza». La necessità che le immagini siano «presentative di una condizione reale e nello stesso tempo dichiarative», «un momento per la comunicazione» appare così prioritaria, in questa fase, persino rispetto all’evidenziazione dello specifico apporto operativo del A/Social Group all’interno della struttura manicomiale: «Se, in parte, scompare nel filmato la proposizione positiva del nostro intervento, ciò è in funzione della presentazione dichiarativa dell’oggetto. L’emblema cioè non siamo noi, è l’ammalato: dare le immagini dell’ammalato non significa ridurlo, ma significarlo nella sua umanità regressa, nella sua condizione d’esistenza, indicandone tutte le possibili implicazioni contestuali di fondo». Un «tentativo di problematicizzare o possibilizzare una natura e una vita diversa per il malato» che in parte motiva anche le «azioni che il gruppo ha operato all’interno del manicomio con la partecipazione degli ammalati discutendo con loro la sostanza degli interventi».18

Pur riconoscendo di aver tratto dal filmato «una sensazione in qualche modo mortificante» e chiarendo che altrettanto mortificante sarebbe assumere l’aspetto documentario «come anziché strumentale, definitivo», il filosofo campano Aldo Masullo, interviene quindi a dare man forte a G. Pedicini e compagni, fornendo – forte della sua vasta cultura e della sua egregia capacità di penetrazione analitica – una lettura dell’intera operazione in grado di porre i suoi meriti davvero in risalto. Egli insiste sul «tentativo di messa in moto di una comunicazione tra due diverse intenzioni culturali», sulla sua valenza «politica, nell’unico senso in cui si può parlare di politica a livello di esperienza quotidiana, nel senso cioè di tentare di stabilire con l’altro, con l’alterità, un rapporto che non sia un rapporto di dominio, né sia un rapporto di contemplazione; di stabilire cioè una specie di traduzione reciproca dei propri e degli altrui codici». Attraverso tali pratiche, e non «con una legge» o «distruggendo le mura puramente e semplicemente», si persegue dunque «la vera soppressione del manicomio», tanto quello propriamente detto, quanto «quel manicomio che è la vita che sta fuori dal manicomio»19 – di “manicomio sociale” potremmo parlare parafrasando la nozione operaista di “fabbrica sociale” -, un punto di vista evidentemente assai vicino a quello che abbiamo udito manifestare da Piro e da Pedicini ragionando intorno all’azione della cancellazione.

Può darsi che nelle parole della Ongaro Basaglia vi sia un surplus di prudenza, se non di scetticismo, che il rigoroso impegno nella battaglia per il superamento di una vecchia, disumana e disumanizzante, concezione della psichiatria le faccia apparire un’operazione non così progressiva l’indugiare reiterato sulle sofferenze del malato, paventando una degenerazione spettacolare. La caricata estetizzazione del brutto potrà anche aver prodotto, tanto nell’ambito di strutture di partecipazione di base, quanto nell’ambito di strutture verticistiche come la Biennale, effetti positivi sulla coscienza sociale e politica di quanti abbiano potuto fruirne, come gli artisti auspicano. La dimensione felicemente politica dell’abbattimento delle barriere, attraverso il dialogo paritetico, tra mondi diversi e distanti nella loro operazione, messa così eloquentemente in risalto da Masullo, al di là dello stesso filmato, va senz’altro riconosciuta. Il nodo del passaggio dal manicomio alla grande mostra internazionale, dalla lotta contro l’istituzione totale alla riterritorializzazione in una istituzione che non è propriamente annoverabile tra quelle totali ma non è neanche il giardino edenico della democrazia, non costituisce tuttavia nulla di facilmente liquidabile, né suscettibile di risposte definitive. Intellettualmente e politicamente onesta è probabilmente l’attitudine di chi non insabbia questa contraddizione ma la vive interrogandosi ed interrogandola.

«La diagnosi», scrive Franco Basaglia ne L’istituzione negata (1968), «ha ormai assunto il valore di un etichettamento che codifica una passività data come irreversibile, ma questa passività può essere di natura diversa e non solo, o non sempre, malata. È nel momento in cui essa viene considerata solo in termini di malattia, che viene confermata la necessità della sua separazione ed esclusione, senza che il minimo dubbio intervenga a riconoscere alla diagnosi un significato discriminante. In questo modo l’esclusione del malato dal mondo dei sani, libera la società dai suoi elementi critici e, insieme, conferma e sancisce la validità del concetto di norma da esso stabilito. Da queste premesse, il rapporto fra il malato e chi si cura di lui non può che essere oggettuale, nella misura in cui la comunicazione fra l’uno e l’altro avviene solo attraverso il filtro di una definizione, di un’etichetta che non consente possibilità d’appello».20

«L’operatività artistica»», scrive solo tre anni dopo Mario Perniola ne L’alienazione artistica (1971), «non si svolge al di fuori della società, ma all’interno di essa nell’isolamento e nella separazione: da un lato il significato di questa sua effettiva autonomia non sta in se stessa – come pretende la metaletteratura -, ma al di fuori di essa; dall’altro la società non può essere compresa senza la consapevolezza delle separazioni che si sono formate al suo interno». E ancora: «L’origine dell’arte, come categoria storica, deve essere individuata nel momento in cui essa si esprime socialmente come tale: a determinare questo momento non è la coerenza della formulazione teorica sistematica dell’arte come categoria separata, ma il processo di trasformazione storica della società che separa a poco a poco un certo tipo di parole, di comportamenti e di oggetti e conferisce loro un nuovo statuto distinto. La formulazione teorica della separazione (l’ideologia) è sempre successiva al fatto sociale della divisione ed apologetica di questo: il suo significato non può essere dunque stabilito sulla base dell’ideologia stessa».21

Il processo che tanto lo psichiatra quanto il filosofo descrivono ha dunque a che fare con una sorta di isolamento di una parte dalla totalità, di costruzione di una cittadella separata dalla generalità sociale. Certo Basaglia è portato ad adoperare termini più forti come “esclusione”, “discriminante”, ma la nozione di separazione ricorre esplicitamente in entrambi, così come se il primo rimarca il grado di rigidità che viene a delimitare il confine tra malato e sano, evocando senza adoperare letteralmente la parola ideologia, il secondo addita esplicitamente come tale la teoria che sorge per giustificare la prassi. Certo l’ideologia che agisce in ambito psichiatrico è evidentemente funzionale ai separatori, piuttosto che ai separati, mentre non pare possibile scorgere una così nitida distinzione nel mondo dell’arte. Anzi, secondo il giovane Daniel Buren, «nell’ambiente artistico il sistema è l’artista»22 – tesi da lui già sviluppata in precedenza, ma che vede naturalmente uscire rafforzata dallo sfortunato episodio del 1971 al Guggenheim, ove la censura del suo enorme, ingombrante stendardo «è stata resa obbligatoria dalla reazione di certi artisti e non in primo luogo da quel che alcuni chiamano il sistema (ossia il museo)»23 – e dunque separatori e separati in una certa misura coinciderebbero. La separazione psichiatrica si configurerebbe così come una separazione per forza laddove la separazione artistica avverrebbe, vice versa, per amore, eppure in entrambi i casi ci troveremmo di fronte ad una sorta di proudhoniano furto: nel primo da parte della maggioranza che priva una minoranza della possibilità di usufruire dei diritti concessi a tutti per legge e nel secondo da parte di una minoranza che priva la maggioranza della possibilità di usufruire dei diritti concessi a tutti per natura. Ma, d’altra parte siamo davvero sicuri che l’artista, separandosi dal resto dell’umanità, abbia assai da guadagnare e nulla da perdere?

Senza dubbio il Perniola de L’alienazione artistica – perfettamente contemporaneo (1971) peraltro, si badi, al Buren de «il sistema è l’artista» – risponderebbe negativamente. La monopolizzazione storica del significato da parte della sfera artistica comporta infatti, nel suo discorso, un parallelo e contrario azzeramento della realtà per quella sfera stessa, che diviene invece appannaggio totale dell’economia – la «separazione strutturale […] tra significato e realtà» risiede «alla base della categoria artistica».24 L’artista, in altre parole, baratterebbe il diritto ad esercitare la libera creatività, non concesso invece a tutti gli altri esseri umani, con il divieto di esercitarla se non su di un piano ideale e dunque di calare quella creatività nella realtà economica e quindi politica. Da qui discenderebbe peraltro, un po’ a sorpresa, una spiegazione alternativa ad ogni ipotesi di effettiva prossimità tra artista e folle: «il tipo umano melanconico, facilmente in odio col mondo e con se stesso, che i Wittkower chiamano “saturnino”, per quanto noto fin dall’antichità, proprio nel Manierismo» – ovvero nell’epoca che conduce a maturità il processo di separazione tra arte ed economia, significato e realtà… – «si identifica con l’artista. Non perché tra creatività e squilibrio mentale esista qualche connessione, ma perché la creazione artistica è un modo della creatività così limitato ed impotente, da suscitare in chi la pratica, unitamente alla gioia della libera attività, anche il sentimento inevitabile di uno scacco, di un fallimento umano strettamente connesso al suo esercizio».25

Senza voler accettare necessariamente l’assunto della mancanza di alcun legame, sia pure remoto, tra arte e follia, è difficile negare che tra i moventi che inducono gli artisti dell’A/Social Group, così come tanti altri loro colleghi in quegli anni – e non solo in quegli anni -, a mutare radicalmente le loro attitudini vi sia quel «sentimento inevitabile di uno scacco, di un fallimento umano strettamente connesso al suo esercizio», tanto è vero che tale mutamento si gioca evidentemente sul terreno dell’elaborazione di strategie che – adoperando il lessico di Perniola – riconducano il significato alla realtà. La disidentificazione è appunto parte di questo processo. Il successivo passaggio alla Biennale di Venezia potrebbe, è vero, sembrare un contraddittorio reidentificarsi, ma di una – feconda – contraddittorietà sono a ben vedere anche le posizioni di Basaglia e di tutti gli psichiatri alternativi come lui, i quali – almeno in ambito italiano – non mirano mai – è bene rimarcarlo – ad una soppressione tout court della dimensione istituzionale, bensì ad una sua profonda riforma. Sul piano formale – lo sappiamo – essa viene di lì a poco (1978), ma, opportunamente fedeli al monito di Masullo a non illuderci che il manicomio si superi per vie legali, sono portato a credere – malgrado la mia conoscenza non certo specialistica della materia – che la lotta su questo terreno sia, a distanza di quasi quarant’anni, ancora in corso, né temo grosse smentite dagli eredi degli psichiatri critici di allora. Come Basaglia, Piro etc. non fanno gli psichiatri convenzionali in strutture che formalmente ancora lo sono, così l’A/Social Group – al pari di tutti i soggetti individuali o collettivi invitati da Crispolti in quella estate veneziana del 1976 – ripensa, pur con tutti i limiti, la figura dell’artista in senso critico – benché non mostri un più deciso impegno sul piano di una possibile saldatura tra il motivo della critica dell’istituzione manicomiale e quello della una critica dell’istituzione artistica -, in un contesto più generale che non pare fare davvero altrettanto. Difficile ritenere che tali ripensamenti non si siano tradotti, dagli anni successivi fino ad oggi, innanzi tutto in espedienti che consolidano di fatto un sistema profondamente gerarchico attraverso l’accoglimento impoverito del suo altro. Le teorie e le pratiche avanzate dai gruppi di questi anni – anche quelli che, come il duo Lanni-Petti, allora sfuggono a Crispolti – restano in ogni caso – che io sappia – l’unico tentativo – almeno nel nostro paese e con tutte le sue inadeguatezze – di fornire una risposta autonoma e realmente alternativa sul piano della pratica artistica contemporanea alle istanze governative delle sinistre parlamentari – in particolare il P.C.I. – che allora sembrano doversi finalmente realizzare. Se già a partire dalla fine di quel decennio tali teorie e pratiche entrano in crisi e negli anni ottanta sembrano ormai lontane anni luce, le politiche culturali della sinistra – specie, dagli anni novanta, dei partiti eredi in linea diretta del P.C.I. – si dimostreranno certo più raffinate e decorose rispetto a quelle conservatrici – che non di rado guardano alla cultura stessa con diffidenza ed inimicizia -, ma certo non meno subalterne alle logiche neoliberiste di quanto non lo siano le loro politiche economiche e tutta la loro linea in generale.

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Tale distinzione tra le diverse sorti e modalità della coppia Lanni-Petti, da una parte, e dell’A/Social Group, dall’altra, non implica, sia chiaro, di per sé alcun giudizio di priorità di valore.
Sigmund Freud, Il poeta e la fantasia, 1907, trad. it. in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, vol. 1, Editore Boringhieri, Torino, 1969, p. 50.
Ivi, p. 54.
Rudolf e Margot Wittkower, Nati sotto Saturno. La figura dell’artista dall’Antichità alla Rivoluzione francese, 1963 trad. it. Einaudi, Torino, 1996, p. 4.
Per un’analisi dell’attività della Galleria Inesistente cfr. il mio La contestazione dell’arte, Phoebus, Casalnuovo di Napoli, 2013; in particolare il capitolo Al di fuori delle gallerie esistenti, pp. 99-115.
A/Social Group, Documento primo, 7/11/’75, in Id., Un’esperienza nell’ospedale psichiatrico “Frullone” di Napoli, a cura dell’Amministrazione provinciale di Napoli, Ed. Litho Sud, Napoli, 1977.
Biennale ’76. Convegno promosso dall’A/Social Group sul tema “Lotta anti-istituzionale e lavoro culturale. Relatori: G. Borra, E. Crispolti, G. Pedicini e S. Piro, in A/Social Group, Un’esperienza nell’ospedale psichiatrico “Frullone” di Napoli, cit.
A/Social Group, Documento primo, 7/11/’75, in Id., Un’esperienza nell’ospedale psichiatrico “Frullone” di Napoli, cit.
A/Social Group, Schema di lavoro, 7/11/’75, in Id., Un’esperienza nell’ospedale psichiatrico “Frullone” di Napoli, cit.
10 Ibidem.
11 Dal contributo esplicativo dell’esperienza dell’A/Social Group nell’incontro con la Fabbrica di Comunicazione, in Id., Un’esperienza nell’ospedale psichiatrico “Frullone” di Napoli, cit.
12 Enrico Crispolti, Avanguardia al Frullone, in “La Voce della Campania”, Napoli, anno IV, n. 18, domenica 3 ottobre 1976, p. 52; ora anche in A/Social Group, Un’esperienza nell’ospedale psichiatrico “Frullone” di Napoli, cit.
13 A/Social Group, Dichiarazione di esistenza, in Id., Un’esperienza nell’ospedale psichiatrico “Frullone” di Napoli, cit.
14 Biennale ’76. Convegno promosso dall’A/Social Group sul tema “Lotta anti-istituzionale e lavoro culturale. Relatori: G. Borra, E. Crispolti, G. Pedicini e S. Piro, in A/Social Group, Un’esperienza nell’ospedale psichiatrico “Frullone” di Napoli, cit.
15 Dibattito di S. Piro e A/Social Group dopo la proiezione del film Percorsi invisibili, in A/Social Group, Un’esperienza nell’ospedale psichiatrico “Frullone” di Napoli, cit.
16 Mario Franco, Tutta l’arte era dei pazzi nella Galleria Inesistente, in “Repubblica Napoli”, mercoledì 11 maggio, 2005, p. XI. http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2005/05/11/tutta-arte-era-dei-pazzi-nella.html.
17 Biennale ’76. Convegno promosso dall’A/Social Group sul tema “Lotta anti-istituzionale e lavoro culturale. Relatori: G. Borra, E. Crispolti, G. Pedicini e S. Piro, in A/Social Group, Un’esperienza nell’ospedale psichiatrico “Frullone” di Napoli, cit.
18 Ibidem.
19 Ibidem.
20 Franco Basaglia, Le istituzioni della violenza, in Id. (a cura di), L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico (1968), Baldini&Castoldi, Milano, 2014, p. 124.
21 Mario Perniola, L’alienazione artistica, Mursia, Milano, 1971, pp. 11-12.
22 Daniel Buren, Absence-présence, autour d’un détour, in “Opus International”, Paris, n. 24-25, mai 1971, trad. it. in L. Vergine, Attraverso l’arte. Pratica politica/pagare il ’68, Arcana editrice, Roma, 1976, p. 191.
23 Ibidem.
24 Mario Perniola, L’alienazione artistica, cit., p. 20.
25 Ivi, pp. 162-163.

 

 

Stefano Taccone (Napoli, 1981) è critico d’arte e dottorando in Metodi e metodologie della ricerca archeologica e storico-artistica presso l’Università di Salerno. Ha pubblicato le monografie Hans Haacke. Il contesto politico come materiale (Plectica, Salerno, 2010); La contestazione dell’arte (Phoebus, Casalnuovo di Napoli, 2013) e curato il volume Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità (Ombre Corte, Verona, 2014). Collabora stabilmente con le riviste “Segno” ed “Operaviva”.