NURTURE o dell'educazione libertaria
L’ARCHIVIO DELLE COSE CHE PASSANO
di Salvo Lombardo

Non avere paura di usare tutte le parti del corpo.
I movimenti sono grandi e lenti. Una forza mi tira in avanti e indietro
[…] e quando si trova una sorta di equilibrio, tormentare gli oggetti ormai stanchi.

immagine-1

Empirìa n.1 di Salvo Lombardo prima azione del ciclo Casual bystanders.
Ph. Valeria Collina – Festival Attraversamenti Multipli 2014

Da quasi un anno sto lavorando ad un lungo processo di indagine artistica sui concetti di percezione e reale, a partire dall’acquisizione e dall’archiviazione dei dati fisici e “storici” di una collettività. Mi interessa la possibilità di concepire la Storia (che io intendo come l’insieme delle molte storie che attraversano il quotidiano delle persone) alla luce del suo progressivo divenire inattuale; nel sedimento di ciò che è “già stato” ma oltre la sua cristallizzazione, oltre l’attitudine tirannica a fissare le cose una volta per tutte, oltre l’idea astratta di una temporalità lineare che si preoccupa di incasellare gli eventi in un continuum dato dalla giustapposizione del “prima” e del “dopo”, del “vecchio” e del “nuovo”; oltre l’uso e l’abuso di questa retorica. La prospettiva è quella di lasciare che la Storia transiti e si manifesti attraverso i corpi che la creano, e la loro “affettività”.

«L’ontologia del corpo è l’ontologia stessa: l’essere non è in essa qualcosa che preesiste o soggiace al fenomeno». Da questa idea nasce un ciclo composito di azioni performative, il cui formato è di volta in volta aggiornabile. Questo percorso riguarda anche la cura di un progetto indipendente di formazione e approfondimento per attori, danzatori e performer, articolato in periodi di media e lunga durata, attraverso il quale si sperimentano modalità e temi di studio, nella continua negoziazione dello sguardo tra docente e discenti, sempre nell’orbita del fare. Questa pratica didattica si propone di approfondire le possibilità dell’essere autore di ogni singolo partecipante, seppure nel contesto del gruppo, e di favorire un incremento autocosciente, autonomo e soggettivo di strumenti, tecniche e campi di applicazione individuali. Ciò che alimenta e instrada gradualmente l’acquisizione di possibili abilità, di proiezioni e scoperte del singolo è la comune visione di un fine. Questa esperienza di studio nasce, sopra ogni cosa, nell’impegno di un tempo e uno spazio non liberi ma liberati. Un lavoro inventato e proiettato all’invenzione. Alcune domande muovono le fasi preliminari di studio. Come costruire una memoria affettiva delle cose percepite? Si può restituire una traccia delle “cose che passano” attraverso il corpo? Si può pensare il corpo come un archivio vivente del reale? L’obiettivo è quello di pensare l’atto performativo come un evento di esistenza basato sulla decostruzione di ogni elemento della pura rappresentazioneper rimanere nel terreno dell’ essere presente.

Mentre scrivo è un processo in atto. Gradualmente si va definendo la prospettiva di poter orientare l’approccio pedagogico a seconda del suo immediato campo di applicazione, ed è questo che a me interessa. Per questo, per me, è necessario riferirsi il meno possibile ad insegnamenti e tecniche tramandate e smussare le spigolosità di ciò che è già dato. Il campo di indagine, così, diventa la relazione tra le singole individualità e il tessuto a cui è indirizzato il loro operare, la porzione di mondo alla quale si guarda. È stato necessario finora rideterminare un’idea di spazio funzionale: le sessioni di studio prevedono infatti l’alternanza di momenti di esercitazione in sala a momenti all’aperto, in spazi pubblici, urbani e non, pensati non come cornici di eventi, bensì come spazi praticati che proprio nel loro essere-attraversati possano nutrire l’atto stesso. Diventa importante, in quest’ottica, abbattere la separazione tra lo studio e la sua destinazione d’uso, tra le teorie e le pratiche. Durante la ricerca en plein air, la restituzione pubblica del processo è immediata ma al contempo occasionale e correlata alla “situazione”; i discenti si esercitano sulla riproposizione dal vero di porzioni di movimenti e gesti “qualunque” dei passanti e contemporaneamente sulla loro rielaborazione estemporanea attraverso il corpo; sperimentano le possibilità combinatorie del movimento, basate sulla ripetibilità e reversibilità del gesto, partendo dalla restituzione di dati reali. Il movimento, trascritto su un taccuino, una volta in sala viene ricomposto in forma di enunciati coreografici. La letteralità e la letterarietà degli appunti scritti sono un ulteriore tassello di ricomposizione e di analisi del movimento atto a porre problemi sulla natura stessa della scrittura, sia essa intesa in senso drammatico e non. In quest’ottica mi interessa che l’atto formativo si caratterizzi come atto cognitivo di secondo livello, intrinseco, dunque, al suo divenireperformativo.

Per tali ragioni la summa di queste esperienze non potrà dare origine a nessuna scuola. Potrà al massimo, per estensione, farmi porre solo ulteriori problematiche nell’ambito di una fenomenologia nel campo della didattica artistica. Spesso mi trovo a ragionare sulle modalità di proposizione delle sessioni di studio e sulla loro efficacia nei confronti dei discenti. Se la mia proposta debba mirare ad un processo di “educazione” o se lasciare che le conquiste e i saperi affiorino in maniera eterogenea. In tal senso sono moltissimi i dubbi coltivati e poche le certezze. «Fra tutte le incertezze c’è un punto fermo; il nesso organico tra educazione e esperienza personale»4. Finora ho tentato di intrecciare l’orizzonte immediato della mia ricerca artistica con quello didattico facendo in modo che l’uno informasse l’altro; questo legame tra i due ambiti, disattende radicalmente la possibilità di teorizzare e di indicare una linea certa, oggettiva, inequivocabile e duratura; la disattenzione alla sistematicità univoca dell’esperienza è per me motivo di gioia, strumento di liberazione! Potrò, da qui in avanti, al contrario, pormi soltanto nuove domande che andranno a sedimentarsi alle precedenti nella speranza che anche queste, nell’immediatezza dell’intuizione situata nel fare, trovino una loro collocazione. Tra le istanze della creazione, soprattutto alla luce delle produzioni novecentesche, è ancora possibile parlare di origine? Quali sono le relazioni tra «primavoltità e ripetizione»5 di una pratica come di un gesto? Nell’apprendimento di un sapere artistico quanto è importante il versante dell’erudizione? Il corpo di un performer, per esempio, ha bisogno di essere un corpo erudito? Che differenze intercorrono, in questo caso, tra cultura ed erudizione? Il bagaglio delle conoscenze può essere trasmesso? Il concetto stesso di trasmissione (che nel suo essere abusato ha assunto contorni non chiari, che vanno dal “trasferimento” al “contagio”) in una società, come quella occidentale in cui, in ambito culturale e politico, è assunto come emblema di civilizzazione – e si identifica con quello di “imposizione” strumentale – può ancora avere senso? Cosa trasmettere, a chi e in che modo? Eppure l’etimologia di trasmettere ha tra i suoi significati, in senso figurato, anche quello di lasciare andare!

immagine-2-300x225

Momento di studio en plein air durante il laboratorio Struttura Fine, Roma, Piazza S. Maria in Trastevere,
24 aprile 2015. Ph. Salvo Lombardo

Per battere il terreno di queste e altre domande mi è necessario soffermarmi proprio sul concetto di esperienza nell’ambito dell’acquisizione di un sapere. Come questa si pone in maniera dialettica tra i dati sensibili, che interessano un determinato processo di apprendimento, e la soggettività di chi li assimila. Nella pratica artistica, e nell’educazione a tale pratica, l’apprendimento di un sapere ha bisogno di basarsi sull’empirìa; non è contemplabile un mero approccio aprioristico; non si può mettere in opera il solo mondo delle idee e tuttavia c’è una spinta o una tendenza che in ogni fase della creazione artistica, compresa la formazione e l’informazione che le sono propedeutiche, tende a riferirsi a qualcosa di consolidato, ad un passato ideale che è già rovina. Spesso nelle scuole d’arte si insegnano esperienze di un passato più o meno lontano; si tratta di esperienze di seconda mano, non vissute ma solo narrate, trattenute, conservate per essere tramandate uguali a se stesse. È necessario, per me, declassare questa tendenza come forma efficace di insegnamento. Il fine non può essere il passato per il passato. Sarebbe una prospettiva sterile. E il mezzo non può svilupparsi nella sola imitazione dei modelli: sarebbe una castrazione di ogni naturale attitudine autocosciente. Non nego con ciò la possibilità di operare lungo i binari delle tradizioni, le quali, disparate, hanno il merito di lasciare tracce e di contenere le conquiste nell’ottica della produzione a venire. La temporalità in questo caso deve essere pensata, però, in senso dialettico di discontinuità e di anacronismi; per cui, parafrasando Walter Benjamin, l’eredità del passato può esistere solo come possibilità, dato che non potrà tornare mai nel modo in cui è stato vissuto. Questo se vale per le tradizioni in generale, vale soprattutto per la creazione contemporanea. È vero che nelle scuole d’arte l’orizzonte è sempre pratico e che, per questo, il problema sembrerebbe attenuato data la destinazione applicativa degli insegnamenti che in ogni caso attraversano i corpi e le intelligenze degli allievi. Ma non è utile, a mio avviso, il tentativo di rifacimento; è ingenua e superflua l’attualizzazione o l’ottimizzazione postuma di un gesto già usurato dal tempo. La prospettiva di un percorso formativo non deve essere né impositiva né cultuale. L’ambito dell’esperienza che si accresce deve riguardare allo stesso modo sia il docente che il discente. Solo in questa dialettica della parità, dove entrambi sono soggetti, per me è utile pensare al transito delle informazioni e dei saperi. In maniera non dogmatica dal punto di vista delle pratiche, non verticale dal punto di vista della relazione e non lineare dal punto di vista del tempo. Questo apre un varco verso una processualità aperta e aggiornabile dove l’esperienza tende a trasformare l’ambiente che la circonda, ed è atta a generare azioni orientate al futuro. Un cimitero, al contrario, pure se rinnovato da nuove composizioni floreali, rimarrà sempre un recinto di cose finite.

immagine-3-300x240

Marlene Dumas, The Teacher (sub a), 1987 olio su tela

.

.

Estratti dalle trascrizioni delle esperienze dei partecipanti al laboratorio Struttura fine, che ho curato a Roma da gennaio a maggio del 2015. I frammenti qui riportati, nell’ordine, sono di Carolina Farina, Fabiano Pietrosanti, Lou Andrea Dell’Utri Vizzini.
2 Jean-Luc Nancy, Corpus, Cronopio, Napoli 1995, p. 16.
3 Di seguito userò questo termine in sostituzione di scolaro o allievo. L’accezione di tale uso è da intendersi qui semplicemente in senso etimologico come “colui che impara” (in quanto soggetto dell’esperienza), e non come “colui che riceve un insegnamento”.
4 John Dewey, Esperienza e educazione, Raffaello Cortina, Milano 2014, p. 11.
Giorgio Agamben, Ninfe, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 17.

.

.

Salvo Lombardo, performer e regista. Ha studiato Filologia moderna all’Università di Catania e studia Discipline dello Spettacolo alla Sapienza di Roma. Nel 2009 si è diplomato alla Scuola d’Arte Drammatica del Teatro Stabile di Catania. Per alcuni anni lavora come attore e coreografo collaborando con numerosi artisti della performance, della danza e del teatro del panorama italiano e internazionale. Nel 2012 è cofondatore di Clinica Mammut le cui produzioni, tra spettacoli, azioni urbane e site-specific sono state ospitate in diversi festival e teatri italiani e finaliste al Premio Dante Cappelletti 2012  e Dominio Pubblico OFFicine 2014. È didatta di arti performative e ha condotto laboratori per l’Istituto Europeo del Design di Roma, per il Festival Teatro al Castello di Roddi e il Teatro Stabile di Catania.  Nel 2015 ha attivato a Roma Struttura fine, un progetto indipendente di formazione e approfondimento per danzatori e performer attraverso il quale sperimenta ed estende l’avanzamento della sua ricerca in campo artistico. Attualmente è impegnato nella realizzazione di Casual Bystanders, un ciclo di azioni, pensate in spazi pubblici, che si basano sulla percezione e la ricomposizione del movimento di “passanti occasionali”; il progetto è secondo classificato al Premio Arte nel Giardino di Irene 2015 che ospiterà la performance Empiria n.1 e sosterrà la produzione dell’ opera video One day che sarà realizzata in collaborazione con Isabella Gaffè e con l’incentivo della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e la Fondazione Irene Brin.