Una mostra sull’Africa è una mostra difficile per molteplici motivi, carica di implicazioni legate a secoli di complesse relazioni storiche, ideologiche, politiche ed economiche, di rappresentazioni stratificate da cui è difficile svincolarsi, soprattutto davanti a fatti di cronaca e all’attuale temperie politica. In concomitanza con la più grande mostra di arte africana mai proposta in Italia, Ex Africa, Storie e identità di un’arte universale organizzata presso il Museo archeologico di Bologna da CMS e curata da Ezio Bassani e Gigi Pezzoli, abbiamo avuto l’occasione di rivolgere il nostro sguardo alle rappresentazioni di cui è oggetto il continente nel contesto museale della città di Bologna. Questo testo nasce dalle nostre riflessioni riguardanti la rappresentazione dell’Africa nella sopracitata mostra temporanea: tenteremo di metterne in luce gli aspetti problematici a partire da un approccio antropologico.
Per procedere nella nostra analisi sarà utile presentare alcune coordinate teoriche che hanno guidato le nostre riflessioni. Henrietta Lidchi, nel suo testo The poetics and politics of exhibiting other cultures (Lidchi,1997), pone l’accento sulle “poetiche dell’esposizione”, espressione che si riferisce alla produzione di significati che si realizza nell’azione simultanea di più elementi, i quali concorrono a creare una rete di connessioni interne alle componenti separate di una mostra (Cfr. Lidchi,1997:168). Ciò fa degli spazi espositivi dei contesti di produzione di significati in cui tecniche di allestimento, illuminazione, immagini e testi hanno un ruolo cruciale. A fare da sfondo alle operazioni di allestimento, di cui è necessario riconoscere il carattere artificiale e artificioso, vi sono spesso dimensioni di dislocazione e ricontestualizzazione degli oggetti con cui veniamo a contatto e che sono intrinseche alla pratica del collezionare ed esporre. Nel momento stesso in cui si immettono artefatti all’interno di spazi espositivi si procede all’edificazione di una rappresentazione, ovvero una congiuntura tra artefatto e testo/contesto in cui, il più delle volte, è in atto un lavoro di codificazione – selezione e trasmissione di una prospettiva mai neutra(le) – sotto le mentite spoglie della de-codificazione. Una sorta di decifrazione che rende comprensibile ciò che abbiamo davanti ai nostri occhi (Lidchi, 1997: 175).
Sono forse elementi sufficienti, questi, a mostrare come la produzione di economie di significato, momento preliminare di qualunque esposizione, faccia delle mostre delle sostanziali costruzioni, segnate, però, da una particolare volontà: quella di naturalizzare, dissimulare tale realtà profondamente determinata.
Roland Barthes parlava del mito come di un ordine di linguaggio in cui la relazione tra significato e significante, anziché arbitraria, è dettata da una precisa ratio. E particolarmente affascinante è, secondo noi, l’idea – è Lidchi a proporla – di guardare alle esposizioni come a delle strutture mitiche che saranno tanto più persuasive e seducenti quanto più saranno abili nel naturalizzare quella ratio che è a capo dell’intera macchina mitica: quanto è culturale e storico diviene naturale, la complessità si fa semplice, intuitiva, ed è precisamente in tale candido movimento di trasfigurazione che risiedono le potenzialità del mito di depoliticizzare una narrazione e plasmare, in varia misura, la percezione del pubblico. Così ci ritroviamo nell’ambito delle politics of exhibiting, politiche dell’esposizione. A partire da queste considerazioni possiamo sviluppare un’analisi concreta dei contesti ai quali facciamo riferimento, cercando di mostrare come in essi si esplichino le politiche dell’esibizione.
Ipotesi Ex Africa
La mostra Ex Africa, presentata presso il Museo archeologico di Bologna a partire da marzo 2019, è frutto del lavoro di studiosi italiani ed europei, i quali si sono distinti nell’ambito dell’arte africana, dell’arte contemporanea e in ambito antropologico [1]. La mostra si dispiega come un percorso caratterizzato da diverse sezioni i cui allestimenti sono stati studiati per essere collocati unicamente nella struttura dell’edificio storico che ospita il museo e non sarà quindi replicabile.
Si entra all’interno della mostra tramite un enorme planisfero portoghese del XVI secolo: ci addentriamo così nell’epoca delle grandi esplorazioni. Di fianco a noi troviamo le prime raffigurazioni delle popolazioni dell’Africa provenienti dai volumi delle relazioni di viaggio dell’epoca, accompagnate da piccoli oggetti che si rivelano essere pesi per la polvere d’oro usati negli scambi commerciali.
Avanziamo nella sala e ci troviamo immersi in una foresta statue lignee, maschere dai tratti umani e animali, oggetti legati al potere e rituali funebri. La narrazione che connota questi oggetti si sofferma principalmente su un apprezzamento estetico e formale delle opere. Riguardo al significato di questi artefatti, gli apparati esplicativi dell’allestimento rimandano ad usi di tipo cerimoniale, rituale, iniziatico e tradizionale. La nostra curiosità verso questi oggetti, l’eventuale significato della simbologia, il loro ruolo sociale rimane insoddisfatta. Gran parte di queste opere sono datate al XIX e XX sec., l’epoca della spartizione del continente da parte delle potenze europee. Che impatto ha avuto l’arrivo degli europei nei confronti di queste pratiche? Sono cambiate, sono sparite? Come sono state acquisite le opere? Quale ruolo ha avuto l’appropriazione di questi artefatti in queste società? Queste domande non trovano risposta in questa mostra. L’intento è quello di valorizzare e celebrare gli oggetti esposti, ma lo sguardo e la narrazione estetica tendono a creare una dinamica percettiva autoreferenziale e perciò ambigua, rischiando di riproporre agli occhi del visitatore l’immagine di popoli fuori dalla storia. I termini che rimangono sono cerimoniale, rituale, iniziatico: definizioni, che, affiancate al termine tradizionale, ancora connotano la nostra percezione stereotipata di un’Africa tribale, lontana dalla nostra storia.
La sala successiva è dedicata alla decostruzione dello stereotipo di un’arte africana che abbiamo voluto fosse anonima, i cui autori per secoli sono stati ignorati. In questa sezione si tenta di ritrovare e di dare un nome agli autori delle opere in mostra. Si nota però che nelle targhette riferite agli oggetti, di fianco alla datazione, ai materiali e al luogo di provenienza non compare alcun nome. Seppure all’interno dell’audio-guida venga riportato, il fatto che non sia riportato nell’esposizione sembra quasi negare l’impostazione della sala.
Ci siamo chieste se in questo caso la sovrapposizione di quegli elementi interpretativi propri di una concezione dell’arte occidentale non forzi la realtà delle cose e se nel contesto preso in questione esista la concezione di autore e autorialità. Questo interrogativo sembra essere ignorato, in funzione forse di una proiezione dell’idea di “autore” idealistico romantica prettamente occidentale, proiettata su di un contesto altro.
Oltrepassando la sezione dedicata alle opere più antiche provenienti dal regno del Mali del XI secolo giungiamo alla sala in cui sono esposti quelli che vengono denominati avori afro-portoghesi: olifanti, saliere e cucchiai di pregio utilizzati nelle corti europee del XVI secolo. Essi rappresentano il primo esempio di apprezzamento delle qualità artistiche degli africani. In seguito alle prime esplorazioni nelle terre delle odierne Sierra Leone, Nigeria, Angola e Repubblica Democratica del Congo, i navigatori portoghesi si accorsero dell’abilità che gli artigiani del luogo possedevano nell’intagliare l’avorio. Da questi primi viaggi di avanscoperta si sviluppò un flusso di oggetti di pregio indirizzati alle corti europee: opere dalle tematiche e soggetti tipici delle élites europee ma di fattura, tecnica, stile e materiali africani. “Oggetti ibridi” – si dice nella mostra – “afro-portoghesi, ma in senso positivo”. Ci siamo chieste a questo proposito: esiste un sottinteso negativo nel concetto di ibrido? Incuriosite da questo dettaglio abbiamo notato che «sia gli storici dell’arte che gli antropologi hanno delegittimato la maggior parte degli oggetti mercificati inquadrandoli come manifestazioni spurie o degenerate», si è registrata infatti fino a tempi recenti una sorta di avversione all’ibridismo stilistico poiché complicava il «progetto di ricostruzione filologica delle storie dell’arte», ed entrava in conflitto con la presupposta idea di un’equivalenza essenzialista tra stile estetico e cultura (Caoci, 2008: 23). Il concetto di ibrido perciò metteva in discussione l’idea di originalità e autenticità stilistica e culturale. Storicamente quindi, all’interno della narrazione museale, le definizioni di ibrido, meticcio, sincretico hanno avuto connotazioni dispregiative, che i curatori della mostra hanno voluto contestare, riportando il discorso della mostra su di un piano capace di superare nozioni fasulle quali quelle di originalità e purezza tipiche degli identitarismi novecenteschi. Per quanto riguarda gli avori afro-portoghesi, e il contesto storico ad essi riferito, si può parlare di iniziale eguaglianza, di un primo scambio equo di opere artistiche, di un primo commercio dell’arte tra pari? Sarebbe stato interessante soffermarsi sulla questione, il contesto e gli eventuali cambiamenti nel flusso e nella ricezione di artefatti tra Europa e Africa, ma a questo l’allestimento non accenna: nella sala compare soltanto l’immagine del primo esploratore portoghese.
Guardando ai musei da cui provengono le opere, si nota che tra le 33 istituzioni prestatrici e le oltre 270 opere, sono soltanto 5 i pezzi provenienti, tramite la National Commission for Museum and Monuments, da un museo africano: il National Museum of Ife in Nigeria. La presenza di una sola realtà museale africana, unita al fatto che il comitato scientifico sia totalmente composto da rappresentanti dell’ambito accademico europeo, mostra una mancata autorappresentazione del continente africano. La sezione in cui le opere in questione sono presenti è dedicata a numerosi artefatti in bronzo della storica tradizione del Regno del Benin: statue a tutto tondo, teste commemorative di re, insegne regali, pendenti e placche, spade cerimoniali che formavano il complesso dell’arte di corte degli antichi regni del Benin e di Ife. All’interno della sala, nel tratteggiare il contesto storico a cui si riferiscono le opere, alcune simbologie ad esse legate, viene fatta una sola fuggevole citazione: il 1897, anno del saccheggio della città di Benin da parte degli inglesi. Non si accenna, all’interno della mostra, a differenza che nel catalogo, al fatto che gran parte del bottino di quel saccheggio verrà immesso sul mercato ed andrà a formare le collezioni più prestigiose dei musei etnografici d’Europa.
Dopo le sale dedicate agli artefatti lignei, maschere, statue, avori e bronzi, si giunge alla sezione dedicata ai primi incontri dell’arte africana con la cultura italiana degli anni Venti. La sala ospita la ricostruzione della prima mostra di arte africana mai avvenuta in Italia in occasione della Biennale di Venezia del 1922, lo stesso anno della presa di potere da parte di Mussolini. In questo angolo della sala vengono mostrate statuette di figure umane, oggetti rituali e votivi provenienti dal Museo etnografico di Firenze e dal Museo Pigorini di Roma e originariamente afferenti al territorio dell’odierna Repubblica Democratica del Congo.
I cartelli ci informano che gli anni che seguirono la Biennale del 1922 furono quelli del regime fascista, delle leggi razziali e ciò che viene denominata l’“avventura etiopica” e che soltanto diversi decenni dopo verrà riproposta una successiva esposizione di arte africana in occasione della mostra Arte del Congo a Roma nel 1959.
La sezione riguardante le relazioni storiche e artistiche fra Italia e Africa, in occasione della più grande mostra di questo genere, viene resa sfuggente dalla citazione di quell’ “avventura etiopica”. La mostra intera sembra parlarci delle rappresentazioni dell’Altro attraverso il medesimo (occidentale-europeo-italiano), ma quel vuoto lasciato in sospeso tra il 1922 e il 1959, quando fu di nuovo possibile pronunciare e accettare il nome dell’Africa sotto la veste dell’arte, rimane tale: iato inespresso per il visitatore della mostra, adesso come a occupazione coloniale e regime fascista conclusi, ma ormai remoti, a cui spesso facciamo riferimento con termini quasi romanzati e irreali come “avventura” e “oltremare”, “illusione” – inconscio – e “immaginario coloniale”. Un misto di errori di valutazione, desiderio di rivalsa, sconfitte e stragi. Storie per decenni taciute e rimosse, difficili incorporare e da visualizzare, soprattutto in pubblico, in una mostra d’arte, soprattutto ora.
A partire dalla sala della Biennale di Venezia del 1922, le pareti dell’esposizione sono bianche. Man mano che si procede tra le opere delle avanguardie europee verso un grande schermo, in cui si susseguono le immagini di artisti Fauves, Espressionisti e Cubisti, si entra nell’ambiente separato, immerso nel buio della sala nera dedicata agli artefatti vodu. Raccolti, gli uni ravvicinati agli altri, sono colpiti da un’illuminazione che li rende pienamente visibili. Nella prassi religiosa del vodu, questa tipologia di artefatti non viene mostrate pubblicamente: l’idea di mantenerli quindi poco illuminati, esposti in modo raccolto, è considerabile un atto di rispetto.
Nonostante nella sala compaia un cartello informativo nel quale sono descritte le peculiarità della religione e delle pratiche vodu, con finalità relative a ciò che potremmo definire di magia bianca e magia nera, il titolo della sezione, la sua collocazione e l’audio-guida costruiscono una cornice interpretativa dall’approccio prettamente estetico. La sezione infatti viene denominata “l’estetica diversa del vodu”, l’audio-guida parla di “un’estetica selvaggia”, di “un’arte materica e accumulativa che prelude alle istallazioni e all’arte performativa” di fine Novecento. Questi elementi e definizioni concorrono nel connotare la percezione del visitatore nei confronti del tema vodu secondo un’ottica specifica della storia dell’arte e della cultura occidentale, con il rischio di offuscare la visione del visitatore riconducendola a schemi interpretativi estranei agli artefatti in questione, finendo col tradire la vera funzione e valenza di quest’ultimi (Cfr. Price, 2015: 120). La divisione tra oggetto etnografico e oggetto artistico, riguardante gli artefatti esotici, emerge nei primi decenni del Novecento proprio nel periodo in cui i movimenti fauvisti, espressionisti e cubisti rivalutano, in ottica provocatoria, le qualità attribuite agli oggetti appartenenti a contesti diversi rispetto all’Occidente (Cfr. Scotini, 2017: 17).
Coerentemente con l’ottica positivistico-evoluzionista dell’epoca, che crea stadi di umanità secondo un modello progressivo e migliorativo, gli elementi riconducibili al contesto africano (le popolazioni, le religioni e i manufatti) venivano considerati come appartenenti agli albori dell’umanità (Messina, 1993: 130-131): alla Biennale di Venezia nel 1922, nel discorso di apertura alla mostra africana, si parla di «quell’arte rozza e ingenua ci riporta ai remotissimi primordi della umanità» (Bassani e Pezzoli, 2017: 33).
In modo differente rispetto a quest’ultimo approccio, i movimenti delle avanguardie europee vedono questi elementi in un’ottica di valorizzazione e positività, insistendo sulle qualità di semplicità, vivacità, spontaneità, istintualità (Messina, 1993: 130) ma anche con un alto grado di astrazione, simbolizzazione (Messina, 1993: 151) e spiritualità. Elementi sì rivalutati in contrapposizione all’artificio e al manierismo vuoto dei risultati stilistici dell’arte occidentale, ma che finiscono comunque per ricostruire lo stereotipo dell’Africa come luogo della primitività. Ed è con questa cornice interpretativa, che ha un’origine ben posizionata, di un’estetica che storicamente ha concorso a costruire un discorso universalista e assoluto sulle caratteristiche delle cose, che il visitatore entra nel mondo del vodu: allontanati dal loro contesto di origine e di significato, gli oggetti e le pratiche di queste religioni corrono il rischio di essere interpretati secondo la prospettiva che può produrre percezioni ambivalenti. Non come tentativi di ordine del reale, ma come indici di un’estetica (di una religione, di una cultura, di un’essenza) diversa, quasi rovesciata, di una spiritualità spettrale, tenebrosa, fatta di oscure pratiche quanto frutto di una superstizione fallace.
Al termine della nostra visita abbiamo discusso molto sulla resa di questa sala, se questa sala fosse una rappresentazione del vodu o la rappresentazione a cui l’Occidente è abituato o allo stesso tempo una sua nuova lettura. I termini selvaggia e diversa accostati ad estetica fanno pensare allo stesso atteggiamento che avevano i primi esponenti delle avanguardie europee nei confronti dell’arte africana. È necessario esplicitare che il riferimento alla performatività può essere considerato coerente con la logica della religione vodu, per la quale un oggetto o un artefatto acquisisce il suo potere apotropaico all’interno di un contesto di azione che lo vivifica. La cornice interpretativa estranea, in questo caso, ci allontana dal senso dell’oggetto o ci avvicina ad esso in un modo nuovo?
Oltrepassando la soglia in ombra della sala vodu si accede all’ultima luminosa sala della mostra, dedicata all’arte contemporanea, in cui sono presenti nomi di diversi artisti africani, così come diversi sono i linguaggi delle opere: da collages a installazioni, arazzi, assemblages composti da oggetti di recupero oppure da armi dismesse, ma anche esempi di pittura astratta e disegno su superfici bidimensionali e fotografie. Opere da cui emerge una critica al mondo del consumo e la denuncia delle condizioni di vita in Africa: i conflitti, l’AIDS, le relazioni storico-economiche, la colonizzazione dei canoni estetici. La collocazione e il passaggio tra l’oscurità della sala del vodu alla luminosità del contemporaneo tendono a porre in contrasto queste due realtà, sottolineando, a nostro modo di vedere, anche l’avvenuta colonizzazione dei linguaggi artistici presente nell’era della globalizzazione.
Questa è l’unica sala in cui l’arte africana parla in prima persona attraverso le opere degli artisti, ma usando il lessico dell’arte occidentale. Le opere spingono a una riflessione sulle condizioni odierne del continente. L’immagine che emerge è quella di un’Africa povera, terra di malattie e conflitti, immagine che disegna uno stereotipo a cui siamo fin troppo abituati. Lungo tutto il percorso i riferimenti al rapporto coloniale si mostrano esigui e sfuggenti, mentre in questa sala le conseguenze in Africa dell’impatto con l’Occidente sono inevitabilmente e improvvisamente evidenti. La cesura e lo straniamento prodotti da questa sezione della mostra sono una conseguenza dell’assenza di riferimenti critici al colonialismo, mancanza che si rileva lungo tutto il percorso espositivo e che denota una negazione delle responsabilità storiche dell’Occidente.
Forse non è possibile guardare a questi contesti materiali e artistici in altro modo, se non relazionandosi agli stereotipi attribuiti loro nel corso della storia. Il nostro sguardo, il nostro approccio, che dipende dal nostro posizionamento storico e culturale, forse non può essere svincolato dalla stratificazione storica dei significati che noi abbiamo attribuito all’arte africana. E parlare di arte africana e delle sue rappresentazioni nella nostra visione delle cose è un altro tipo di appropriazione e proiezione che ha origine e si riflette nel numero dei musei europei che detengono questi artefatti.
Conclusioni
Il titolo della mostra pone un accento particolare su due termini complessi, che raccontano molto dell’impostazione generale e illuminano le problematiche che abbiamo visto lungo l’analisi dei contenuti della mostra stessa: identità e universale, entrambe nozioni filosofiche moderne che l’antropologia ha messo in crisi nel contemporaneo, strettamente legate allo sviluppo dell’estetica moderna. Jean Clair (Clair, 2008), nel testo La crisi dei musei mostra chiaramente come l’ossessione per la parola “universale” volta a connotare qualcosa di così idealisticamente tanto vasto e tanto vario tradisca in realtà una concezione eurocentrica più concreta. L’Europa affida ai suoi musei la visione assoluta di poter “far passare” come veritiera l’utopia di un dialogo tra culture diverse, cercando di nascondere, o non far emergere, l’immagine latente della globalizzazione. Forse non tutti ricordano che alla fine dell’800 venivano etichettate come Esposizioni Universali tutte quelle grandi manifestazioni di arte e pittura, non per sottolineare il fatto che venivano rappresentate svariate nazioni, ma piuttosto per nascondere quei propositi coloniali su popoli e paesi che ancora non trovavano un posto al loro interno. E ancora prima ci pensarono l’Illuminismo e la Rivoluzione a elevare il concetto di universale paragonandolo a quelli di Bello, Giusto e Vero. In questo modo, tutto ciò che di artistico era delineato come bello, giusto e vero appariva anche come qualcosa di universale. Così l’arte divenne la prova concreta di una Storia Universale, ma sempre basandosi sul punto di vista europeo. Storicamente, la pretesa di universalismo delle forme di sapere occidentale si lega a doppio filo con la storia coloniale nella costruzione di un discorso oggettivante sull’alterità e sulle sue qualità. La storia del colonialismo italiano ed europeo in Africa rappresenta un grande rimosso delle coscienze collettive.
Per Walter Benjamin “i musei sono le case dei sogni collettivi”, un luogo di condivisione del sapere in cui si materializzano le certezze e i dubbi di una società. Ma a chi appartengono i dubbi o le certezze? A chi è concesso il diritto di rappresentare e rappresentarsi? Se manca una autorappresentazione del soggetto istituzionalizzato all’interno di un’esposizione, il rischio è quello di perdere la coscienza della parzialità della collettività che vi si rappresenta. Si ritorna ad essere solamente un Occidente che guarda all’Africa privandosi degli strumenti di relativizzazione che dovrebbero essere ormai bagaglio acquisito. Il mancato riconoscimento della storia coloniale favorisce questo rischio, così come l’estetizzazione dei materiali può divenire strumento di una depoliticizzazione del patrimonio culturale, che sempre per Benjamin nelle Tesi di filosofia della storia resta la preda trascinata a terra dal carro dei vincitori in trionfo.
Un’ultima fotografia, posta a chiusura della mostra, raffigura un’istallazione artistica composta da una bicicletta sommersa da una moltitudine di bagagli. L’immagine rimanda all’idea del viaggio e quindi alla rappresentazione che si ha oggi dell’Africa in Italia e in Europa, ovvero una terra di migranti. L’apparente neutralità della definizione di migrante cela oggigiorno rapporti di potere importanti, sia tra individui e comunità, sia fra stati e continenti. La mancata rielaborazione del nostro passato coloniale, unita all’effetto sublimante dell’immagine, continua a farci vedere l’Africa soltanto dal nostro punto di vista, soltanto per ciò che essa rappresenta per noi, impedendoci di vedere la realtà nella sua profondità storica e all’Africa come un luogo tutt’altro che neutrale.
Lo sguardo estetico – assunto come assoluto e universale, benché occidentale e dunque particolare – neutralizza e depoliticizza la natura dell’oggetto su cui si posa; è estraneo a una dimensione etica, possibile, invece, se si fosse scelto di trattare la relazione tra Africa e Occidente come un oggetto storico e politico. La messa in mostra dell’Altro finisce quindi per essere un gioco di proiezioni solipsistiche in una sala di specchi.
Note
[1] Il comitato scientifico della mostra è composto da E. Bassani (†), G. Pezzoli, E. Revera, B. Grunne, A. Duchateau, M. Forti, C. Di Tosto e P. Amrouche.
Bibliografia
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Scotini M., Il Cacciatore Bianco e la costruzione della preda in Il Cacciatore Bianco/ The White Hunter, Archive Books, Berlino 2017, pp. 9-21.
Melina Almada Sarnaglia, Martina Asti e Tilini Rajapaksha. In modi diversi abbiamo tutte quante trovato nelle istituzioni museali il nostro campo di interesse, sia dal punto di vista accademico che professionale. Melina, laureata in Storia e Teoria dell’Arte dal 2011, collabora alla gestione culturale di diversi musei perseguendo un’agenda collaborativa, etica e innovativa. Martina ha lavorato all’interno di istituzioni museali e si occupa di tematiche e pratiche relative all’Antropologia visiva. Tilini si è appassionata agli studi museali lavorando alla propria tesi dal titolo Oggetti in diaspora. Storie di migrazioni contemporanee attraverso il Mediterraneo.