“Miniaturizzare la storia, imponendole la casacca domestica del «tempo vissuto»:
ecco una malinconica soluzione di ripiego, da schivare con cura” (Virno, 1999: 11)
La storia dell’Italia contemporanea è fatta di lacune, di silenzi, di omissioni con la sordina, di mezze “verità” interrotte nelle gole di chi tentava di pronunciarle. Una sorta di silenzio assordante accompagna ogni evento fondante della storia, o per meglio dire, delle storie italiane. I silenzi sono materia così concreta e densa da non disegnare più un vuoto ma un pieno, intorno a cui solo a tratti, e sembra quasi per sbaglio, si addensano minuscole molecole di “detto”.
Si potrebbe iniziare dalle mancate emersioni del passato coloniale, passando per i silenzi sui crimini fascisti, per arrivare alle diverse stagioni delle stragi e del cosiddetto terrorismo. Naturalmente la lista dettagliata richiederebbe un libro, e il periodo non potrebbe finire con gli anni Ottanta, ma mi interessa arrivare proprio a quel punto: al processo di lenta e costante cancellazione di tutto quanto ha attraversato l’Italia dall’inizio degli anni Sessanta fino alla fine degli Ottanta.
La successione di deliberate rimozioni è stata costante, articolata e complessa. Ma ciò che sembra interessante in Italia è la pressoché totale cancellazione di qualsiasi iconografia manifesta, possibile figlia di quegli anni, da parte delle arti visive. Un fenomeno che in realtà attraversa l’intera relazione tra le arti visive e le storie italiane legate alle “eredità difficili” dall’unità d’Italia a tutto il XX secolo e oltre. Una pervicace capacità di ingoiare qualsiasi grido, qualsiasi persino bisbiglio su quelle storie, che prevedessero un posizionamento etico, politico e finanche culturale, salvo importanti ma rare eccezioni, domina la storia dell’arte contemporanea italiana. Solo nei primi decenni del XXI secolo un certo numero di artisti/e hanno iniziato a prendere voce su temi come il colonialismo, il fascismo o il periodo ’68 e post ’68. Per lo più donne, e per lo più italiane non residenti in Italia.
Un ruolo chiave che ha segnato un cambio davvero essenziale in questa relazione tra nuovi immaginari e dati “storici” in Italia, credo lo svolgano le opere di Rossella Biscotti, basate sempre su una meticolosa ricerca spinta verso una costante attualizzazione benjaminiana. Negli ultimi anni il suo lavoro ha attraversato tematiche che vanno dalle memorie del fascismo agli anni Settanta. La sua opera The Trial (Il Processo), prende le mosse dal noto processo detto del “7 aprile”, in cui furono imputati membri di Autonomia Operaia e Potere Operaio, che si svolse nell’Aula Bunker del Foro Italico tra il 1983 e il 1984. Paradossalmente, nonostante un passato coloniale violentissimo e vent’anni di dittatura fascista, il primo vero processo definito come “politico” in Italia, che ha avuto per questo una risonanza pubblica significativa.
L’opera è strutturalmente composta di due parti, una scultorea e una audio, ma ha prodotto diverse declinazioni interne, anche in base al luogo dove è stata mostrata. La base del lavoro è una serie di 9 calchi in cemento che riproducono alcune specifiche porzioni dell’aula bunker, e un estratto audio di circa 8 ore (in alcune versioni 6), tratto dalla registrazione diretta del processo del 7 aprile, operata allora da Radio Radicale, e oggi ancora conservata nei loro archivi. Nell’istallazione al MAXXI del 2010 l’audio era mandato nelle scale che davano accesso alla sala con i calchi, e veniva trasmesso in loop 24 ore su 24, anche quando il museo era chiuso. Nella versione a Documenta XIII di Kassel nel 2012, l’audio era ascoltabile attraverso delle piccole casse direzionate sulla parete subito prima dell’ingresso alla sala dei calchi. In ambedue le esposizioni diverse persone, all’interno della mostra, leggevano traducendo in diretta parti dei testi trascritti dalle registrazioni del processo dall’italiano originale in un’altra lingua: a Kassel ad esempio la traduzione era italiano-tedesco e italiano-inglese. L’opera ha avuto altre due fondamentali declinazioni: una a Performa a New York nel 2013 e una al Wiels di Bruxelles nel 2014. A New York il testo processuale veniva letto pubblicamente e tradotto live dall’italiano all’inglese, in una sala dove erano stati riportati panche e chiavi originali dell’aula bunker, più un video bianco e nero proiettato a parete che riportava alcune scene originali del processo, dettagli dell’architettura dell’aula bunker e una sorta di visita informale realizzata incontrando vari imputati, amici, famiglie e avvocati del tempo, sempre nell’aula bunker, dopo la mostra la MAXXI. Nel corso dell’esposizione a New York, la stessa Rossella Biscotti insieme a Yates McKee – editore della rivista Tidal: Occupy Theory, Occupy Strategy hanno creato un gruppo di lettura che poneva in relazione le teorie marxiste con il nuovo movimento statunitense di Occupy. Rossella in un’intervista per la rivista e-flux parla dell’importanza nel suo lavoro di prevedere lo spazio per lo spettatore e di aver inserito le panche proprio per far sedere gli ascoltatori. Ma la cosa che più mi ha interessato è che lei dice di aver così creato “un set” e non una “scenografia”, dando così enfasi all’agency del fruitore. La voce dei lettori, così come l’ascolto dei fruitori non è un atto finzionale, ma gli uni e gli altri si prendono la reciproca responsabilità di “dire” e di “ascoltare”, non come atti performati dell’opera, ma come gesti etici individuali, sostenuti dalla temporanea appartenenza a una comunità di “ascoltatori” e di “parlanti”.
The Trial Wiels performance
photo series 06:
Rossella Biscotti, Il Processo (The Trial), 2010-ongoing
performance with 4 typists and 23 interpreters, June 7, 2014
installation: wall, sound piece (6 hours), metal plates, electronic typewriter,
original courtroom benches and set of keys collected from the Aula Bunker at
Foro Italico in Rome, video (8’45”, b/w, no sound), event poster, performance
schedule, transcripts of previous performances
installation view: For the Mnemonist, S. , WIELS, Brussels (BE), 2014
photo: Jose Huedo
Courtesy the artist and Wilfried Lentz Rotterdam
Nella performance a Wiels diverse persone del mondo dell’arte e della cultura hanno realizzato la stessa traduzione live, questa volta dall’italiano al francese e all’olandese. In questa occasione era stata anche ingaggiata una dattilografa che in tempo reale ritrascriveva il testo letto a voce alta.
Credo che sia fondamentale partire dall’uso della voce in The Trial. La registrazione erogata nelle diverse sedi rende non solo le idee, le posizioni e le motivazioni degli imputati, ma rivela la grana della loro voce, fa trapelare le loro emozioni. Si sentono i tentennamenti, le paure malcelate, le indignazioni, la rabbia, la stanchezza. Quelle voci sono corpi, acquisiscono una corporeità che è data da due fattori: da un lato la loro presenza non più come atti processuali ma come persone, che hanno attraversato fisicamente un tempo essenziale della nostra storia, che sono state un corpo pubblico; dall’altra la necessità di sentire una voce narrante “originale”, così da poter cogliere la realtà di una parte della nostra storia che è stata cancellata con tanta attenzione da aver tolto realtà fisica ai “personaggi” che la fecero. Inoltre Rossella ha ridotto più di 200 ore di registrazione originale del processo a 8 ore. Il suo lavoro di montaggio costruisce un nuovo corpo sonoro, che non corrisponde a una testimonianza, anzi ne prende le distanze, ma lavora sulla reincorporazione nell’oggi. Le voci non devono rendere tanto “quel tempo” ma piuttosto la loro urgenza oggi, dettata dalle necessità dell’artista, nata nel 1978, cioè l’anno prima degli arresti del 7 aprile 1979 che portarono poi al processo di cui parla.
In questo trovo una magnifica coerenza tra la scelta dell’audio del processo e i calchi di solo alcuni pezzi specifici dell’aula bunker. Un calco è preso sulla scala che gli imputati fanno per salire nell’aula bunker: lo spazio del passaggio, l’interregno tra l’invisibile delle celle e il terribilmente visibile dell’aula. Un altro ricalca l’area su cui viene poggiata la sedia del Presidente della Corte, quindi una sorta di spazio discorsivo del potere. Un altro ancora la traccia in negativo delle sbarre delle celle, il confine tra un certo “dentro e fuori”. Ogni calco non è una mappa, un disegno, ma piuttosto un intervallo. Con De Certeau direi che non rappresenta un luogo ma uno spazio (De Certeau, 1990), cioè le traiettorie che i corpi vi hanno percorso dentro. I calchi incorporano i tragitti degli imputati, i loro attraversamenti corporei, e sono tanto più potenti perché sono di cemento, un materiale opaco e muto, che in genere chiude e delimita, e qui invece suggerisce direzioni di movimento, per altro aperti in quanto frammenti staccati da un grande corpo ora invisibile ma immaginificamente presente.
Quello che accadde a suo tempo in quell’aula, e quello che ne resta oggi, è l’impossibilità di dare risposte, è la paura di farsi delle domande, e quindi la creazione, prima ancora intellettuale che politica, di un enorme cratere in cui tutto è stato gettato come in un buco nero. The Trial da quello iato fa riemergere le voci, che non sono solo materialmente le voci registrate degli imputati, ma anche la grana delle loro emozioni; che sono la sensazione di poter sentire il fiato dei corpi che salivano quelle scale o le mani appoggiate a quelle sbarre assenti. Un archivio affettivo che non chiama alla memoria collettiva ma alla memoria condivisa (Margalit, 2006) perché non costruisce “documenti”, ma traccia confini estremamente opinabili e volutamente incompleti.
In un’intervista in occasione della mostra al MAXXI1 Rossella ribadisce l’importanza che ha il linguaggio in questo suo lavoro, il linguaggio politico, che non fa riferimento solo al passato, e a quell’evento specifico, ma che vive di un’attualità stringente nella nostra contemporaneità. Durante la mostra l’artista ha realizzato una delle serie di letture pubbliche dell’audio processuale, con la traduzione in diretta: una perfetta trascrizione dell’idea di linguaggio appena proposta. La questione non è solo reincorporare quel testo, recitare quel ruolo o quei ruoli, ma piuttosto rendersi conto che ogni evento ha bisogno di una continua opera di traduzione, intesa sia come trasposizione ma anche proprio come “trasporto”. L’assenza delle voci parlate in quel tempo, il silenzio gridato dalla totale mancanza di una dialettica della rilettura di quegli anni, come già detto come di molti altri passaggi politici cruciali in Italia, ha prodotto una vera e propria estetica della dimenticanza. Un’estetica che ha fatto della rimozione non una semplice assenza, ma un pieno e una forma significanti.
Rossella dice a proposito del linguaggio in The Trial: “Language is really a central point of The Trial. There is a point in the trial when a judge says to Antonio Negri, “We speak two different languages.” This is really important. In the editing process I gave Negri the role of someone who starts primarily with a political defense and tries to give both a historical and political frame of the trial. He tries to explain specific political terms to the judge, explaining phrases that he borrows from Brecht. All of this is in the trial”2 (Performa Staff, 2013).
cerca di dare una cornice storica e politica del processo. Cerca di spiegare termini politici specifici al giudice, spiegando le frasi che prende in prestito da Brecht. Tutto questo è nel processo”.
Il Processo (The Trial) – dOCUMENTA (13)
photo series 01:
Rossella Biscotti, Il Processo (The Trial), 2010 – 2012
sound piece (6 hours, loop), 8 casted sculptures, reinforced concrete, variable
dimensions, performance with simultaneous translator
installation view: dOCUMENTA (13), Kassel (DE), 2012
photo: Ela Bialkowska, Okno studio
Courtesy the artist and Wilfried Lentz Rotterdam
Ho visto The Trial nelle sale della Documenta XIII a Kassel, e sono arrivata all’istallazione di Rossella senza saperne nulla, come cerco sempre di fare in queste occasioni. Ho iniziato come tutti ascoltando l’audio all’inizio, prima di entrare nella sala con i calchi. Per un certo numero di minuti non ho capito bene cosa stessi ascoltando, poi improvvisamente, come in una sorta di rude effet madeleine ho iniziato a capire, e mi sono sentita spiazzata dall’ascolto di qualcosa di totalmente inaspettato. La prima cosa che mi è venuto di fare è stato di guardarmi intorno e di vedere le facce di chi “non era italiano” (o almeno così mi sembrava), e di provare la sensazione come di una violenza, anzi proprio di qualcuno che stava violando la segretezza e la riservatezza di una cosa che non poteva essere pubblica. Poi ho pensato: nessuno di questi capirà. Ho dato allora ascolto a quelle mie sensazioni, che ancora ora mentre scrivo sento vive. Quelle voci così dirette, parlanti, quelle voci così piene di voce e di corpo, erano imbarazzanti: come quando si parla di qualcosa che per anni in silenzio tutti abbiamo deciso, “tra noi”, di non dire a voce alta. Una precisa sensazione non mi ha abbandonata mai durante tutta la visita del lavoro: il camminare tra i calchi, l’ascolto della performance live in tedesco. E credo che questa sia per me la chiave di quest’opera di Rossella Biscotti: un profondo senso di vergogna davanti all’indicibile, all’assente che ha vissuto nelle orecchie di molti di “noi” per anni come un terribile acufene, che continua a striderci come un grido che non si placa mai, nemmeno se provi a parlargli sopra.
“In questo libro «lacuna» indica l’omissione intenzionale di parti del racconto. Prenderò dunque in esame riduzioni, abbreviazioni, contrazioni, cancellazioni, eliminazioni, abolizioni, soppressioni, scorciatoie, tagli, crepe, mancanze, di varia natura e entità. Si narra, infatti, non solo dicendo”. (Gardini, 2014: 4)
La lacuna è un’omissione che a suo modo è una narrazione. Nel lavoro di Rossella la “lacuna” ha un doppio ruolo: da un lato è la materia opaca dell’intervallo tra i fatti “di allora” e l’oggi; dall’altro è la sua stessa scelta metodologica di una ricostruzione basata sulla parzialità, intesa proprio come prelevamento solo di una parte. I calchi che “copiano” solo una piccola porzione dello spazio, e ancora più importante, l’audio che non è l’intero processo ma un estratto di alcune ore che Rossella ha scelto, ha selezionato, creando micro fratture, micro omissioni, lacune nel racconto. Raccontare non vuol dire pensare a un tutto, ma significa in primis posizionarsi, scegliere cosa dire e cosa non dire.
I calchi sono plasmati dallo sguardo e dalla corporeità degli imputati che attraversavano lo spazio dell’aula. Non c’è la possibilità, e nemmeno la necessità o l’urgenza, di riprodurre l’aula, c’è l’efficacia affettiva di evocare la spazialità emotiva di chi in quell’aula andava a discutere della propria vita.
Gli audio del processo non sono “la” traccia, sono frammenti di una materia densa che l’artista ha riplasmato perché producesse un’estetica politica. L’iperbole della “documentazione” in parte dell’arte contemporanea dopo gli anni novanta, confonde il profondo valore che la forma deve avere nell’opera perché questa abbia una sua efficacia schiacciante. Le ore pescate dall’artista nell’archivio della registrazione hanno lo stesso valore formale, e quindi essenziale, dei calchi dell’aula. The Trial non colma la lacuna ma la cambia di segno: non più rimozione che definisce l’indicibile, ma montaggio che omettendo racconta una possibile posizione.
Nel 2012 in un articolo apparso sul Sole24ore, Barbara Fässler, parlando della presenza italiana a Documenta XIII di Kassel, a proposito del lavoro di Rossella scriveva: “L’artista riempie lo spazio con calchi di cemento grezzo di dettagli presi dall’aula nella quale si svolsero le udienze. Biscotti strappa i materiali dall’oblio e li porta alla luce del giorno. Purtroppo non si evince come l’autrice pensa di elaborarli oltre lo stato grezzo nel quale li «espone» e se e come intende prendere posizione rispetto a temi caldi, ad esempio l’uso di violenza come metodo politico” (Fässler, 2012). Appare molto interessante che la giornalista si chieda che posizione politica prenda l’artista, nello specifico sulla questione dell’“uso della violenza”, e parli dei calchi e dell’audio come materiali “grezzi” solo esposti. La questione cruciale di The Trial è proprio la drammatica indefinizione che non invita a “rivedere” posizioni, o a definire verità, ma propone un vociare, sommesso ma assordante, che non si chiude mai, che non decide nulla, che non impone nessuna lettura definitiva, ma ci lascia tutti in piedi davanti a quei frammenti con l’incarico oneroso di doverli completare con i nostri stessi vissuti. Un peso che solo il cemento poteva rappresentare.
Quante volte davanti a un/una balbuziente ci viene di completare la parola, e subito dopo averlo fatto leggiamo negli occhi dell’altro che abbiamo prodotto disagio, vergogna e a volte persino dolore. Quei cementi pesanti ma incompleti, quegli audio che dicono molto, quasi troppo, ma non “tutto”, ci spingono a completare la frase, ciascuno con una propria diversa voce, che potrebbe anche essere desolatamente sola e molto ingombrante.
Il Processo (The Trial) – e-flux
photo series 02:
Rossella Biscotti, Il Processo (The Trial), 2010
ongoing performance with 2 typists and 12 interpreters, May 11-12, 2013
installation: sound piece (6 hours), metal plates, electronic typewriter,
7 silkscreen posters (100 x 70 cm), original courtroom benches and set of keys
collected from the Aula Bunker at Foro Italico in Rome,
video (8’45”, b/w, no sound)
installation view: e-flux, New York (US), 2013
photo: Ray Anastas
Courtesy the artist and Wilfried Lentz Rotterdam
Negli eventi performativi che hanno accompagnato l’opera – o ne sono stati una sorta di emanazione autonoma – credo si ritrovi una coralità e una condivisione che in qualche modo ci identifica come spettatori in una “comunità che viene” (Agamben, 2001). La traduzione in diretta implica un senso di corresponsabilità del traduttore, che non a caso cambia più volte durante la performance, come già ad indicare un piccolo nucleo di voci. La dattilografa che trascrive nella nuova lingua in diretta (solo in alcune versioni della performance), è la produzione di un documento condiviso, pieno di possibili lacune, cadute e incertezze dovute alla simultaneità che lascia all’errore soggettivo uno spazio significativo. La compresenza del pubblico che ascolta, magari anche non conoscendo la nuova lingua con cui si enuncia l’originale trascrizione italiana, crea una comunità babelica che può non sentire la lingua solo come discorso ma piuttosto come materia sonora. Quando ho sentito il testo in tedesco a Kassel, senza ombra di dubbio per uno stereotipo culturale che mi porto dietro – ne sono cosciente ma ancora lo sento radicato in me – mi è sembrato un testo duro, perentorio, freddo, diversamente dall’“originale” italiano.
Il fatto che la traduzione avvenga sul momento mi sembra un altro dato importante dal punto di vista formale, e quindi sostanziale. La performatività degli imputati nell’audio originale è determinata da molti fattori emotivi, senza dubbio la maggior parte negativi: chi parlava era sotto processo, era dunque in una condizione di “svantaggio”, seppure poteva affermare con forza a tratti le proprie ragioni, sapeva di essere sottoposto a giudizio. Chi traduceva live nelle performance, pur avendo scelto di essere lì, pur potendo avere anche un certo piacere a far parte dell’opera di Rossella, è forzosamente in uno stato di stress da prestazione. La sua estrema attenzione è riposta nel non sbagliare parola, nel non tradire, o almeno non troppo, il testo originale. Un testo con un peso specifico forte, non letterario, ma di vita e “storico”. Quelle degli imputati allora e dei traduttori oggi, ovviamente con le dovute rispettose differenze sul piano personale, sono due condizioni se non uguali, simili: trovare la giusta parola per non tradire il concetto, sentirsi “giudicati” da chi ascolta, sapere di parlare non solo per sé ma in nome di qualcun altro, sapere di parlare una lingua a tratti per molti dei presenti incomprensibile (nell’un caso metaforicamente, nell’altro in senso letterale).
Mesi fa quando Giulia Crisci, parte del nostro collettivo redazionale di roots-routes, propose di trattare il tema del “discomfort”3 avevo già pensato di scrivere questo articolo su The Trial, perché credo che questo lavoro corrisponda molto bene a quel concetto che Giulia proponeva: “Oltrepassata la soglia della zona di comfort l’equilibrio che cuce insieme automatismi e movimenti ordinari, mantenendoci in piedi durante l’esecuzione di un gesto, viene messo in crisi”. Ecco credo che le opere della Biscotti in generale ci pongano spesso in questo stato di disequilibrio che altera gli automatismi della rimozione che disegnano la storia italiana, spingendoci non tanto alla semplice “riemersione”, ma piuttosto lasciandoci in quello stato intermedio di fastidio che appare come l’unica vera condizione di azione possibile esteticamente e quindi politicamente.
Performance The Trial, Wiels, Bruxelles 2014
Michael Ardt e Rossella Biscotti, Revolution in Counterpoint: Contemporary. Performance and Political Past. Columbia University, New York 2013
1 L’intervista integrale è visibile a questo link https://www.youtube.com/watch?v=oTO_ldTHdfs
2 “La lingua è davvero un punto centrale di The Trial. C’è un punto nel processo quando un giudice dice ad Antonio Negri: “Parliamo due lingue diverse”. Questo è davvero importante. Nel processo di montaggio ho dato a Negri il ruolo di qualcuno che inizia principalmente con una difesa politica e cerca di dare una cornice storica e politica del processo. Cerca di spiegare termini politici specifici al giudice, spiegando le frasi che prende in prestito da Brecht. Tutto questo è nel processo”.
3 Si veda “roots-routes”, Anno VII, n.25 maggio – agosto 2017 (https://www.roots-routes.org/anno-7-n-25-maggio-agosto-2017-discomfort/)
Bibliografia
Agamben, G., La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino 2001.
De Certeau M., L’invention du quotidien, Gallimard, Paris 1990.
Fässle B., La pattuglia italiana alla Documenta (13) di Kassel, in “Il Sole 24ore”, 18 giugno 2012 (http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2012-06-18/stivale-documenta-kassel-102339.shtml?uuid=AbrHGFuF).
Gardini N., Lacuna. Saggio sul non detto, Einaudi, Milano 2014.
Margalit A., L’etica della memoria, il Mulino, Bologna 2006.
Performa Staff, Rossella Biscotti The Trial (intervista), in “Performa Magazine”, July 17th 2013 (http://performa-arts.org/magazine/entry/rossella-biscotti-the-trial).
Virno P., Il ricordo del presente. Saggio sul tempo storico, Bollati Boringhieri, Torino 1990.