«Che lavoro! Ogni giorno uno sballo sensazionale! Una festa ininterrotta! Sangue! Vodka! Donne! Morte! Potere!». La citazione – che va letta, beninteso, nel contesto narrativo in cui è inserita – si deve a Philip Roth; in Operazione Shylock così si figura la vita del ventiduenne Iwan Demjanjuk, il (presunto) “Ivan il terribile” di Treblinka[1], poi divenuto John, cittadino modello a Cleveland, Ohio. Osservandolo, ormai quasi settantenne, sotto processo a Gerusalemme, il narratore/Roth lo immagina quando poteva sentirsi «il padrone del mondo: poteva fare a chiunque tutto quello che voleva. Impugnare una frusta e una pistola e una spada e un bastone, essere giovane e sano e ubriaco e potente, immensamente potente, come un dio!» (Roth, 2018, p. 57). Un’estasi, una sensazione di onnipotenza che ricompare peraltro – in tutt’altro contesto – nell’analisi che il filosofo Jean Améry dedica alla tortura, essendone stato egli stesso vittima nel castello di Breendonk, dopo l’arresto in quanto esponente della resistenza belga, prima di essere deportato ad Auschwitz. I suoi torturatori svolgevano un incarico «che implicava potere, dominio, sullo spirito e sulla carne, trasgressione nell’illimitata autoespansione» – scrive Améry – chiedendosi poi: «Chi è in grado di ridurre un uomo così completamente a corpo e a piagnucolante preda della morte, non è forse un dio o almeno un semidio?» (Améry, 2008, p. 72). Affermare che l’esercizio della violenza possa procurare (anche) piacere ci pare sconveniente. Non intendo certamente affrontare qui un discorso che si aprirebbe a implicazioni e punti di vista infiniti: sociali, antropologici, psicoanalitici… Tuttavia, vorrei invitare a tenerli in conto, quando si rifletta su come la violenza possa essere esibita e rappresentata per comunicare – in una mostra, in un museo, in un luogo di memoria – fatti storici che da essa sono ampiamente connotati. Tutte quelle situazioni, cioè, in cui l’imperativo etico, che normalmente consente di controllare e temperare l’aggressività e la carica di violenza che è di ciascuno, si rovescia e «quello che è massimamente proibito diventa non solo lecito, ma doveroso» (Prono, 1992): nelle guerre innanzitutto. Quale dose di violenza, quindi, è lecito esporre senza correre il rischio di assecondare o compiacere voyeurismo e morbosità, anziché suscitare consapevolezza? Si può raccontare l’orrore senza necessariamente mostrarlo?
Per molti anni ho diretto a Torino il Museo diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà. In coerenza con questa lunga intitolazione, ci si è occupati, oltre che della Seconda Guerra Mondiale e delle sue conseguenze, di guerre, massacri, deportazioni e violazioni dei diritti umani che hanno segnato, in tutto il mondo, il secolo XX e tuttora segnano il nostro tempo presente. Non è facile affermare che esista una risposta univoca e definitiva all’interrogativo che io stesso ho posto; tuttavia, ho sempre pensato che si potesse e si dovesse quantomeno tendere a non anteporre l’emozione alla conoscenza con troppa leggerezza: perché «l’orrore passa, pronto a essere sostituito da altri orrori. La conoscenza resta e si accumula» (De Luna, 2008, pp.28-29). E perché un’immagine scioccante rischia di bloccare, anziché favorire, un processo di elaborazione e consapevolezza. La tentazione è naturalmente (e per giustificati motivi) assai forte, quando ci si trovi a trattare gli avvenimenti e i temi che sono nella missione di un museo come quello torinese; primo fra tutti, il più arduo, nella sua enormità, da comunicare e comprendere, la Shoah. «Tenere lo sguardo fisso sull’orrore non rende migliori, semmai più inerti o perversi. Distoglierlo anzitempo, addirittura preventivamente, regala innocenze di corto respiro»; da qui la necessità, come scrivono Enrico Donaggio e Diego Guzzi, di stabilire «una giusta distanza» (Donaggio, Guzzi, 2010). Una preoccupazione da non sottovalutare nell’accostarsi alla comunicazione degli avvenimenti storici più dolorosi, superando la via breve che può indurre a pensare che esibire l’orrore possa costituire di per sé un’azione educativa.
Tre anni fa, i locali del Polo del 900, nuovo centro culturale da poco inaugurato a Torino, ospitarono la mostra itinerante Nome in codice Caesar. Detenuti siriani vittime di tortura: le fotografie mostrano con particolare crudezza corpi straziati, mutilati, ustionati, volti irrigiditi e tumefatti. Si tratta, sia chiaro, di una iniziativa che prende le mosse dalla preoccupazione certamente lodevole e condivisibile di portare a conoscenza del pubblico una realtà terribile. E tuttavia… Senza che questo costituisca in alcun modo un maldestro tentativo di comparazione tra due iniziative distantissime, non solo cronologicamente, mi tornò alla mente un articolo di Primo Levi, comparso su “La Stampa” molti anni orsono. Era il 1983, Torino aveva accolto la mostra Atroci macchine di tortura nella storia e Levi ne diede conto sul quotidiano cittadino. La sua prosa, si sa, è sempre pacata e misurata; non che questo caso faccia eccezione, ma l’indignazione, vorrei dire il disprezzo che traspaiono da quell’articolo sono vibranti e non comuni. Vale la pena di rileggerne la conclusione: «False ed ipocrite sono soprattutto le pretese motivazioni: ai fini di una crociata contro la tortura, questo baraccone nuoce più che non giovi. […] La tortura d’oggi, sciaguratamente presente un po’ dappertutto […] è, purtroppo, “razionale”, e con armi razionali va combattuta. È il male massimo […] ma, per allontanarla da noi, a cosa serve questa grossolana esibizione di un’altra barbarie? Si può essere certi che non uno fra i torturatori potenziali ne sarà uscito mutato; e che, invece, ne sarà vivificato il fondo sadico che giace ignoto in molti tra noi» (Levi, 1983). Per inciso, la mostra in questione – frutto di collezioni private – non solo non è scomparsa ma ha dato origine a ben cinque musei permanenti, fra loro federati, che continuano a promuoverla in Italia e nel mondo: con le migliori intenzioni e i più qualificati patrocini, a leggere il loro sito[2]. Intenzioni delle quali è lecito dubitare, leggendo testi di questo tenore: «La resa, in termini di agonia inflitta in ragione allo sforzo investito e al tempo consumato, è soddisfacentissima», «Semplice ed efficacissimo», «La forza applicata poteva portare al completo distacco della calotta cranica, all’espulsione dei bulbi oculari dalle orbite e alla fuoriuscita di materia cerebrale dalle narici.», «il corpo è già ridotto ad un ammasso sanguinolento». E tanto basti.
Nel produrre una mostra sulla guerra in Cecenia per il Museo torinese[3], ci trovammo a maneggiare materiali fotografici di grande crudezza. D’accordo con i curatori, stabilimmo di limitarne drasticamente il numero; solo alcune delle immagini più dure furono riprodotte, in piccolo formato, ed esposte al di sopra del consueto asse visivo.
Credo che si debba sempre diffidare della possibile scorciatoia che spinge (anche in buona fede) a esibire gli orrori. Soprattutto oggi, quando la consuetudine tanto pervasiva con immagini delle peggiori efferatezze, la loro fruizione spesso distratta, inconsapevole e indistinta rendono assai forte il rischio di un effetto anestetizzante. È ben vero che quando, nel 1924, l’anarchico pacifista Ernst Friedrich raccolse e pubblicò le immagini dei corpi e dei volti devastati dei reduci della prima guerra mondiale, compì un’operazione rivoluzionaria e di grande impatto (Friedrich, 2004). O che le quattro foto realizzate clandestinamente ad Auschwitz che documentano il lavoro di un Sonderkommando costituiscono un documento di straordinaria importanza. O, ancora, che le immagini delle cataste di cadaveri scheletriti rimossi con le escavatrici nei campi appena liberati ebbero un ruolo indiscutibile nel far conoscere la realtà dell’universo concentrazionario nazista. Ma quando Susan Sontag ricorda l’effetto sconvolgente che ebbero, su di lei dodicenne, le immagini di Bergen-Belsen e Dachau giunte negli Stati Uniti nel 1945, mi pare che centri il cuore del problema. Se nulla di ciò che vide dopo la colpì altrettanto profondamente, Sontag si chiede anche a che cosa le servì vederle: «erano soltanto fotografie, di un evento di cui avevo appena sentito parlare e sul quale non potevo avere alcuna influenza […] mi sentii irrevocabilmente afflitta e ferita, ma qualcosa in me cominciò anche a indurirsi». Le immagini possono paralizzare, «non rafforzano necessariamente la coscienza o la capacità di avere compassione. Possono anche corromperle». Le sue considerazioni, raccolte nel volume Sulla fotografia, sono ancora preziose: in particolare, per quanto qui interessa, quelle sull’efficacia della fotografia quale «stimolo dell’impulso morale» e sui rapporti tra fotografia, coscienza politica e mobilitazione delle coscienze. L’immagine può contribuire a rafforzare una posizione morale, ma non crearla; può essere efficace solo a condizione che una coscienza/conoscenza preesista: «La conoscenza raggiunta attraverso le fotografie sarà sempre una forma di sentimentalismo, cinico o umanistico», «una conoscenza a prezzi di liquidazione». Non solo, ma la ripetizione e la moltiplicazione delle immagini dell’orrore (analogamente – e il paragone non è casuale – a quelle pornografiche) possono indurre un effetto anestetico, portando a «una certa consuetudine con l’atrocità, facendo apparire più normale l’orribile, rendendolo familiare, remoto (“è solo una fotografia”), inevitabile» (Sontag, 1978, p. 16). Il punto della coscienza/conoscenza resta dunque fondamentale. Possiamo certamente comprendere la scelta di Alain Resnais che, nel 1956, inserisce le immagini più terribili dei campi nel contesto del suo Nuit et brouillard, film peraltro di esemplare chiarezza e sobrietà. Oggi però, altre scelte sono possibili e auspicabili: lo fece, ad esempio, Claude Lanzmann già nel 1985 con Shoah, costruendo una monumentale narrazione dello sterminio senza mostrare immagini dello sterminio stesso.
Tornando in parte alle righe iniziali, voglio ricordare en passant la fortuna di un filone cinematografico che, intorno agli anni Settanta/Ottanta, andò diffondendosi con una certa fortuna: quello dei film nazi-porno[5]; non esenti da qualche responsabilità opere come Il portiere di notte di Cavani e Salon Kitty di Brass. Lascio ancora a Primo Levi la parola: «Dobbiamo proprio vederceli tutti, prima di prendere posizione? Intendo dire, tutti i film sui cui cartelloni compare una donna nuda sullo sfondo della svastica?». Così inizia un suo pezzo su “La Stampa” del 1977: un appello ai produttori di «pornosvastiche» a lasciare da parte i Lager per le loro opere, ricordando cosa fossero davvero i Lager femminili: «non erano teatrini sexy; ci si soffriva sì, ma in silenzio, e le donne non erano belle e non suscitavano desideri; suscitavano invece una compassione infinita, come fanno gli animali indifesi» (Levi, 1977). Purtroppo, aggiunge Levi, «Dai produttori del cinema, si sa, non ci si può aspettare molto»; e la fortuna di un tale genere andrebbe comunque tenuta a mente.
Prima di concludere con qualche esempio tratto dall’attività del Museo torinese, vorrei ancora dedicare un cenno alla fruizione dei siti memoriali: di ciò che rimane dei Lager nazisti, in particolare, e, tra questi, di Auschwitz, che ha ormai assunto un ruolo di emblema pro toto della Shoah e che oggi attrae annualmente milioni di persone[6]. Chi ha visitato il campo, avrà certamente provato lo strano effetto – tra il disagio e lo straniamento – che produce la sua progressiva trasformazione in meta turistica. Lo aveva già fatto notare (ed era il 1974) un giornalista americano, che scriveva tra l’altro: «L’orrore del luogo sembra alleviato dai banchi di souvenir, dai cartelli della Pepsi-Cola e da un’atmosfera di attrazione turistica»[7]. Lo stesso sinistro motto all’ingresso del campo – Arbeit Macht Frei – divenuto icona universale, «sembra oscillare tra il suo peso reale di prova e un’assurda sensazione di ricostruzione cinematografica» (Vaglio, 2008, p. 38), scontando il rischio di perdita di significato che una certa massificazione dei simboli comporta.
Un recente film di Sergey Loznitsa, Austerlitz, ha affrontato il tema del comportamento delle persone in visita a un Lager; il risultato è un documentario che ha suscitato non poche critiche (per molti versi giustificate), ma certamente interessante. Le immagini sono state riprese nel campo di Sachsenhausen, presso Berlino; quello che il film ci restituisce è un quadro di generale sguaiatezza, di abbigliamenti improbabili, di panini e bibite e gelati consumati in allegria, di autoscatti sorridenti, fino a quello della giovane coppia che si scatta un selfie di fronte alla bocca di un forno crematorio, con preliminare aggiustamento dell’acconciatura di lei. Ancor più colpiscono le “spiegazioni” delle guide turistiche, impegnate a magnificare gli orrori del luogo, con grande sfoggio di particolari macabri e ben poca preoccupazione di rispettare la verità storica. Non a caso, nel campo di Auschwitz, le visite sono condotte solo da guide autorizzate e formate. L’attuale direttore del Museo e Memoriale Auschwitz-Birkenau, peraltro, si dichiara molto tollerante nei confronti dell’abbigliamento e di certi atteggiamenti dei visitatori, che possono sembrare impropri; insistendo, però, su come tali atteggiamenti si modifichino durante la visita e all’uscita del campo. Ad Auschwitz – sostiene – «Non possiamo fermarci solo a ricordare. La conoscenza dei fatti deve portare a comprenderli» (Piotr, Cywiński, 2017). Ancora una volta, dunque, appare centrale la questione della consapevolezza. Parlare di un indistinto Male Assoluto può essere pericoloso, lo sforzo deve essere quello di ricondurre anche l’enormità di Auschwitz alle categorie della storia e non solo a quelle della memoria: un obiettivo non facile, perché ci si avventura su un terreno nel quale i confini non sono e non possono essere netti e univoci.
Parlando dei musei di storia del XX secolo, Krzysztof Pomian ci ricorda che essi trattano una materia ancora viva e bruciante: guerre, insurrezioni, rivolte, genocidi hanno prodotto, in quasi tutta Europa, una memoria divisa, lacerata, conflittuale. Essi sono dunque chiamati a risolvere problemi complessi e, innanzitutto, a «definire la loro identità», tra due dimensioni possibili: quella memoriale, da un lato, e quella storica, dall’altro; di stabilire, in altre parole, se adottare nei confronti della realtà esposta «un atteggiamento di identificazione ovvero un atteggiamento critico, che prende le distanze». Naturalmente, la questione non è riducibile a una così netta semplificazione: «Tutti i musei che trattano la storia del XX secolo sono, in qualche misura, musei memoriali. Lo sono perché comprendono, in linea generale, nella loro esposizione i ricordi dei protagonisti o dei testimoni degli avvenimenti in questione. Lo sono perché prendono posizione nei grandi conflitti ideologici e politici del XX secolo e così facendo si identificano con una delle parti in causa» (Pomian, 2015. T.d.a.). Inutile aggiungere che ci sono, evidentemente, questioni etiche imprescindibili che impongono di prendere posizione: tra le vittime e i carnefici, tra la democrazia e il totalitarismo, non può esserci equidistanza.
Nell’allestimento permanente del Museo torinese, in due postazioni soltanto la violenza appare in modo diretto: l’una è dedicata alle fucilazioni di oppositori avvenute in città nel campo del Martinetto, l’altra ai bombardamenti su Torino. Nel primo caso, una delle sedie utilizzate per le esecuzioni si limita a evocare le fucilazioni, mentre dietro l’oggetto esposto scorrono i nomi, le età e le occupazioni delle vittime. Nel secondo, sono invece proposte alcune delle immagini girate dai Vigili del Fuoco durante i loro interventi nella città bombardata. È, questo, un esempio emblematico (e, per certi versi, paradossale): una versione semplificata, ma sempre seducente, della storia del secondo conflitto tende a ridurla a scontro tra i buoni e i cattivi. I bombardamenti, però, furono ovviamente opera degli alleati, dunque dei “buoni”. La complessità storica riafferma con forza le sue ragioni.
Concludo con tre esempi tratti dalle attività del Museo; li considero esempi positivi e non sarà forse un caso che sia il lavoro di tre artisti visivi a suggerirci alcune possibili vie. Nel 2008, nell’ambito di un programma dedicato all’Argentina e ai desaparecidos, portammo a Torino la mostra Ausencias, un progetto del fotografo argentino Gustavo Germano di straordinaria qualità ed efficacia[8]. Riproducendo le immagini di alcuni album di famiglia, Germano le accosta a quelle da lui stesso scattate trent’anni dopo, accompagnando i parenti e gli amici negli stessi luoghi. Si mette così in risalto l’assenza delle persone scomparse, un vuoto pieno di significato.
Con Muri di piombo[9], Eva Frapiccini ha affrontato invece la stagione italiana del terrorismo “rosso” degli anni Settanta/Ottanta: ripercorrendo i principali teatri delle sparatorie, ha fotografato i luoghi alla stessa ora e con le stesse condizioni di luce del momento dell’attentato, ricercando e lasciando parlare la memoria dei luoghi stessi.
Il progetto Stolpersteine (pietre d’inciampo)[10], infine, dell’artista tedesco Gunter Demnig, è ormai diffuso in tutta Europa; il Museo lo ha portato a Torino a partire dal 2015. Un cubetto di cemento con una lastra di ottone riporta nome e cognome, data di nascita, data e luogo di deportazione, data e luogo di morte della persona a cui è dedicato. Demnig lo installa a terra, di fronte all’abitazione da cui la vittima è stata portata via: sulla soglia tra la vita quotidiana e il baratro. Discreti e diffusi, dissonanti e inamovibili, gli Stolpersteine divengono così parte del tessuto urbano e ricordano ogni singola vittima, restituendole un nome e una storia. Per tornare alla domanda iniziale, dunque: raccontare l’orrore senza mostrarlo è possibile, stabilire un limite è necessario. Anche se è difficile stabilirlo con certezza, quel limite: nel dubbio, meglio tenersi ampiamente al di qua, perché «subito al di là, si cade in peccati mortali, l’estetismo, il sadismo, il prostituirsi al cannibalismo di un certo pubblico» (Levi, 2016-2018, p.147).
Note
[1] Sulla intricatissima e pluridecennale vicenda giudiziaria di Demjanjuk, si veda QUI
[2] Si veda il sito Torture Museum
[3] Mostra Cecenia. Una guerra e una pacificazione violenta, a cura di Marco Buttino e Alessandra Rognoni, Torino, ottobre 2008/febbraio 2009. Si veda il sito www.museodiffusotorino.it/LeMostrePassate.
[4] Per una breve analisi della filmografia sulla Shoah, v. ad es. Enrico Donaggio, Diego Guzzi, A giusta distanza, 2010.
[5] Non mi dilungo oltre sul genere, anche indicato come “eroSSvastika” o “nazisploitation”; termine, quest’ultimo, che si è meritato anche una voce su Wikipedia.
[6] Nel 2018, i visitatori sono stati quasi 2.2000.000 (www.auschwitz.org).
[7] At Auschwitz, a Discordant atmosphere of Tourism, “The New York Times”, 3 novembre 1974; riportato da Susan Sontag, Sulla fotografia, cit.
[8] Mostra Ausencias (assenze). Fotografie di Gustavo Germano, Torino, maggio-settembre 2008; Si veda il sito www.museodiffusotorino.it/LeMostrePassate; www.gustavogermano.com.
[9] Mostra Eva Frapiccini, Muri di piombo, Torino, maggio 2008; Si veda il sito www.museodiffusotorino.it/LeMostrePassate; www.evafrapiccini.it.
[10] Progetto Stolpersteine (pietre d’inciampo). Si veda il sito www.museodiffusotorino.it/PietredInciampoHome; www.stolpersteine.eu.
Bibliografia
Améry J., Intellettuale ad Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
De Luna G., L’Europa di Auschwitz, in Il treno della memoria, Terra del Fuoco edizioni, Torino 2008.
Donaggio E., Guzzi D., A giusta distanza. Immaginare e ricordare la Shoah, L’ancora del mediterraneo, Napoli-Roma 2010.
Friedrich E., Krieg dem Kriege, 1924, ed. it. Guerra alla Guerra, Mondadori, Milano 2004.
Levi P., L’ebreo a cavallo, in La ricerca delle radici. Antologia personale, ora in Opere complete, a c. di Marco Belpoliti, Einaudi, Torino 2016-2018, 3 vol.
Levi P., I Collezionisti di tormenti, in “La Stampa”, 28 dicembre 1983, ora in Opere complete, cit., vol. II.
Levi P., Film e svastiche, in “La Stampa”, 12 febbraio 1977, ora in Opere complete cit., vol. II.
Piotr M., Cywiński A., Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 2017.
Pomian K., Le 20e siècle dans les musées d’histoire, testo inedito della conferenza, Museo diffuso della Resistenza, Torino 1 luglio 2015.
Prono F., Il fascino della violenza, intervista a Cesare Musatti, in «Il nuovo spettatore», XII, n. 14, FrancoAngeli, Milano 1992.
Roth P., Operazione Shylock, Einaudi, Torino 2018.
Sontag S., On Photography, 1973, tr. it. Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino 1978.
Vaglio G., Musei e memoria storica: qualche riflessione intorno a un viaggio ad Auschwitz in Il treno della memoria, Torino 2008.
Guido Vaglio Laurin, nato a Torino il 28/12/1956. Storico di formazione, ho ricoperto l’incarico di Direttore dell’Associazione Museo Diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà di Torino dal 2006 al 2019. Sono stato vicepresidente della rete nazionale “Paesaggi della Memoria”, della quale sono attualmente presidente del Comitato Scientifico. Ho lavorato nel campo della didattica museale; del coordinamento e della realizzazione di mostre temporanee; della progettazione e della gestione di musei. Mi sono occupato di politiche culturali, di progetti culturali internazionali; di progettazione e organizzazione di eventi culturali. Ho partecipato a convegni e altre occasioni formative, in ambito nazionale e internazionale. Ho collaborato con agenzie formative come docente, tenendo corsi relativi alla museografia, alla museologia e alla normativa italiana in questo campo. Ho curato l’edizione di cataloghi e volumi di atti di convegni e pubblicato contributi relativi all’esposizione, ai musei, alla rappresentazione museale della memoria storica del XX secolo, alla memorialistica della deportazione dall’Italia.