Una delle frasi che contraddistingue la vulgata popolare riguardo all’Italia è la definizione di “bel paese”. La bellezza dell’Italia è un assoluto must indiscutibile, un elemento distintivo della italianità dal suo patrimonio artistico, ai suoi uomini e donne, ai suoi paesaggi. Dunque se proviamo a identificare una parola che nell’immaginario sia dall’interno che dall’esterno contraddistingue il “nostro” paese è: la bellezza. Più e più volte è capitato a tutt* noi di sentirci dire da una persona straniera, che ha passato del tempo in Italia, che nulla ha funzionato, che hanno vissuto disagi e problemi, ma che altrettanto chiaramente la bellezza di questo paese non si discute.
Vorrei quindi partire dalla considerazione che il mito della “bellezza” italiana, a qualsiasi livello, è una sorta di mito fondatore che, in diversi momenti, e ancora a tutt’oggi, viene utilizzato confondendo il “bello” con il “buono”. Dunque, un paese che presenta brutture sociali, culturali e morali spaventose cela con accurata attenzione tutto questo dietro la sua migliore caratteristica e cioè la “bellezza”. Si potrebbe subito obiettare che questa qualità è naturale, innegabile, intrinseca a questo territorio. Ma la questione di fondo diventa quindi cosa è “bello/bella”, in base a quali parametri.
Per discutere questo concetto mi rifarò al solo periodo fascista, specificando però che questa costruzione culturale è coeva alla stessa fondazione del paese al momento della sua unità, quindi è un velo, una nebbia leggera, che copre tutte le “brutture” del “nostro” paese, non in maniera spontanea ma ben studiata a tavolino dai poteri culturali che hanno disegnato il mito della bellezza italiana. L’uso politico spregiudicato della bellezza come contro parte, non alla bruttezza ma al “male”, è una posizione trasversale nel tempo, diremmo oggi bipartisan. Ancora oggi in un periodo di recrudescenze fasciste, di razzismo diffuso, di corruzione sempre più dilagante, di mafia, di omofobia, lo slogan più diffuso, anche a sinistra, è “la bellezza salverà il mondo”, mentre dall’altra parte si stigmatizza chi lavora per una società più giusta come “buonismo”. Dunque, la qualità che ci salverà non è il bene ma il bello.
Vorrei tornare alla fonte dell’affermazione di una italianità strettamente legata alla bellezza, intesa proprio come caratteristica fisica, che poi si trasforma come nella legge dei vasi comunicanti, in una ovvia assunzione di “bontà” non suffragata dai fatti, ma solo “per contatto” scaturita dalla bellezza.
Una delle caratteristiche essenziali della costruzione di una modellizzazione universalista, che partisse da criteri totalmente autoreferenziali, etnocentrici e imposti con una decisa violenza, è la base del pensiero europeo coloniale, che trova un suo compimento assoluto nel XIX secolo grazie alla pretesa di esattezza e veridicità della prova scientifica che suffraga posizioni parziali e, evidentemente, politicamente tendenziose. In altre parole, tutte le scienze occidentali, dalla biologia alla zoologia, alla fondamentale antropologia, si impegnano a mostrare come verità inoppugnabili le teorie costruite dal nazionalismo modernista europeo, che servono a dividere l’umanità in razze e a determinare la politica grazie a questo assunto. Certamente una delle correnti filosofiche che appaiono come determinanti in Italia da questo punto di vista è il Positivismo, che avrà uno dei suoi centri nevralgici a Torino, dove agirà l’antropologo veronese Cesare Lombroso, e a Firenze con l’altro antropologo di riferimento Mantegazza. Ambedue, ben prima dell’avvento di fascismo, in epoca liberale, proporranno una netta contrapposizione tra la “bellezza” delle razze bianche e la bruttezza delle altre, come la “negra” e la “gialla”. Questo articolo intende soffermarsi però su una delle fonti dirette del razzismo italiano che pone la bellezza della razza nostrana come un canone inoppugnabile.
Nel n.8 del 1939 della rivista “La difesa della razza”, pubblicazione essenziale della teoria fascista della razza in Italia, Edmondo Vercellesi scrive un articolo dal titolo Prognatismo. Carattere differenziale della razza. Il testo, accompagnato da quattro disegni scientifici anatomici recita: «In un soggetto ideale per bellezza somatica e per grande euritmia dei lineamenti e di proporzioni, artisti e anatomici hanno in esso minutamente studiato i vari rapporti di misura tra le varie sezioni della testa» (DDR, 1939: 8; 27)[1]. L’articolo compie una dettagliata disanima delle angolazioni e proporzioni delle differenti parti del volto di “bianchi di razza nordica” che si differenziano radicalmente da quelle del negro. In conclusione viene tracciato il modello del perfetto uomo “classico”: “Per cui il tipo classico italiano offre, limitando l’esame alla conformazione esteriore della testa, delle caratteristiche che lo distaccano nettamente da individui di qualsiasi altra razza: capelli castani leggermente ondulati, occhi celesti, volto ovoidale ben proporzionato (angolo facciale 85”), naso aquilino, bocca relativamente piccola con labbro superiore leggermente sporgente, denti posti quasi perpendicolarmente ai mascellari, carnagione rosea”. Questo è il perfetto modello dell’uomo di razza italiana, che non è da confondere certo con altre razze, data la sua perfetta proporzione e armonia, ma che nel dibattito che si svilupperà per oltre cinque anni sulla rivista, si distinguerà anche dalle altre razze europee, a parte la “sorella” tedesca, che essendo contaminate da diversi “meticciati”, e in particolare dal contatto con gli ebrei, non mantengono più l’altezza della bellezza italiana.
La vera e propria iconografia della bellezza razziale italiana in tutta la rivista si appoggia su due essenziali chiavi: la prima, la dimostrazione “scientifica” della superiorità della razza italiana, palesata attraverso la sua bellezza esteriore in primis, spiegata attraverso testi esplicativi; la seconda, una abbondante pubblicazione di immagini fotografiche di opere d’arte antica e moderna, così come di fotografie della vita quotidiana del “bel paese”, contrapposte sempre, con un controcanto ossessivo e violentissimo, a immagini di “altre/i”, sempre in pose e posizioni denigranti, umilianti, torve, ritenute “brutte” appunto partendo dai canonici italocentrici proposti.
Nel n.14, sempre del 1939 si definisce l’italiano come il tipo “romano e greco-romano”, indicando quei parametri estetici di mascolinità essenziali per definire nel passato le origini del nuovo maschio di “razza italiana” e fascista: «Per mia preferenza direi più che greco-romano, direi romano senz’altro. Col puro tipo della statuaria greca assunto a modello (Vincenzo Monti), filosofi, esteti, opportunisti ed anche stolidi, alti e flessuosi: averne qualcuno va bene, per la funzione di superuomini, ma che non siano troppi. Preferisco il tipo che prevale nella statuaria romana perché più tenace, volitivo, conquistatore, leale, virile, intransigente, basso e tarchiato, quadrato e maschio in tutta l’estensione del termine, così come il greco è più ovale, più femmineo» (DDR:1939; 14, 26). Chi scrive è Umberto Angeli e l’articolo porta il titolo Tipo fisico e carattere morale dei veri e dei falsi italiani. Al di là del fatto che la definizione dell’italianità legittima o meno in Italia, oggi suona nefastamente tornata di moda, proprio partendo dagli assunti di base del periodo che sto trattando, già l’enunciazione del titolo pone in relazione il “tipo fisico” con l’identità non solo di razza, ma più in generale di “italianità” intesa come carattere nazionale. L’aspetto essenziale su cui mi vorrei soffermare è che nel caso Italia, ci si trova davanti a un razzismo molto particolare, che parte dal presupposto di una presunta, e dimostrata “scientificamente”, superiorità di una razza che è nata e risiede solo in Italia, tant’è che nella rivista in più punti si farà anche riferimento al rischio alto di contaminazione per gli italiani emigrati all’estero, dando specifiche indicazioni sul come difendersi da questo pericolo.
Un dato essenziale dello sviluppo della visione razzializzata della bellezza italiana trova ne La Difesa della Razza una sua potente applicazione nell’uso delle immagini. Un linguaggio diretto, chiaro immediato del corredo iconografico, che spesso non fa nemmeno riferimento al testo in cui è inserito, ma anzi appare quasi come una sorta di discorso parallelo, che lavora su suoi parametri, e segna un livello di diffusione molto più ampio, che aiuta a produrre la vulgata a livello popolare, senza dubbio più basso e meno “scientifico” rispetto alla parte testuale, spesso iper tecnicistica e destinata evidentemente agli “addetti ai lavori”.
Nell’articolo Il meticciato morte degli imperi (DDR: 1939; 13; 18) si parla di uno dei temi essenziali su cui la rivista ritornerà fino all’ossessione, cioè il “meticciato” visto come il rischio più drammatico e virulento che ha colpito e colpisce le razze europee e rischia di inquinare quella italiana, e che ne potrebbe portare all’estinzione. Una visione che ci aiuta a comprendere l’origine della attuale teoria della sostituzione etnica proposta dal pensiero sovranista più radicale in tutta Europa e negli USA. Nell’articolo citato poco sopra si notano i volti di alcune persone di diverse etnie, individuati come “meticci”, e le didascalie che li chiosano sono del tipo: “Bastardo di Reoboth[2]. Cabuz e bastardi”; “Bastardo di Reoboth. Disarmonie fisiche e spirituali”; “Bastardo dell’Africa del Nord-Ovest. Ibridi e meticci”; “Bastarda di Reoboth. La vendetta della natura”; “Bastardo del Camerun. Evitare la degenerazione” (DDR:1939; 13, 18). I volti delle diverse persone sono ritagliati in maniera grossolana e imprecisa, e privati di qualsiasi contestualizzazione o sfondo. Sono tutti messi leggermente inclinati e la dizione della loro origine è scritta piccola sotto mentre il commento, tipo appunto “disarmonie fisiche”, è scritto su una sorta di targhetta nera a caratteri bianchi, come fosse una didascalia da museo, e un cartellino giudiziario su foto segnaletiche. Le teste divengono subito “oggetti” di studio antropologico da archiviare, private di qualsiasi connotazione umana e tanto meno di personalità; sono “tipi”, tipologie da catalogare e da cui difendersi con un’attenta prevenzione per evitare che ne nascano altri/e e che questi/e si possano riprodurre. Le figure sono attaccate come a collage ai lati del testo, una modalità che la rivista adotta direi come sigla tipografica e stilistica, che da un lato denota un certo debito con la grafica fascista di ascendenza futurista, nonostante la rivista dato il periodo si schieri in maniera molto chiara contro qualsiasi forma di arte modernista e contro il nostrano futurismo in particolare. Ma la scelta sembra dettata anche dalla ferma volontà di isolare certe figure per creare quel senso di estraniamento dalla persona che perde così i suoi caratteri umani e viene oggettificata. Molti dei commenti inoltre tendono a sottolineare la “bruttezza” dei soggetti, aggettivi come “disarmonia” o espressioni come “la vendetta della natura”, sottolineano che la “devianza” dalla razza non può che produrre aberrazione e quindi “bruttezza”.
Ancora nel 1939 nell’articolo di Umberto Angeli leggiamo nel piccolo paragrafo intitolato Agire da italiani: «A noi per il pieno trionfo del Fascismo, cioè per il pieno trionfo dell’Italia, occorre avere certezza che determinati individui siano o non siano italiani, se sono al caso di agire o non agire da italiani», e poche righe prima aveva specificato: «Nel definire gli italiani e scindere i veri dai falsi, tre sono gli elementi di giudizio: il carattere fisico, il dato anagrafico, il carattere morale. (…) Per il carattere fisico, quando la pelle di un individuo è nera, gialla o cuprea, cade ogni dubbio: quell’individuo non è italiano». (DDR: 1939; 14, 26). Ora poniamo a confronto con le immagini che abbiamo analizzato sin qui le fotografie che accompagnano l’articolo di Massimo Leli Germania e Italia. Germania e Italia hanno ritrovato il popolo. Ecco tutte le questioni di razza (DDR:1939; 15, 10/17).
Il testo esalta le connessioni e le vicinanze tra la razza nordica della Germania e la razza italiana, con un particolare riferimento al recupero delle radici popolari delle due nazioni da parte sia nazista che fascista. Tralasciando in questa sede il testo, che è uno dei tasselli della complessa relazione che il fascismo stabilisce con le teorie razziste tedesche sulla razza ariana, mi vorrei soffermare nuovamente sull’apparato iconografico. La prima pagina dell’articolo unisce in un collage piuttosto interessante un cerchio nel quale sono iscritti due bimbi, un maschio e una femmina, sorridenti, con le caratteristiche fisiche che corrispondono ai tipi della razza “pura italiana” (ad esempio il bambino ha i capelli con ampi riccioli), ambedue sorridono felici e la bambina guarda in macchina; nella foto sottostante, ripresa dall’alto, due donne in divisa, con dei baschi che ne coprono il volto, tengono in braccio e accarezzano nella culla due neonati. La didascalia senza commento recita solo “Bimbi italiani” e tra le due foto è inserito un piccolo “logo” grafico con il fascio littorio. Nella pagina a fronte, in maniera speculare in alto appare sempre in un cerchio, una ragazzina preadolescente con capelli biondi e trecce, con fattezze assolutamente “nordiche” che abbraccia con estrema tenerezza una bimba piccola leggermente imbronciata, come a proteggerla, la quale è a sua volta biondo platino ed ha occhi chiarissimi. Sotto nella foto rettangolare un uomo in divisa da nazista, accovacciato, si appoggia a una carrozzina sorridendo a un bimbo, anche lui biondissimo, che guarda verso la macchina, in un ambiente naturale e soleggiato. Prima nota essenziale le figure non sono ritagliate, non sono private di corpo ma lasciate intere e nella naturalità dei loro gesti, che per altro sono amorosi e gentili. La luce di tutte le immagini è chiara e solare e le foto sono palesemente o ritoccate in postproduzione o scattate con un filtro che ne accentua le sfumature e l’effetto flou. Anche queste foto sono accompagnate da una piccola didascalia che recita “Bimbi tedeschi” e anche qui un bollino grafico tra le due immagini riproduce la svastica nazista. La rivista farà un uso spregiudicato di immagini di bambini/e, sia in senso orribilmente negativo, usando figure di bimbi/e di altre etnie per indicarne tutti i caratteri di “devianza”, sia esattamente al contrario usando immagini di bambini/e italiani/e, e spesso tedeschi/e, per esaltarne la perfezione razziale. Proseguendo nello stesso articolo appaiono, sempre poste in maniera speculare in due pagine, una foto di una mamma italiana e una di una mamma tedesca, ancora con la semplice didascalia che le definisce così. Le due madri allattano, con un seno di fuori, e guardano con estremo amore i due bimbi/e. Le foto hanno una luce intima, dolce e di nuovo un aspetto flou, che qui appare quasi pittorico, acquarellato. Le due donne con la loro prole sono i capolavori della razza italiana e tedesca. Mentre la bellezza maschile ne La Difesa della Razza esalta “fascistamente” l’uomo possente, muscoloso, l’ardito, la bellezza femminile è spesso identificata con la figura della madre, cioè nell’immagine di chi fa si che la “razza italiana” si possa riprodurre e possa essere allevata nell’amore nella propria patria. Le pagine seguenti dell’articolo presentano foto di scene famigliari, gente a tavola, soldati che baciano i/le bimbi/e alla partenza, coppie con figli/e felici. Le scene sono sempre ambientate, per lo più in ambiente rurale, e le figure sono sempre “belle”, ben messe e ordinate anche se povere, e sempre permane il paragone tra le stesse situazioni in Italia e in Germania, e le relative didascalie recitano semplicemente “famiglia italiana” e “famiglia tedesca”. Le ultime due immagini sono dedicate alla gioventù “gagliarda” dei due paesi, rappresentata durante le parate di partito e le attività ginniche: le due foto italiane, l’una davanti a un antico arco romano (a ribadire la continuità della razza italiana da quella romana) e in un ambiente montuoso naturale, e quelle tedesche sempre con lo sfondo di bandiere naziste, appaiono come scene di vita normale. Su tutte queste fotografie non si operano mai tagli, non se ne deforma il contenuto, se non in senso “positivo”, cioè amplificandone l’effetto solare o intimo o pittorico. Le persone sono colte con naturalezza, sempre felici e esaltandone la “bellezza” fisica.
Nel n.15 ancora del 1939, D’Atesia pubblica un articolo ancora sulla relazione tra razza nordica tedesca e razza italiana, Italiani e tedeschi. Tipi e sottotipi etnici, le due pagine di testo sono accompagnate da foto di atleti in atteggiamenti ginnici, con la didascalia “atleti italiani”, e una pagina con una strana combinazione di immagini: un discobolo che richiama la nota statua greca di Mileto, un primo piano di un giavellottista di notevole prestanza fisica e con lo sguardo profondo, e un ginnasta che salta su un attrezzo con agilità. Qui le figure in parte sono ritagliate e messe come a collage, ma a differenza dei casi citati poco fa il ritaglio è molto preciso, fatto con cura e asseconda le curve dei corpi. Il chiaroscuro delle foto viene esaltato per dare maggiore volume, e quindi vigore, alle forme corporee atletiche, e tutte le immagini indicano tensione, ma anche uno sforzo sostenuto con “disinvoltura”. La razza italiana, così come la nordica hanno la bellezza della forza naturale di cui la natura li ha dotati.
Nel n.17 della rivista appare finalmente un articolo che si intitola in maniera esplicita La bellezza della razza italiana (DDR:1939; 17, 7/8) a firma di Umberto Caramore: «La bellezza della razza italiana è inconfondibile per la regolarità dei tratti, l’armonia anatomica, il colore della pelle, dei capelli, l’espressione del viso, la vivacità degli occhi. Per tali caratteri l’italiano costituisce un vero e proprio tipo, la sua bellezza non è mai stata negata da alcuno, ed è l’ideale plastico delle arti romana e italiana. Di questa prerogativa non vogliamo menare vanto, ma è certo che madre natura ha reso la nostra razza una delle più perfette, per quanto perfetto possa essere l’uomo. La bellezza esercita una grande influenza sulla formazione del carattere. Le razze non si distinguono fra loro solo da tratti materiali, ma anche da un complesso di usi, costumi, temperamento, inclinazioni, ecc., e noi vogliamo vedere l’influenza della bellezza su questo complesso» (DDR:1939; 17, 7).
Il discorso è quanto mai chiaro ed esplicito: madre natura ha dotato gli italiani di una bellezza superiore, basata su “armonia” e “regolarità dei tratti”, che ne fa una “razza” perfetta, ma questa bellezza insuperabile influisce anche sul carattere degli italiani, che quindi non si distinguono solo per fattori esteriori, ma anche per elevatezza morale e genialità. Il passaggio bello-buono, o se si vuole tra “bellezza” e “bontà” appartiene alla razza italiana già per DNA. E su questa surreale visione si fonderà l’idea, che ancora oggi sopravvive, degli “italiani brava gente”, fondata sull’assunto che in un luogo così pieno di beltà qualsiasi bruttura, stortura, nefandezza possa alla fine essere coperta dalla una straordinaria bellezza. Una bellezza che però nelle immagini che accompagnano l’articolo è stranamente non rappresentata “da vicino”: nella prima pagina una schiera di donne in divisa bianca, disposte come per una parata e nella seconda pagina una fila di ragazzi che alzano il moschetto mostrando ben poco i volti. È vero che appare anche una foto con due ragazzi, l’uno più chiaro di capelli e uno più scuro si intuisce, ma ambedue con il fez fascista che non permette di vederli bene. La rivista in più punti si scontrerà con la difficoltà molto pratica di costruire questo “tipo” di razza italiana, che non scontenti nessuno, che possa conciliare i biondi nordici con i bruni meridionali, che possa comprendere sotto uno stesso gruppo friulani o lombardi, e siciliani o sardi. Un problema teoricamente complesso su cui non mi dilungo qui, ma che accenderà un forte dibattito nelle stesse pagine de La Difesa della Razza (DDR: 1938; 4, 26/27).
Continuando a leggere l’articolo di Caramore: «La soddisfazione che proviamo di non trovarci brutti influisce molto a mantenere elevato il nostro spirito. Se il giudizio che facciamo del nostro fisico è buono, ci sentiamo padroni di noi stessi, il nostro carattere si dispone alla fiducia, si inclina alla giovialità, alla bontà, rendendoci più espansivi e fattivi. […] L’attraenza delle qualità fisiche di una razza è un coefficiente non disprezzabile della sua felicità. […] La bellezza è il viso stesso della felicità, e per questo la donna mette ogni cura nel nascondere, mascherare il più possibile le imperfezioni del corpo e specialmente del viso. […] Però molte, anzi troppe, male interpretano il gusto maschile, abbondantemente dipinte, disgustano per la loro maschera grottesca, spesso inumana, e si tolgono volontariamente il più bel carattere della nostra donna: la naturalezza» (DDR:1939; 17, 7). Ancora una volta si sottolinea come la bellezza conduca alla virtù morale, al giusto comportamento e persino alle felicità. Poi, con un attacco misogino potente che contraddistingue il becero sessismo fascista, si redarguisce la donna sul valore della sua bellezza solo se lasciata al naturale. E questa visione torna in tutte le pagine della rivista in cui, come già accennato, le donne sono di fondo rappresentate o come madri (Cfr. DDR: 1938; 11/23), o come bambine o fanciulle quindi ancora senza consapevolezza di sé, o se adulte sempre popolane, contadine, semplici, al naturale. Dunque mentre la bellezza maschile si scolpisce, si disegna con la pratica atletica, quella femminile è già di per sé un valore che va lasciata come è per coltivare le caratteristiche naturali delle donne di razza italiana, cioè l’essere prima di tutto madri. Si guardino in proposito le due foto a tutta pagina pubblicate nel n.11 del 1940 che ritraggono due mamme con i loro rispettivi bambini/e.
La prima una donna africana, l’altra una donna “occidentale”. La mamma africana guarda in macchina con aria tra l’arrabbiato e l’incredulo, il bambino prova ad arrampicarsi su di lei e piange, lei lo tiene stretto per un braccio e sembra non prestargli nessuna attenzione. La mamma “europea” guarda in macchina guancia a guancia con la sua bambina che serenamente si succhia un dito, sono ambedue bionde e la donna ha uno sguardo seducente ma dolce. Le due immagini rispecchiano evidentemente una condizione ben diversa davanti la macchina fotografica: nel caso della donna africana è un momento inaspettato, di violenza imposta, senza nessuna scelta del soggetto e con il/la figlio/a spaventato/a. Inoltre lo sfondo è stato totalmente decontestualizzato attraverso l’uso di un grigio omogeneo che non ci fa minimamente capire dove sia stata scattata la foto. La mamma “europea” è palesemente e volontariamente in posa con la sua bambina, è a suo agio perché è stata messa nella condizione di poterlo essere, e sullo sfondo si accendono leggermente fuori fuoco delle piccole luci che creano un’atmosfera festosa. Le due immagini a confronto aprono uno dei tanti numeri della rivista dedicati alla “piaga” del “meticciato”, costante incubo dei teorici della razza fascisti che vedono nelle coppie miste e nei/nelle figli/e che ne nascono come delle vere e proprie aberrazioni prima di tutto proprio estetiche[3].
Caramore poco dopo fa un cenno alle malattie come fonte di “bruttezza” e quindi di infelicità, perché sono contrarie alle leggi di natura. Una affermazione apparentemente del tutto insensata scientificamente, ma in realtà foriera di una visione violentemente razzista verso ogni forma di “alterazione” della perfezione italiana provocata da malattie, malformazioni o disabilità. Scrive: “Vi sono, per quanto abbiamo rilevato, due sorti di bellezza: l’una che riguarda l’anima, l’altra del corpo, e possono essere unite; ma la bellezza del corpo ha il vantaggio e qualche volta è indispensabile, di essere il mezzo per conoscere la bellezza dell’anima, la quale, quasi sempre rimane nascosta in un corpo disgraziato” (DDR:1939; 17, 7).
Vorrei concludere citando un ultimo articolo del prof. Carmelo Midulla della Regia Università di Roma dal titolo Bonifica umana (DDR:40; 14, 15) dove si prospetta la necessità di compiere una “bonifica” umana per far si che la razza italiana non sia contaminata da altre razze o sporcata da tare genetiche. Restando sull’analisi iconografica, l’articolo si apre con un’immagine a tutta pagina di un bimbo biondissimo nudo seduto a terra, così rubicondo da sembrare un bambolotto, che viene accudito da una mamma amorosa, rigorosamente italiana. Nella pagina seguente una serie di lettini, ripresi dall’alto, ospitano altrettante bambine, tutte apparentemente identiche, tutte vestite come con una divisa. Ancora nelle due seguenti un bimbo piccolo mangia da un cucchiaio grande e poi un gruppo di bimbe e bimbi, tutti di “razza italiana o “nordica” sono fotografati belli e felici insieme. L’articolo di fatto prova a definire, in maniera apparentemente scientifica, come mantenere inalterata la purezza e la bellezza della razza combattendo la diffusione delle tare ereditarie che minano la perfezione degli/delle italiani/e. In un piccolo riquadro al centro della prima pagina di testo si legge: «La scienza dell’ortogenesi mira alla formazione regolare, sana ed armonica degli uomini» (DDR:40; 14, 16). La scienza, qui rappresentata dalla ortogenesi, una branca della zoologia che si interessa dell’evoluzione lineari di alcuni organi normalmente negli animali, serve a far si che la razza si evolva nella maniera migliore possibile, senza devianze e divenendo sempre più pura. Il bambino “perfetto” in copertina, così come i bimbi felici alla fine dell’articolo, sono certo il risultato di ciò che la natura ha dato loro geneticamente in quanto italiani, ma anche della cura che hanno messo nel farli crescere senza devianze, prima la loro mamma con l’amore, e poi il Partito Fascista con una rigida disciplina fisica.
Note
[1] Da qui in poi indicheremo la rivista La Difesa della Razza con la sigla DDR, seguita dall’anno e il numero della pubblicazione e dalla pagina di riferimento.
[2] Con questo nome si indica una popolazione nata da coppie formate da Boeri e popolazioni locali che nascevano mulatti già nel XVII secolo, arrivati nell’area del Sudafrica e poi spostatisi nella regione Reohboth (ne La Difesa della Razza il nome è citato in maniera errata mancante di una h), in Namibia. Il nome Bastaars, cioè Bastardi è antico e di origine olandese ma è stato poi adottato in seguito dalla stessa popolazione locale non più in senso negativo. Nel caso della citazione de La Difesa della Razza lo si deve intendere in senso assolutamente dispregiativo.
[3] La questione del cosiddetto “meticciato” è un tema che trova spazio pressoché in tutti i numeri della rivista in ogni annata, in questa sede non mi soffermo sullo specifico della sua rappresentazione iconografica nella rivista perché richiede una ampia trattazione a sé stante.