Due sfondi per la politica contemporanea
Lo sfondo degli avvenimenti politici più significativi del nostro tempo può essere diviso in due tipologie diverse: da una parte i palazzi storici delle istituzioni, i luoghi di rappresentanza; dall’altra immensi spazi indefiniti, accampamenti, zone di confine tra due nazioni, piazze con occupazioni temporanee nel più rassicurante dei casi.
Lo scollamento della politica rappresentativa dalle dinamiche a cui sono soggette le popolazioni mondiali, ed in modo particolare le più deboli, impoverite e indifese, è lapalissiano nella differenza dei sue sfondi.
Non possiamo, né tantomeno vorremmo fare alcuna differenza riguardo al peso politico dei due fronti. La condizione di disagio globale delle popolazioni è oggi un dato politico che influenza le geografie e le economie internazionali al pari dei vari trattati, concordati, incontri ufficiali, ratificazioni di leggi, elezioni o referendum.
Per quanto i mass media per molto tempo, e in parte ancora oggi, tendano a fare una differenza tra la politica delle istituzioni e quella delle crisi umanitarie, oggi a determinare la nostra vita, la serenità, le opportunità lavorative concorrono in egual misura la politica “dall’alto” come quella “dal basso”.
Così possiamo dire che entrambi gli sfondi delle due forme di politica, rappresentano i luoghi della politica nazionale ed internazionale.
I Palazzi Storici delle Istituzioni e la res-pubblica
In una siffatta distinzione vale la pena addentrarsi per un attimo nel complesso di relazioni tra funzione-forma-simbolo che intercorre in ognuno dei due casi. Partiamo dai luoghi istituzionali della politica rappresentativa. Si tratta sostanzialmente di due tipologie: quelle storiche e quelle nuove.
Dei luoghi storici fanno parte i Palazzi dove ha risieduto il potere per secoli. Sono castelli, palazzi nobiliari, ex fortificazioni, che hanno avuto la forza di continuare a rappresentare “lo spazio della decisione pubblica” attraversando quasi indenni i grandi passaggi culturali della politica, primo tra tutti quello aristocrazia-democrazia rappresentativa. Pochi di questi hanno subito delle modifiche sostanziali e in linea generale sono rimasti identici attraverso le epoche politiche. L’esito di questa continuità nello spazio mette oggi i rappresentanti eletti dal popolo a guardare il mondo dalle stesse finestre dalle quali i vecchi monarchi vedevano i loro sudditi.
Con questi luoghi abbiamo tutti una duplice e contrastante relazione: ne siamo in qualche modo orgogliosi poiché l’arte della loro fattura e la magnificenza delle loro decorazioni sono un patrimonio condiviso nel quale ci riconosciamo, ma si potrebbe aggiungere che ne proviamo anche una certa soggezione.
Guardiamo con stupore e troviamo un filo di piacere democratico, nel pensare che quei palazzi frutto di secoli di concezioni politiche aristocratiche, oggi sono nostri, di tutti, sono res-pubblica e quindi ci appartengono nel senso che la democrazia ci ha insegnato. In realtà li sentiremmo nostri maggiormente se solo potessimo entrarci senza troppi valichi.
Purtroppo i fatti e alcune oggettive evidenze sulla sicurezza oggi sono tali che all’ingresso dei Palazzi della repubblica, molto difficilmente si riesce ad accedere; più comunemente gli ingressi sono barricati da uomini armati che incutono un certo timore e fanno rimanere lontani.
Putin in uno dei Palazzi dello Stato Russo
autore: ALEXEI DRUZHININ / AP PHOTO
immagine tratta da sito The Daily Beast
I nuovi palazzi e l’ambiguità della trasparenza
A questo principio, ovvero alla sostanziale impenetrabilità delle istituzioni, risponde in maniera consapevole tutta l’architettura dei “Palazzi di vetro”.
Si tratta di edifici in negativo rispetto a quelli storici, che esaltano due concetti alla base della nostra società: la fede nelle tecnologie di derivazione moderna che hanno nella cultura lecorbuseriana “dell’edifico come macchina perfetta” il loro archetipo e il concetto di trasparenza ottenuto attraverso gigantesche ed emozionanti superfici di vetro.
Se l’estetica tecnologica corrisponde nei nuovi palazzi del potere al gusto della decorazione sfarzosa, agli stucchi e agli ori dei palazzi storici; la trasparenza delle grandi vetrate intende trasmettere che, se è vero e necessario che i Palazzi della collettività non possono lasciar entrare chiunque ed in maniera non controllata, allora quello che succede deve essere sotto gli occhi di tutti. Il vetro rappresenta una materializzazione del principio democratico del potere del popolo.
Su quest’ultimo concetto si sono espressi in maniera molto interessante diversi autori sottolineandone molte contraddizioni semantiche. Tra queste sono molto interessanti posizioni come quelle di Hal Foster che sottolinea come molto spesso gli architetti dei Palazzi di Vetro siano anche gli stessi delle grandi corporation. Lo stile che ne deriva crea quasi inconsciamente un collegamento tra grandi poteri economici e poteri degli Stati, facendo diventare l’immagine dei due riferimenti così simile che a chi li osservasse con spirito critico farebbero pensare che quella similitudine estetica corrisponde anche una prossimità culturale nel rapporto con la collettività. Altra osservazione interessante sulle ambiguità semantiche del vetro nei Palazzi del Potere può essere dedotta dalle considerazioni che agli inizi degli anni ’80 gli architetti Diller e Scofidio, facevano sul doppio ruolo del vetro negli edifici newyorchesi. Se infatti da un lato la massima trasparenza crea il vantaggio della massima visibilità, dall’altro ha come effetto collaterale quello del massimo controllo. In questo modo il vetro come materiale è un simbolo del controllo, nella forma pervasiva del “grande fratello”.
Si deve aggiungere quindi che nonostante il sincero sforzo di trasporre nell’architettura alcuni dei principi democratici alla base degli Stati moderni, il vetro sia stato uno strumento la cui intenzione simbolica, rimanendo legata ad una serie di funzionalità che lo contraddicono, si mostra insufficiente quando non deleterio perché sembra svelare uno degli aspetti più detestabili della democrazia moderna ovvero la “perdita del nemico” operata da una grande capacità comunicativa, in tutte le sue forme.
A chiudere questa distinzione tra architettura storica e architettura contempotranea un esempio, cardine nelle accademie d’architettura per l’architettura politica contemporanea, che si pone a metà tra le due impostazioni: il Raichstag di Berlino con la cupola di vetro, opera maxima di Sir Norman Forster, maestro del linguaggio high tech e progettista di alcuni tra gli edifici più importanti del nostro tempo.
Si tratta di una “ristrutturazione” dove il committente, lo Stato tedesco, intende esprimere sia la continuità delle storia di uno stato, che la necessità di trasparenza. La soluzione è magistrale, il tetto dell’aula parlmentare viene sostituito da un’immensa cupola di vetro, percorribile ed aperta ai visitaori, cittadini tedeschi e non, che apre simbolicamente verso il cielo i dibattiti del parlamento. L’ingresso dei visitatori è lo stesso di quello dei politici ed in questo modo si risolve, almeno nell’avvio, il problema dell’accessibilità del palazzo. Infine la cupola che porta luce all’aula delle discussioni parlamentari, sta sopra ai parlamentari stessi ed è percorribile dai visitatori. In questo modo Forster crea un rapporto tra sopra e sotto nello spazio che chiaramente si riferisce ad un legame democratico tra parlamentari e rappresentanti del popolo e cittadini comuni.
L’opera del maestro inglese, dimostra come i punti analizzati nei casi precedenti, anche se brevemente, sono di fatto dei “problemi” simbolici che il progetto per Berlino ha provato a risolvere avvalendosi di mediazioni nel tentativo di ridurre la distanza nello spazio e quindi anche nelle idee tra politica e popolazioni.
Sezione del Reichstag, Nuovo Parlamento tedesco, 1992-1999
autore: foster and partners
immagine tratta da sito dello studio
La politica fuori dai Palazzi e le sue architetture
Se possiamo accettare questa disamina del rapporto funzione-forma-simbolo per i Palazzi delle Istituzioni, può essere utile applicarlo alle altre forme, agli altri sfondi della vita politica contemporanea.
Volendo eliminare immediatamente dal campo delle analisi i cortei e altre conformazioni effimere, proveremo a generalizzare su quei rapporti tra spazio e uomo che sono direttamente legati ad una decisione politica. Fanno parte di questi casi: i movimenti Occupy; le rivendicazioni turchedi Gezy Park; le rivoluzioni nordafricane dei gelsomini; gli accampamenti di profughi, i luoghi esito di emergenze umanitarie dalle guerre (etniche, religiose o civili) agli accampamenti “stabili” dovuti a catastrofi (terremoti, tzunami, crolli di edifici).
In ognuno di questi esempi è stato esercitato o si continua ad esercitare un complesso di decisioni politiche sostanziali che definisce il nostro tempo.
Anche in questo caso possiamo dividere due grandi tipologie: le architetture che insistono su luoghi definiti, già connotati da caratteristiche simboliche (come ad esempio palazzi, piazze); quelli che invece ri-significano o connotano luoghi lontani o deserti.
Del primo caso fanno parte sia quelle occasioni di protesta come i movimenti di Occupy, le reazioni di Gezy Park, ovvero forme di determinazione dello spazio in contesti simbolici relativamente ad un preciso accadimento; sia le architetture che si installano in luoghi precedentemente connotati che però a causa di uno stravolgimento politico (come ad esempio una rivoluzione) si trovano in una fase di cambiamento di cui proprio la disposizione dell’uomo nello spazio, rappresenta una prima forma arcaica di architettura simbolica per quel cambiamento.
Tende di Occupy London in Finsbury Square, Londra, 2011
autore: Alan Denney
immagine soggetta a Creative Commons
Sono architetture temporanee, che durano tempi variamente brevi, ma che in modi diversi “profanano” luoghi dello status quo. Di fatto potremmo dire che la dimensione estetica di queste architetture è definita da una sostanziale orrizzontalità, dall’eterogeneità nella forma e nel colore che deriva dai diversi partecipanti, dai cartelli, gli slogan, i banchi etc., e da una costitutiva relazione con il concetto di apertura. Nella combinazione funzione-forma-simbolo queste architetture definiscono l’idea di democrazia contemporanea molto più fedelmente alla nostra idea di quanto non facciano i Palazzi del Potere. Questi spazi più simili all’architettura della città, ma non più di quanto non lo sia un grattacielo. In questa forma di architettura politica non può essere letta solo un’implicazione positiva, ma altri concetti devono essere individuati come ad esempio la fragilità, la difficoltà organizzativa, la scomodità di queste architetture: tutti elementi che umanizzano la politica e l’avvicinano alle persone.
La seconda tipologia, quella che vede le architetture insistere su luoghi anonimi è invece “un’architettura d’esito”, corollario di scelte o non scelte politiche che sono di fatto una delle componenti decisive del nostro tempo.
Se prendiamo ad esempio un campo profughi allestito dalle Nazioni Unite ritroviamo in questa forma di disposizione dell’uomo nello spazio, e quindi di architettura, i termini di quello che deve essere stato l’avvio di molte città impostate sulla griglia militare romana (molte città italiane ed europee sono nate così) ed una generale difficoltà a rendere vivibile il mondo che si è costretti ad abitare. Lo stesso si può dire che gli accampamenti “informali” nei pressi dei valichi di frontiera. Queste architetture sono spesso profondamente legate al concetto di sospensione esistenziale, di rifiuto o non appartenenza, di impersonalità. Nel maggior numero dei casi è l’idea di sopravvivenza che “fonda” questi edifici ed ancora una volta d’impotenza politica.
Davanti ad una tale dolorosa constatazione, spesso vanno riscontrate proprio qui delle forme architettoniche elementari che riportano al senso del vivere politico: lo spazio, ridotto all’osso, mette a nudo l’uomo e la sua scelta ormai apparentemente inevitabile di vivere in società, che si pone delle regole e quindi delle direzioni da perseguire.
Molti di noi, seppur ben riparati dal benessere occidentale, si sentono più vicini a queste ultime architetture che a quelle che di fatto ci appartengono.
La tenda come architettura simbolo dell’altra politica
Se i concetti di stabilità, ricchezza, monumentalità dei Palazzi delle Istituzioni sono oggi solo una parte dell’architettura della politica, e probabilmente quella in cui riconosciamo la maggiore problematicità rispetto ai principi democratici; allora la temporaneità e la dimensione umana della seconda faccia politica contemporanea può essere ricercata in un altro riferimento architettonico.
La tenda può essere quel riferimento per rappresentare una forma di architettura politica contemporanea.
Oggi dalla tenda possiamo evincere un riferimento per l’attività politica che si svolge oltre le istituzioni, fuori dai palazzi, che coinvolge le popolazioni, le comunità, le idee di cambiamento, che influisce nella nostra quotidianità sia sul piano funzionale di definizione dello spazio, che su quello formale di acquisizione di un’immagine delle architetture politiche, che su quello simbolico dove la tenda può rappresentare un ideale politico contemporaneo senza mistificazioni ed accettando l’idea di crisi, di fragilità e di scomodità come condizione politica del nostro tempo.
Lo può fare sia perché nelle sue infinite varianti è immagine trasversale e costante all’interno degli avvenimenti che vedono la politica dal basso confrontarsi con le dinamiche internazionali; lo può fare perché nelle sue qualità architettoniche rispecchia in maniera profonda la condizione esistenziale di nuove comunità ed idee politiche.
La tenda è per definizione mobile, legata all’idea di spostamento che trova un riscontro sia nelle idee dei movimenti politici concentrati sulla critica radicale all’impostazione delle istituzioni e che oggi si trovano in una condizione di trasformazione; sia rappresenta il concetto di spostamento geografico delle popolazioni alla base dei cambiamenti geopolitici contemporanei.
La tenda è fragile e pone tra dentro e fuori una sottile, penetrabile e sensibile divisione. La fragilità di questa condizione, l’esile diaframma che protegge le due condizioni nello spazio (dentro e fuori) sono metafore della fragilità della gente e delle idee che oggi si contrappongono alla dimensione istituzionale e allo status quo.
La tenda è a misura d’uomo e risponde ad esigenze elementari dell’architettura che rimandano, in un inquadramento politico di questa forma, al bisogno di ricostruire un patto istituzionale a partire dagli elementi alla base del vivere comune.
La tenda è modulabile e permette costruzioni infinite di luoghi dove ognuno partecipa alla forma complessiva senza mai perdere la propria identità. In questa potenzialità simbolica del rapporto tra soggetto e società è possibile che si sviluppi un discorso sull’attualizzazione del percorso rappresentativo anche in relazione a nuove forme di condivisione e partecipazione alla vita collettiva.
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Fabio Ciaravella (1982) è artista e architetto, Int. PhD in Architettura e Fenomenologia Urbana. Si occupa delle relazioni tra arte e architettura concentrandosi sullo spazio pubblico, l’arte pubblica e gli studi transdisciplinari. E’ stato Fellow al MIT di Boston presso l’Art, Culture and Technology della SA+P, ed è parte del Citylab, laboratorio di ricerca sociologica dell’Università di Firenze. Ha fondato il collettivo d’artisti Studio ++, coordina il progetto Architecture of Shame, inserito nel dossier di Matera 2019.