Gettare il corpo nella lotta
La politica dello stile: controversie, paradossi e creatività nella moda musulmana contemporanea
di Ornella Kyra Pistilli

In Francia, il 30 marzo scorso, la ministra socialista dei Diritti delle Donne Laurence Rossignol ha espresso il suo dissenso nei confronti delle marche di abbigliamento coinvolte nella produzione di moda islamica. Quello che è in gioco – ha detto ai microfoni di RMC radio e di BFM TV – è il controllo sociale sul corpo delle donne. (BFMTV, Emissione ‘Bourdin Direct’, 30 marzo 2016)

Quello della moda islamica non deve essere trattato come un qualsiasi altro segmento di mercato: «Tutti coloro che sono coinvolti nella rappresentazione della società hanno una responsabilità. […] Quando i marchi investono in questo mercato dell’abbigliamento islamico – ha proseguito la ministra – vengono meno alla loro responsabilità sociale e promuovono questo confinamento del corpo delle donne.» Il riferimento è al dettagliante britannico Mark & Spencer, che ha lanciato sul mercato il burkini, un costume da bagno che copre tutto il corpo ad eccezione di viso, mani e piedi; e ai creatori italiani Dolce & Gabbana e al marchio giapponese Uniqlo, che hanno realizzato delle collezioni speciali di hijab e abaya.

Dolce & Gabbana “Collezione Abaya”, autunno/inverno 2016-17

L’opposizione di centro-destra condivide questo punto di vista, con Nathalie Kosciusko-Morizet, ex ministro dell’ambiente durante la presidenza di Nicolas Sarkozy che, interpellata nel corso della stessa emissione sullo stesso soggetto, si dice contrariata: «Non mi piace affatto. Si tratta di nascondere il corpo della donna e di una parte dell’individuo e della sua originalità. La moda è l’espressione di un temperamento, di originalità.»

Quando il giornalista le dice che molte donne sono velate per scelta, la ministra Rossignol risponde che «ci sono donne che scelgono [il velo musulmano], come c’erano dei negri americani che erano per la schiavitù. Credo che molte di queste donne siano delle militanti dell’islam politico. Io le affronto come delle militanti, le affronto sul piano delle idee e denuncio il progetto di società che portano. Credo che ci possano essere donne che indossano il velo per fede e che ci sono donne che vogliono imporla a tutti perché ne fanno una regola pubblica.»

In risposta alle dichiarazioni della ministra Rossignol, N’Dongo Hawa, studentessa in Scienze Politiche, di concerto con collettivi femministi, anti-razzisti e contro l’islamofobia, lancia una petizione affinché Laurence Rossignol sia sanzionata per i suoi propositi razzisti: «E’ terribile vedere che questa Francia che si rivendica in tutto il mondo come il paese dei diritti umani, dibatte, nel 2016, di scelte vestimentarie di alcune sue cittadine. E’ terribile vedere che la negrofobia persistente è qui utilizzata per giustificare e legittimare una islamofobia di genere. Noi non siamo ingannate, sappiamo che questa non è la prima volta e che il razzismo di Stato si esprime in forme diverse – ma sempre – gratuitamente da decenni. […] Privandole della loro soggettività, del loro potere di agire e di ragionare per se stesse, il Ministro ha ridotto queste donne a bambole di porcellana bisognose di aiuto esterno per sapere ciò che è buono e ciò che è meno buono. Che i gusti vestimentari di Laurence Rossignol e delle altre le portano lontano dalla moda islamica è una cosa, ma che hanno eretto le loro preferenze in standard assoluto e insuperabile è un altro. Chi sono per dettare alle donne i loro codici tessili?» (Hawa N’Dongo, Petizione del 30 marzo 2016. Que Laurence Rossignol soit sanctionnée pour ses propos racistes!)

Le affermazioni del ministro «stigmatizzano le donne musulmane» – dichiara Abdallah Zekri, Presidente dell’Osservatorio Nazionale di islamofobia in seno al Consiglio musulmano francese (CFCM) e membro del direttivo della Federazione della Grande Moschea di Parigi. «Può un ministro – domanda Zekri – interferire nel modo in cui una donna desidera vestirsi, nella misura in cui questa rispetta le leggi della Repubblica e non nasconde il suo volto?» (Consiglio Francese di Culto Musulmano, Comunicato stampa del 31 marzo 2016. Réaction de l’Obsernatoire National Contre l’islamophobie aux propos de Mme Laurence ROSSIGNOL)

Un gruppo di organizzazioni femministe e laiche, tra cui il Coordinamento francese per Lobby europea delle donne che riunisce 75 associazioni, firmano un documento in cui si «felicitano che [la ministra] abbia reagito con forza e indignazione di fronte alla banalizzazione dell’uso del velo islamico» – e affermano che – «né l’eleganza, né il colore, né le dimensioni, né la ricchezza dei tessuti o della struttura, possono cambiare il significato di questo simbolo.» (Associations féministes et laïques, Comunicato stampa del 31 marzo 2016, Merci Madame la Ministre pour votre colère à propos de la mode islamique!)

La filosofa Elisabeth Badinter, figura storica del femminismo francese, si dice preoccupata per una graduale messa in causa della universalità dei diritti umani, incoraggiati da una sinistra detta “tollerante” nei confronti del comuniqlunitarismo religioso e, dalle pagine di Le Monde, invita a boicottare le marche che si lanciano in questa impresa che farebbe la «promozione del confinamento del corpo della donne.» (Le Monde, 2 aprile 2016)

Quello della moda islamica è un fenomeno in rapida crescita ed evoluzione che è connesso allo sviluppo di una nuova cultura del consumo Musulmana, alla rivitalizzazione della umma, la comunità soprannazionale dei credenti musulmani e ad un più generale revival religioso globale (Lewis, 2015).

Secondo il Rapporto Thomson Reuters sullo stato dell’economia Islamica globale 2015/16, la spesa globale dei consumatori di tradizione musulmana in fatto di abbigliamento e calzature ha raggiunto i $266 ml nel 2013, che rappresenta l’11,9% della spesa globale, con previsioni di crescita a $488 ml entro il 2019. (Thomson Reuters State of Global Islamic Economy Report 2015/2016)

DKNY Ramadan – Estate 2014

La collezione è accompagnata da una campagna di comunicazione innovativa. DKNY chiede alle sue muse qual è il loro posto preferito per una Ghabka, vale a dire un evento che si svolge durante il mese di Ramadan, oppure qual è il loro luogo preferito per Sahur, vale a dire il pasto prima dell’alba, sottolineando la parte più festosa del Ramadan, cioè la notte e la gioia, piuttosto che l’austerità del digiuno.

 

I grandi marchi internazionali hanno iniziato a prendere in considerazione i consumatori di moda modesta, realizzando capi e collezioni dedicate. Il marchio newyorkese DKNY ha lanciato una collezione speciale Ramadan composta di 12 pezzi acquistabile esclusivamente nelle boutique del Medio Oriente. Il principio della collezione è quello di offrire alle donne musulmane abiti di “moda modesta” pur rivelando le curve femminili. I creatori italiani Dolce & Gabbana hanno realizzato una mini collezione – Dolce & Gabbana “Collezione Abaya”, autunno/inverno 2016-17 – composta da hijab (velo tradizionale) e abaya (lunghi abiti indossati su abiti e pantaloni) realizzate nelle stampe luminose e colorate della griffe. I pezzi – quattro in totale – presentano colori sobri, motivi floreali di margherite e rose, e ricami delicati.

Zara Ramadan Collection – Estate 2015

La collezione si compone di capi di abbigliamento e accessori nello stile minimalista Zara. La collezione era disponibile online e in-store in Medio Oriente e Nord-Africa.

Collezioni speciale Ramadan sono state create da Zara, Mango, Monsoon, Tommy Hilfiger. La piattaforma di vendita on-line Net-a-Porter ha curato una selezione di abiti e accessori per la festa del Ramadan, realizzati da Dolce & Gabbana, Oscar De La Renta, Valentino e Etro. Il marchio giapponese di abbigliamento casual Uniqlo ha prodotto una gamma di capi di moda modesta in collaborazione con la designer e blogger Hana Tajima. La collezione «fonde design moderno, tessuti confortabili e valori tradizionali» e presenta lunghe camice, pantaloni e gonne fluide, kebaya e hijab, realizzati in tessuti soffici che «drappeggiano il corpo senza serrarlo, per una siluette femminile ed elegante.» (UNIQLO x Hana Tajima collection)

UNIQLO. Hana Tajima collection

La moda islamica è sostenuta da istituzioni internazionali come l’Islamic Fashion and Design Council (IFDC), che rappresenta l’economia Islamica e i suoi gruppi di interesse con l’obiettivo di “rebranding” e “re-imaging Islam” – nelle parole della fondatrice Alia Khan (Middle East Eye, 29 febbraio 2016), attraverso azioni, programmi e sinergie con i principali marchi, organizzazioni governative, istituzioni, aziende, media, conferenze globali, eventi e settimane della moda, ad un livello globale. Il branding Islamico è sviluppato da società di marketing e comunicazione come Ogilvy Noor, del gruppo Ogilvy & Mather, che offre servizi di consulenza per un marketing che intende attrarre i consumatori Musulmani a livello globale, compatibile con i principi della Sharia: «Noi crediamo che le buone pratiche di Branding Islamico, di un branding amichevole o compatibile con i principi della Sharia, incarnano naturalmente molti dei valori che le imprese globali sentono l’urgenza di comunicare oggi. Valori come l’onestà, il rispetto, la responsabilità e la comprensione sono fondamentali per i principi della Sharia e risuonano profondamente con i consumatori Musulmani in tutto il mondo.» (Ogilvy Noor, Why Islamic Branding)

Una comunità in espansione di blogger di moda modesta e hijab sta utilizzando Instagram, Tumblr, Pinterest, YouTube, e altri media digitali per affermare il suo rapporto con la moda, la fede e il consumo. Le loro foto e video attirano migliaia di seguaci – musulmani e non – provenienti da tutto il mondo. Giovani donne di cultura musulmana come Saufeeya, Ikhlas e Mariah, espongono il loro stile vestimentario a decine di migliaia di seguaci mostrando come la passione per la moda non contraddice i precetti della religione. Blog, siti web e profili sui principali social media raccolgono e diffondono immagini di ragazze che amano lo stile “modesto” o “moda pudica”. Su Instagram, Sobia Masood (@sobi1canobi) ha 39 mila seguaci, Saufeeya B. Goodson (@feeeeya) 198 mila, Imani The Modest Minimalist (@fashionwithfaith) intorno ai 115 mila, Mariah Idrissi (@mariahidrissi) più di 33 mila.

Ikhlas Hussain, autrice del blog The Muslim Girl. Faith, Fashion, Life, Love si presenta come «una ragazza che è cresciuta in Occidente, che lotta per bilanciare la sua fede, la cultura orientale dei suoi genitori e la propria cultura occidentale. Lei non ha ancora capito come si fa e il blog è il luogo dove sta cercando di capirlo.» (The Muslim Girl) Ayesha, del blog Hijabs ‘R’ Us, racconta come si sente libera nel suo hijab: «Nella nostra società l’hijab è visto come un simbolo di oppressione. Non può si essere più lontani dalla verità. L’hijab mi ha liberato. Costringe la gente a giudicarmi non per il mio aspetto, ma per il mio intelletto e azioni, le cose che realmente contano. Mi ha insegnato che sono molto di più di qualcosa da guardare. Copro l’irrilevante in modo che la gente può vedere chi sono veramente.» (Hijabs ‘R’ Us)

Un numero crescente di donne si sta impegnando nella conversazione e nello sviluppo della moda modesta. Un movimento accompagnato da una crescente richiesta di punti di vista intelligenti e critici sull’argomento. Si tratta di cambiare l’immagine e stereotipi: «Vogliamo dimostrare che non siamo un monolite e che la nostra comunità è composta da diverse esperienze e opinioni» – racconta la blogger statunitense Amani al-Khatahtbeh in una intervista per Teen Vogue. «Le donne musulmane hanno diversi stili di vita e diverse esperienze, ma viviamo in una società con troppo pochi esempi positivi e troppi caricature di donne musulmane nei media mainstream. […] Il blog Muslim Girl è stato non solo la mia risposta alla mancanza di rappresentazione accurata dei musulmani nei media – continua la blogger – ma è diventato anche il modo per affermare la mia narrazione come musulmana americana e reclamare la mia identità.» (Teen Vogue, 19 agosto 2015) Amani Al-Khatahtbeh, 24 anni, ha iniziato il suo sito web MuslimGirl.net – che oggi conta un milione di lettori unici, e un elenco di circa 50 tra editori e scrittori – quando era al liceo. Il suo blog si è evoluto in qualcosa di molto più onnicomprensivo per le giovani donne musulmane di tutto il mondo. Gli argomenti trattati vanno dalla moda alla fede, con articoli su tutto, dai rapporti sulla campagna presidenziale a pezzi di opinione circa le molestie sessuali.

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La blogger e attivista Amani Al-Khatahtbeh per Teen Vogue.
Foto di Jenna Masoud

 

«La moda modesta non è noiosa» – scrive Saufeeya B. Goodson (@feeeeya) sul suo account Instagram. «Per me rappresenta una forma di espressione del sé attraverso stili diversi. L’industria della moda in realtà non fa molto per rappresentarci.» Tra i commenti ai suoi outfit: «Bellissimo!», «Il monocolore è molto moderno», «Sei una tale ispirazione per me», «Appari sempre favolosa», «Amo il tuo stile».

Se interroghiamo questo incrocio complesso di moda, cultura del consumo e religione attraverso la lente sociologica della ‘religione nella vita quotidiana’ (Lewis, 2015), allora possiamo concettualizzare le pratiche basate sulla fede come istituzionali e individuali, spazialmente situate, storicamente contingenti, incarnate e variabili, che cambiano nel corso del tempo della vita di un individuo. Questo approccio consente di pensare la pratica religiosa come parte della vita quotidiana, spesso legata al mercato e al consumo, e non in opposizione ad esso; come strettamente legata al corpo, e non separato; e come mutevole e sincretica. In questo modo, possiamo comprendere le ambiguità e le contraddizioni come l’esito di un processo normale e non vederle come delle aberrazioni. (Lewis, 2015)

Le donne possono essere dentro e fuori i loro hijab, le donne possono indossarli per motivi diversi, in tempi diversi, e certamente possono coprire il corpo in modi diversi. Anche questo fa parte della politica della stile, le pratiche e i codici vestimentari attraverso i quali impariamo a concettualizzare i significati polivalenti dell’abbigliamento sul nostro corpo. Alcune donne indossano l’hijab come simbolo di appartenenza all’Islam, come una pratica di devozione, espressione della fede religiosa e di un percorso spirituale personale; altre come una sorta di alibi sociale che garantisca loro rispettabilità nei confronti della famiglia o della comunità; alcune donne scelgono di indossare l’hijab per motivi politici, trasformando lo stigma in un segno di prestigio e altre ancora per sfidare la demonizzazione dei musulmani come potenziali terroristi; ci sono donne che lo indossano per compiacere i genitori; altre come una ostentazione estetica; alcune donne sono costrette a coprirsi in modi che non sono di loro scelta. (Göle, 2015; Lewis, 2015)

Queste giovani donne musulmane che stanno scegliendo di indossare l’hijab sono parte di una crescente cultura giovanile transnazionale e globale. Come molti altri giovani di diversa provenienza e cultura, raramente respingono in blocco tutte le pratiche della comunità e della famiglia ma le rielaborano, negoziano e riconfigurano in maniera creativa e innovativa. (Lewis, 2015) La moda diventa uno spazio per articolare i precetti religiosi ma anche il genere, la rispettabilità, la classe, e così via.

La crescente visibilità dell’hijab mette in evidenza contraddizioni e genera effetti inaspettati e a volte sovversivi. Ogni suo passo verso la visibilità pubblica minaccia la prescrizione islamica che lo accompagna e sfida le preoccupazioni circa l’invisibilità, la modestia e l’auto-occultamento. Il velo incarna tutta una teologia che ha a che fare con il mantenimento della purezza della donna. Strumento di pudore, il velo deve nascondere il corpo della donna allo sguardo degli altri, e riflettere la segregazione di genere nello spazio pubblico. Paradossalmente, anche se il velo ha lo scopo di proteggere le donne dagli sguardi degli altri, sta ora concentrando sempre di più l’attenzione su di loro. (Göle, 2015)

La negoziazione tra la sfera personale, i precetti religiosi e l’apparenza pubblica, costituisce una fonte perpetua di tensioni, riflessività e riadattamento che richiede alle donne un constante lavoro di apprendimento, di disciplina e di monitoraggio tra fede e presentazione del sé in pubblico. Attraverso la creazione e l’ostentazione di dress-code innovativi, che orchestrano il desiderio di essere alla moda, la ricerca di forme nuove di bellezza e il rispetto dei precetti religiosi, le donne rendono il risultato di queste negoziazioni visibili nello spazio pubblico.

La sociologa Nilüfer Göle (2013) ci invita a riflettere su come il processo di conquista della visibilità pubblica sia legata al processo politico di diventare cittadini. L’aspirazione alla visibilità rivendicata dalle donne musulmane che hanno scelto di indossare l’hijab, deve essere considerata come una ricerca della cittadinanza a tutti gli effetti. Quello che caratterizza la democrazia come forma politica – sostiene Göle – è precisamente lo status privilegiato accordato ai conflitti, alla possibilità di dissenso e all’importanza dell’incertezza. In questo senso, le tensioni, i conflitti e le controversie scatenate dall’apparizione nello spazio pubblico delle donne in hijab contribuiscono a creare una nuova cultura politica pubblica.

Storicamente, la moda ha svolto un ruolo significativo nella partecipazione politica di uomini e donne e nella formazione della loro identità come cittadini. Funzionando come una forma di agency incentrata sul corpo, la moda ha fornito un sito di immaginazione, di creazione, di resistenza, di contestazione e critica, per l’elaborazione di nuove forme ed immagini del corpo. Come dimostra Wendy Parkins nel libro “Fashioning the Body Politic. Dress, Gender, Citizenship” (2002), la moda ha avuto la capacità di costituire una forma di azione e di critica politica e ha permesso alla donne di agire, arricchendo la performance delle loro proteste e fornendo un mezzo potente di comunicazione con le altre donne.

Queste donne musulmane in hijab aspirano a prendere un posto nello spazio pubblico, reinventando il modello di femminilità musulmana. In questo senso, le donne musulmane velate stanno reinventando il loro posto nella società, immaginando percorsi che nessuno ha ancora tracciato per loro.

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Risorse bibliografiche

El Guindi, F. (2000) Veil. Modesty, Privacy and Resistance. Oxford, Edizioni Berg.
Göle, N. (2015) Musulmans au Quotidien. Une enquête européenne sur les controverses autour de l’Islam. Parigi, Edizioni La Découverte.
Lewis, R. (2015) Muslim Fashion: Contemporary Style Cultures. Durham: Edizioni Duke University Press.
Parkins, W. (2002) Fashioning the Body Politic. Dress, Gender, Citizenship. Oxford, Edizioni Berg.

 

Articoli e materiali a mezzo stampa

Associations féministes et laïques, 31 mars 16, Comunicato stampa. Merci Madame la Ministre pour votre colère à propos de la mode islamique !, Disponibile all’indirizzo: http://www.laicite-republique.org/merci-madame-la-ministre-pour-votre-colere-a-propos-de-la-mode-islamique.html
BFMTV, Emissione ‘Bourdin Direct’ del 30 marzo 2016. Marché de la mode islamique : “C’est irresponsable”, juge la ministre des droits des femmes. Disponibile all’indirizzo: http://rmc.bfmtv.com/emission/marche-de-la-mode-musulmane-c-est-irresponsable-juge-la-ministre-des-droits-des-femmes-962915.html Ultimo accesso: 20 giugno 2016
Boardman, M. (11 dicembre 2015) Meet the Women Behind @HijabFashion. Paper Magazine. Disponibile all’indirizzo: http://www.papermag.com/hijab-fashion-instagram-1451535584.html
Consiglio Francese di Culto Musulmano (CFCM), Comunicato stampa del 31 marzo 2016. Réaction de l’Obsernatoire National Contre l’islamophobie aux propos de Mme Laurence ROSSIGNOL. Disponibile all’indirizzo: http://www.lecfcm.fr/?page_id=3869 Ultimo accesso: 20 giungo 2016
EUROPE 1, Emissione del 30 marzo 2016. Pierre Bergé “scandalisé” par les marques qui se mettent à la “mode islamique”. Disponibile all’indirizzo: http://www.europe1.fr/economie/pierre-berge-semporte-contre-les-marques-qui-se-mettent-a-la-mode-islamique-2706730
Göle, N. (2013) Islam’s Disruptive Visibility in the European Public Space: Political Issues, Theoretical Questions. Eurozine. Disponibile all’indirizzo: http://www.eurozine.com/articles/2013-10-11-gole-en.html Ultimo accesso: 20 giugno 2016
Harvard, S. (19 Agosto 2015) How This 23-Year-Old Is Busting Negative Myths About Muslim Women and Dominating the Internet. Amani Al-Khatahtbeh’s MuslimGirl.net is changing the web. Teen Vogue. Disponibile all’indirizzo: http://www.teenvogue.com/story/amani-al-khatahtbeh-founder-of-muslimgirl-website Ultimo accesso: giugno 2016
Malherbe, S. (29 febbraio 2016) Alia Khan: Pioneering the Islamic fashion revolution. Middle East Eye. Disponibile all’indirizzo: http://www.middleeasteye.net/in-depth/features/islamic-fashion-way-we-shop-changing-and-it-will-be-revolutionary-558768864 Ultimo accesso: 20 giugno 2016
McLaughlin-Duane, R. (3 marzo 2015) A closer look at the Islamic fashion industry with Dubai’s Alia Khan. The National | Arts & Life. Disponibile all’indirizzo: http://www.thenational.ae/arts-lifestyle/fashion/a-closer-look-at-the-islamic-fashion-industry-with-dubais-alia-khan#full Ultimo accesso: 20 giungo 2016
N’Dongo, H. (30 marzo 2016) Petizione rimessa al Primo Ministro Manuel Valls e al Presidente della Repubblica François Hollande. Que Laurence Rossignol soit sanctionnée pour ses propos racistes ! Disponibile all’indirizzo: https://www.change.org/p/tousuniscontrelahaine-du-gouvernement-que-laurence-rossignol-soit-sanctionn%C3%A9e-pour-ses-propos-racistes#delivered-to
Pecheur, J. (7 dicembre 2012) A la mode d’Allah. M Le Magazine du Monde. Disponibile all’indirizzo: http://www.lemonde.fr/m-styles/article/2012/12/07/a-la-mode-d-allah_1800700_4497319.html Ultimo accesso: 20 giugno 2016
Truong, N. (2 aprile 2016) Elisabeth Badinter appelle au boycott des marques qui se lancent dans la mode islamique. Le Monde.

 

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