Il dibattito sull’identità di genere nella politica e nella società riguarda fondamentali questioni di diritti. Per questa ragione nell’ambito della cultura, in arte, letteratura, cinema, nell’informazione, nella comunicazione pubblicitaria e in generale mediatica etc., la rappresentazione dell’identità di genere è oggetto continuo di scontri e dibattiti accesissimi, terreno strategico di opposizione e affermazione di sé, caratterizzato dal fronteggiarsi di posizioni conflittuali. Negli ultimi decenni, in ambito educativo e scolastico le questioni di genere hanno assunto un’importanza determinante e sono state spesso impugnate dai leader politici nelle campagne elettorali o messe al centro di provvedimenti finalizzati a strategie di consenso.
Questa situazione se da una parte è comprensibile, e mette in luce l’importanza di temi caldi e riconoscimenti normativi improcrastinabili, dall’altra, rischia di confondere e compromettere piani di attenzione, ascolto e valutazione che varrebbe la pena, invece, di tenere distinti.
Il piano artistico e letterario, e più in generale culturale, per quanto sia inevitabilmente e fortemente coinvolto nelle questioni che riguardano la società e la politica, è fondamentale mantenga una propria autonomia e non risulti assoggettato a posizioni ideologiche che ne limitano la portata, la profondità di indagine, di rappresentazione e analisi.
È questa la ragione per cui, in questo articolo, anziché trattare in termini generali la questione della rappresentazione dell’identità di genere nei libri per ragazzi, ho preferito focalizzare l’attenzione sulle modalità narrative di una autrice, Beatrice Alemagna, per il quale il tema dell’identità e in particolare dell’identità in formazione dei bambini, risulta particolarmente interessante, per ampiezza, originalità e libertà espressiva, caratteristiche che a mio avviso determinano la qualità delle opere destinate ai più piccoli, e non solo. Ciò che qui mi interessa, insomma, è mostrare come nella poetica di un’autrice la rappresentazione dell’identità di genere non rappresenti una questione teorica, astratta, ma sia connessa con questioni inerenti alla visione, all’esperienza personale e artistica, a percezioni stratificate che hanno a che vedere con lo stile, le tecniche, il punto di vista, le scelte estetiche. Ovvero, come sia determinata da una dimensione creativa irriducibile alla volontà di esprimere un’adesione conforme all’una o all’altra posizione, profondamente radicata nel fare artistico che con il dato politico e sociale è, sì, connesso, ma sempre in modo autonomo e non convenzionale.
Beatrice Alemagna è una delle più importanti autrici e illustratrici di libri per ragazzi al mondo. Le sue opere, la gran parte delle quali in Italia sono pubblicate da Topipittori, la casa editrice che ho fondato nel 2004 con Paolo Canton, sono tradotte in decine di paesi e sono amate tanto dagli adulti quanto dai bambini a cui sono destinate. Per rendere l’idea della popolarità di questa autrice presso il pubblico italiano, segnalo che i suoi due libri più venduti – Che cos’è un bambino (2008) e I cinque malfatti (2011) – hanno venduto, solo in Italia, rispettivamente 90 mila e 65 mila copie e che l’ultimo libro pubblicato in Italia – Le cose che passano (2019) – ha raggiunto le 17 mila copie nei primi nove mesi.
È proprio da quest’ultimo titolo che vorrei partire e in particolare da un’illustrazione su doppia pagina che rappresenta una coppia.
Conosco bene il lavoro di Alemagna che in questi anni ho potuto seguire da vicino, dunque sono abituata alla sorpresa che, a ogni nuovo libro, costituiscono le sue immagini. Alemagna, pur mantenendo nei suoi libri una cifra riconoscibile, a ogni progetto cambia il proprio linguaggio in modo rilevante. L’immagine che ho scelto mi sembra esemplare in questo senso. Riguardo allo stile di Le cose che passano, Alemagna ha scritto: «Volevo qualcosa di diverso, per questo libro. Un’atmosfera effimera, volatile e impalpabile. Volevo perdere il segno, fare scomparire le linee dure, le luci. Arrivare a immagini piatte, primarie, scarne, indefinite, ma anche pittoriche e affettive. Non sono una grande amante della corrente grafico-essenziale che va tanto di moda ultimamente. Resto attratta dalla corposità, dal calore che emanano le texture, le materie. Mi interessava avanzare su questa estetica ruvida e materiale, ma anche semplice e immediata».
Estetica ruvida è una definizione calzante, applicabile a tutto il lavoro di Alemagna che fin dall’inizio della propria ricerca ha perseguito un segno ribelle rispetto alle rappresentazioni mainstream che l’illustrazione tende a proporre nella letteratura per ragazzi. Optare per immagini piatte, primarie, scarne, indefinite è un programma che, ancora oggi, trova parte del pubblico degli adulti, persino quello di settore, ancora impreparato e diffidente. Un ottimo esempio di ruvidezza estetica in Alemagna è Che cos’è un bambino, probabilmente la sua opera più nota: una galleria di ritratti infantili, maschili e femminili (Un bambino è una persona piccola è l’incipit del libro), dove non è fatta alcuna concessione agli stereotipi della bellezza infantile, interiore ed esteriore. Ogni volto, qui, appare così difforme da una presunta norma, peculiare e icastico da sfiorare quella che ad alcuni lettori è parsa vera e propria bruttezza. Questa rappresentazione ruvida e scomoda dell’alterità dell’infanzia e dei suoi tratti più inquietanti tocca il picco in un libro di Alemagna pressoché sconosciuto in Italia: Jo singe garçon, del 2010, storia di un bambino convinto di essere una scimmia e per questo allontanato dal consesso civile. Qui la rappresentazione del bambino è ai limiti dell’accettabilità per la inquietante prossimità dell’umano all’animale (che non per niente fu causa di guai infiniti per Charles Darwin), espressa senza reticenze.
Tornando all’immagine di Le cose che passano, dubito che in un libro destinato ai bambini siano molte le coppie a cui è stata data una caratterizzazione così poco convenzionale. Siamo in presenza di un maschio e di una femmina che si somigliano straordinariamente, e in cui il maschile e il femminile si confondono con umorismo e anticonformismo: sul viso glabro di lui appaiono due baffoni neri che nella pagina precedente, grazie al movimento di un foglio di carta da lucido, sono stati i capelli di lei che, infatti, improvvisamente, appare pressoché pelata. Non sappiamo quale evento abbia portato a questo cambiamento; il testo dice, lapidariamente, che questa donna ha perso i capelli.
In una intervista Beatrice Alemagna ha spiegato che nel movimento del foglio di carta da lucido stava esattamente racchiuso il senso tutto del mio libro, e che il foglio trasparente simboleggiava esattamente il movimento di crescita del bambino, il passaggio di tempo.
In questo libro, che si conclude con l’esaltazione dell’amore come dimensione inalterabile dell’esistenza, quello che fra le righe emerge, grazie a quella che viene definita un’atmosfera effimera, volatile e impalpabile, è, piuttosto, la grandiosità e la bellezza del cambiamento che domina l’esistenza. Questa ambiguità di senso, questa dimensione sfuggente – che poi è, eminentemente, quella della crescita e dello sviluppo di quella dimensione elusiva che è l’identità – è tipica dei libri di Alemagna: l’affermare una cosa, e insieme, segnalarne un’altra, magari diametralmente opposta, attraverso l’immagine.
Insomma, non solo in questo libro si parla del cambiare incessante delle cose, ma lo si porta direttamente in scena, per esempio attraverso un cambiamento fisico clamoroso come quello appena descritto, e attraverso il mutare di una delle certezze più radicate nella nostra cultura: per l’appunto, la rappresentazione di genere.
In Libri per l’infanzia vecchi e dimenticati, celebre saggio sul collezionismo di libri per bambini (in Figure dell’infanzia, Raffaello Cortina 2012), Walter Benjamin fa un’osservazione illuminante sul ruolo dell’illustrazione nel libro per l’infanzia: «Vi è una cosa che salva anche i testi più antiquati, ancora schiavi del pregiudizio di quest’epoca: l’illustrazione. L’illustrazione, infatti, sfuggiva al controllo delle teorie filantropiche e rapidamente artisti e bambini si sono capiti alle spalle dei pedagogisti […]». La complicità fra immagini e sguardo infantile, illustratori e bambini, continua trionfalmente a riproporsi ai giorni nostri, anche se in modo non del tutto indisturbato. I cacciatori di contenuti non conformi si sono fatti occhiutissimi, basti pensare alla famosa questione delle “fiabe gender” che ha occupato le cronache a più riprese, a partire dalla messa all’indice, a Venezia, di una lista di albi per l’infanzia considerati pericolosi per la moralità dei piccoli, al punto da dover essere ritirati dalle biblioteche.
Nei libri di Alemagna la portata rivoluzionaria delle immagini è sempre sconcertante a fronte di testi che ne stemperano la carica trasgressiva in un dettato decisamente più rassicurante, per quanto mai banale. E poiché al centro dei libri di Alemagna c’è sempre il problema dell’identità e la sua ricerca, è proprio nella rappresentazione dell’identità che si manifesta la qualità più anticonvenzionale della sua illustrazione e delle forme a cui dà luogo.
A essere indefiniti, nei libri di Alemagna, insieme alle immagini che li rappresentano, sono infatti, inesorabilmente, anche i personaggi rappresentati, e non perché manchino di forza o di caratterizzazione psicologica. È la loro riconoscibilità a essere messa in discussione.
In Piccolo grande Bubo al centro della narrazione è un cucciolo che con effetti molto comici si vanta dei propri progressi nella crescita. Capire a che specie appartenga questo buffo personaggio, tuttavia, è arduo: si tratta di una volpe? di un piccolo di orso? è un mustelide? In realtà, ai fini della narrazione, il riconoscimento è accessorio, una preoccupazione esclusivamente adulta. Per il bambino lettore Bubo è solo Bubo. È la sua non corrispondenza ad alcuna categoria prefissata, il suo essere coso, a renderlo unico. Bubo, fra l’altro come tutti i piccoli protagonisti degli albi di Alemagna, che si tratti di animali o di umani, a ogni giro di pagina muta in modo straordinario, e non solo perché cambi il punto di vista da cui è rappresentato. È la sua stessa natura a cambiare e, insieme a essa, i lineamenti della sua fisionomia. È come se il suo corpo fosse un sensibilissimo sismografo di ciò che avviene dentro di lui, ovvero una potente e continua rivoluzione mossa da una forza che è insieme fisiologica e psicologica.
Questo fenomeno appassionante e al tempo stesso inquietante avviene in tutte le storie di Alemagna. L’identità del protagonista di Un grande giorno di niente muta nel corso di tutta l’avventura, condizionando i tratti della fisionomia del personaggio che a volte sembra grande, a volte piccolo, a volte più una bambina che un bambino (e fra l’altro una bambina delle più celebri, Cappuccetto rosso, omaggiata per incoscienza e spirito di avventura), a volte uno spirito della natura, in altre parole una sorta di ibrido in continua trasformazione.
Anche, Edith, la protagonista di Il meraviglioso Cicciapelliccia è caratterizzata da analoghe mutazioni fisiche in tutto il corso del libro, che la portano ad assumere fisionomie poco femminili pur nel suo essere dichiaratamente e fieramente bambina. A questo proposito, tipiche delle narrazioni visive di Alemagna sono alcune pagine in cui i protagonisti appaiono ritratti in posture ed espressioni diverse, sorta di tavole sinottiche della personalità, molto divertenti perché inducono il lettore a osservare l’estrema variabilità della fisionomia all’interno di un format che rimane riconoscibile. Vorrei sottolineare, fra l’altro, che una delle cose che si insegna sempre nelle scuole di illustrazione, e che gli editori ripetono fino alla nausea agli illustratori, e che i pedagoghi rimarcano come qualità dei buoni libri per l’infanzia, è che i personaggi nelle illustrazioni dei libri per bambini risultino riconoscibili e uniformi per tutto il corso della storia, dotati di quei caratteri inalterabili che garantiranno loro di essere riconosciuti dai lettori. Interessante che Alemagna abbia stravolto spavaldamente questa regola d’oro senza compromettere la riconoscibilità dei propri personaggi, offrendoci la possibilità di riflettere su una domanda perturbante: cosa assicura l’essere riconoscibile, nei libri e fuori dai libri, all’identità (nostra e altrui)?
Ne Il meraviglioso Cicciapelliccia, il tema dell’indefinitezza è affermato potentemente soprattutto dall’ingresso nella narrazione di quello strano coso che è il Cicciapelliccia, personaggio misterioso in cui la non riconoscibilità si fa estrema. Sebbene sia offerto al maschile, il Cicciapelliccia è uno spettinato ciuffo di pelo rosa, del medesimo colore che contrassegna la giacca a vento di piumino della protagonista. Cosa sia il Cicciapelliccia lo spiega una doppia pagina in cui Edith afferma che è Il regalo dai mille usi: cuscino, sciarpa, cappello, pennello eccetera. La sua ricchezza multifunzione dipende da una natura meravigliosamente indefinita perché non incasellabile.
La poetica dei cosi si afferma in modo esemplare, e tocca il suo apice, in quello che è uno dei libri più amati di Alemagna, I cinque malfatti. Al centro di questa storia, a mio avviso uno dei testi più riusciti di Alemagna, cinque personaggi estremi vivono beatamente la propria estraneità a qualsiasi canone in una casa sghimbescia che pare costruita per esaltare la loro colossale inadeguatezza (un omaggio a Villa Villacolle, una delle dimore più famose della letteratura per ragazzi, specchio della personalità della sua abitatrice Pippi Calzelunghe, la bambina più sghimbescia e fuori dai canoni di genere degli ultimi cento anni). I cinque personaggi sono così outsider da non possedere nemmeno un nome, se non quello che qualifica il proprio peggior difetto: il piegato, il molle, il bucato, lo sbagliato, il capovolto. Sono maschi? Sono femmine? Sono giovani? Bambini? Adulti? Vecchi? Sono poveri? Sono ricchi? Impossibile dirlo. Sono i cinque malfatti e tanto basta, a loro e al lettore piccolo che malfatto si sente ontologicamente per imperfezione, età acerba, perenne inadeguatezza a modelli di cui ancora sta cercando di capire e sperimentare la natura (i bambini adorano i cinque malfatti, e fra tutti il preferito è lo sbagliato, specie di grossa patata animata da uno stato di contentezza indescrivibile).
In corso di realizzazione del libro, non è stato immediato trovare un titolo che non suonasse come una dichiarazione di infamia (in francese, lingua in cui Alemagna scrive, era Malfoutus), ma fosse, invece, attraente senza tradire l’onestà dell’assunto: la fondamentale mancanza di forma dei cinque cosi, fatti e venuti male.
In Italia malfatto può essere sostantivo, e indica azione riprovevole, mascalzonata, furfanteria; ma è anche aggettivo, e significa cosa disarmonica, sproporzionata malformata, rozza, scadente, trascurata, raffazzonata. Fortunatamente, con malfatti in Italia, un po’ in tutte le regioni, si indica anche un tipo di biscotto (o di gnocco) che associa prelibatezza e forma irregolare.
I cinque malfatti tocca la perfezione (paradossalmente) e della comicità con l’entrata in scena del personaggio del Perfetto. Così Alemagna lo introduce: «Un giorno, da non si sa dove, arrivò un tipo straordinario. Era bello, liscio, perfetto. Aveva un naso al posto del naso, un corpo bello dritto, nemmeno un buco in pancia e pure una bella capigliatura». L’immagine che affianca il testo, e la smentisce con effetto comico dirompente, mostra un coso fra i più singolari e ridicoli, con gambe sproporzionate, pantaloncini a sbuffo, un naso abnorme e un gran treccione rosa. È lo stesso rosa del Cicciapelliccia, un rosa shocking Barbie, utilizzato in senso antifrastico rispetto a quello della bambola più amata e odiata, rappresentante indiscussa di una modello di perfezione estetico e di comportamento femminile fra i più pervasivi di un’intera epoca.
Il Perfetto è il re dei cosi, l’imperatore della stranezza, che della Barbie, oltre al rosa, ha la chioma eccessiva, le gambe smisurate e una evidente passione per la moda.
Piombato come una disgrazia nella casa dei malfatti, il Perfetto, come un coach di successo, impartisce loro una lezione di vita improntata a efficienza e dinamismo a cui, naturalmente, i cinque cosi rimarranno impervi, mostrando che i limiti di cui sono portatori costituiscono, in verità, brecce attraverso le quali è possibile accedere a dimensioni vitali e immaginative rivoluzionarie. Non è, pertanto, annoverabile, I cinque malfatti, fra quelle opere per l’infanzia che sovrappongono la necessità (e inevitabilità) di essere se stessi a una lugubre apologia del bastare a se stessi, quel trionfale bastarsi egoico del nostro tempo di cui ha parlato, fra gli altri, Fabrice Olivier Dubosc, psicoanalista e studioso di intercultura.
L’identità dei malfatti, costruita sul senso del limite e su una forma irriducibile agli schemi, è sufficientemente aperta, in formazione, curiosa, tribolata e mobile da permettere una vita complessa, ma felice. La storia dei malfatti termina senza che il lettore sia stato dotato di informazioni accessorie sui personaggi che ha incontrato. I malfatti, e persino il Perfetto (per il quale, in quanto portatore di massima stranezza, non tutto è perduto), rimangono degli inspiegati cosi, abbastanza misteriosi e indefinibili da fornire ottimo materiale di riflessione. Il rosa è un colore attribuibile ai maschi o alle femmine? Perché, allora, un leader come il Perfetto, che parla di sé al maschile, lo indossa? La vanità non è una caratteristica tradizionalmente femminile? Perché il Perfetto, è tanto frivolo e vanesio? Il capovolto è una ragazza, dato che indossa una gonna? Se è una ragazza, perché il suo nome è al maschile? Il molle non è troppo passivo per essere un maschio? E il cappello piumato del piegato non ricorda quello di una elegante signora? La perenne inadeguatezza dello sbagliato e l’evanescenza del bucato non sono segni di fragilità più vicini alla sfera del femminile che a quella del maschile?
Grazie a questo procurato disordine, a questa confusione di generi e di attributi, Alemagna predispone un risultato geniale: impossibile per chiunque legga, che sia adulto o bambino, maschio o femmina, non accorgersi di avere in sé qualcosa di ciascuno dei cinque personaggi, anzi, dei sei, perché la rappresentazione del Perfetto, il cui spasmodico desiderio di perfezione (e accettazione) ha come risultato un’apparenza comica, eccentrica, ridicolissima, costituisce un tratto umano universale.
In un libro del 2002, Mon amour, in uscita nell’autunno 2020 col titolo Mio amore, la poetica dei cosi trova la propria ennesima declinazione: una creatura senza nome così si presenta nelle prime pagine della storia: «Sono uno strano animale. Un coso bizzarro, con i peli di un cane e la testa di un maiale». Lo strano essere attraversa le pagine sentendosi appioppare, a ogni incontro, ogni sorta di nome: scimmia, cane, leone, piccione, ratto, topo, maiale… Siamo al consueto gioco della galleria di identità inaugurata dalla ricerca di sé da parte di un protagonista, gioco che fra l’altro coincide una tipica struttura dell’albo illustrato, basti pensare a Pezzettino di Leo Lionni (Babalibri, prima edizione 1975), per fare un esempio fra i molti che si potrebbero. In Mon amour, tuttavia, la ricerca è invertita: non è lo strano coso a chiedersi chi è, sono gli altri a domandarglielo e a imporgli, di volta in volta, una risposta. Alla fine della storia, il coso bizzarro incontra un altro indefinibile animale: «E tu, tu non vuoi sapere chi sono?» gli chiede «Lo so già. Tu sei il mio amore».
In questo libro, che ribalta i termini della ricerca identitaria, suggerendo che forse l’ossessione per la definizione di sé più che un’esigenza dell’individuo coincide con una richiesta sociale di conformità, i personaggi non forniscono ai lettori alcuna informazione precisa in merito alla propria anagrafe, lasciando loro materia per infinite ipotesi (o sospetti) circa il tipo di relazione amorosa (ma non di sentimento) che li legherà. Perché la questione del genere, la sua rappresentazione, naturalmente, è lì che va a parare: alla scelta sessuale, terreno notoriamente scivolosissimo, esplosivo, figuriamoci in campo pedagogico.
Un altro personaggio in cui si realizza in modo significativo la poetica della trasformazione e dell’indefinitezza è La bambina di vetro, uno dei primi albi di Alemagna come autrice e illustratrice, da poco ripubblicato, a diciotto anni di distanza dalla prima uscita, nel 2002. Così si apre la storia: «Un giorno, in un villaggio vicino a Bilbao e a Firenze, nacque un bambino di vetro. Anzi, una bambina. Era così carina con i suoi grandi occhi, così perfetta con le sue piccole mani, così pura e luminosa… ma così trasparente! Brillava, scintillava, si confondeva con gli oggetti, cambiava colore al tramonto e sotto il sole si trasformava in mille riflessi». La natura trasparente di Gisèle (un bambino, anzi no, una bambina…), di cui è dichiarata l’eccezionalità, è quella di confondersi con le cose che la circondano, una sorta di fusione panica con quanto ha intorno: il mutamento la rende differente a ogni istante, a ogni incontro. Come in Le cose che passano, anche in questo albo Alemagna risolve formalmente il problema della rappresentazione dell’identità in divenire con fogli di carta da lucido che mettono in scena la natura prismatica di Gisèle. Nel corso della storia, la corrispondenza fra dentro e fuori, interno ed esterno della protagonista è fatta coincidere con una pericolosa leggibilità del pensiero da parte degli altri. La bambina non può nascondere i propri pensieri, ovvero i propri stati interiori, la propria disposizione a mutare, ad assumere i colori e la luce che la attraversano, in sostanza la propria mobilità e indefinitezza. «Chiunque poteva sfogliare i suoi pensieri, proprio come un libro aperto […] Nulla di ciò che provava poteva sfuggire agli altri», racconta la storia; in particolare sono i dubbi, le paure e preoccupazioni, i pensieri belli ma soprattutto i cattivi, la rabbia, la fragilità, l’inclinazione a incrinarsi, a risultare agli altri insopportabili. Nonostante Alemagna dichiari l’eccezionalità del personaggio, la natura di Gisèle riflette la condizione infantile stessa: uno stato di comunione con il mondo esterno, una personalità in divenire e in trasformazione costante, in opposizione a un mondo stabile e definito, organizzato e normato, che caratterizza l’esperienza di tutti i bambini. Dall’ammirazione per la preziosità del materiale di cui la bambina è fatta che garantisce uno spettacolo seducente (ma rischioso), a poco a poco la società che la circonda, accorgendosi che Gisèle non accenna a diventare ‘normale’, passa allo stigma: «La gente si arrabbiava con lei, continuamente: ‘Non riesci a smettere di pensare?’; oppure ‘Non ti vergogni di mostrare questi orrori?’» Dove ben si comprende che il problema qui non è tanto il possedere una identità e il farne mostra, quanto il non possederne una conforme alle aspettative, riconoscibile e dichiarata, immutabile e fissa, leggibile secondo i canoni. Il problema è riscontrare nell’identità altrui la mobilità, lo sviluppo, il cambiamento che, letti dal punto di vista dell’ordine e della programmazione sociale, corrispondono a inaffidabilità e rischio.
Spaventata dall’ostracismo di cui è oggetto, Giséle, in fondo assecondando i desideri di una città che non la desidera, parte per un lungo viaggio: «Ma dovunque andasse era lo stesso: tutti la evitavano e, dopo pochi giorni, lei voleva andarsene di nuovo. Faceva le valigie e riprendeva la strada. Di città in città, di paese in paese. Fino al giorno in cui si stancò di fuggire. Di cercare un posto, da qualche parte. Quel giorno, sollevata, si voltò e tornò a casa. Anche se la verità è spaventosa e la gente preferisce ignorarla. Da quel giorno, Gisèle avrebbe vissuto la sua vita com’era. Fragile e luminosa. Trasparente ma, infine, tutta intera». Il corto circuito che Alemagna stabilisce in queste righe, facendo coincidere trasparenza, fragilità, verità e integrità merita di essere sottolineato. Le due parole che chiudono la storia, tutta intera suonano come un vero e proprio colpo di scena. Di interezza, nel corso della vicenda, non si è mai parlato, riguardo alle caratteristiche di Gisèle, le quali, anzi, sembrerebbero proprio del tipo che dispongono alla massima frammentazione di sé. Se si cambia continuamente, se la crescita e la scoperta di quello che abbiamo intorno ci portano continuamente a mutare, ad assorbire e rispecchiare, invece di rispecchiarci in un mondo a nostra immagine e somiglianza, in che senso possiamo dirci integri? Rispetto a cosa? Il viaggio nel mondo, l’allontanamento da casa, forse ha insegnato a Gisèle a sostituire il rapporto simbiotico con l’esterno con una relazione meglio regolata, ovvero osmotica. Se la simbiosi non rende possibile la definizione dei propri confini, l’osmosi regolamenta lo scambio, rendendo possibile, infine, l’assecondare una natura non tanto incerta o indefinita, quanto, se mai, aperta al cambiamento, capace di rischio, ovvero di rimanere senza risposte, definizioni immediate, priva di uno schema in grado di dare di sé una spiegazione facile. Integrità, quindi, come capacità di accettare una verità difficile e scomoda, ovvero che all’interno di noi abitano forze in movimento che sono il risultato dell’incontro con il mondo, forze non solo minacciose quali rabbia, aggressività, dubbio, paura, fragilità, ma anche straordinarie quali curiosità, mutevolezza, imprevedibilità, inventiva, passionalità, eccentricità.
Nel libretto di sala di Giallo!!!, spettacolo del 1972-1973, con Ida Omboni, Paolo Poli, che per tutta la vita si è fatto beffe dell’identità di genere e ha portato ad arte, attraverso il teatro, la propria natura mobilissima e sfuggente, scriveva: «Campare è una specie di indagine piena di suspense e piuttosto faticosa, visto che il geniale poliziotto non è mai lì a darci una mano, e solo lentamente, tra continui voltafaccia, colpi di scena e occasionali spaventi, veniamo a sapere chi siamo noi, chi sono gli altri e cosa diavolo sta succedendo».
Bibliografia
Alemagna B., Che cos’è un bambino, Topipittori, Milano 2008
Alemagna B., I cinque malfatti, Topipittori, Milano 2014
Alemagna B., Il meraviglioso Cicciapelliccia, Topipittori, Milano 2015
Alemagna B., La bambina di vetro, Topipittori, Milano 2020
Alemagna B., Le cose che passano, Topipittori, Milano 2019
Alemagna B., Jo singe garçon, Autrement, Parigi 2010
Alemagna B., Mio amore, Topipittori, Milano 2020
Alemagna B., Piccolo Grande Bubo, Topipittori, Milano 2014
Alemagna B., Un grande giorno di niente, Topipittori 2016
Bassano G., Paolo Poli: pezzi, contraddizioni, scarti, in Doppiozero, 20.06, 2019 LINK
Beniamin W., Libri per l’infanzia vecchi e dimenticati, in Figure dell’infanzia, Raffaello Cortina, Milano 2012
Lionni L., Pezzettino, Babalibri, Milano 2006 (prima edizione, Pantheon, New York 1975).
Giovanna Zoboli è scrittrice ed editrice. Con Paolo Canton, ha creato, nel 2004, il marchio Topipittori, specializzato in volumi per bambini e ragazzi, di cui è editor, direttrice editoriale e artistica. I suoi libri, per bambini e adulti, sono pubblicati in Italia e all’estero. Svolge attività di studio sui temi della cultura rivolta all’infanzia, con interventi editi da blog, cataloghi, riviste, e attraverso incontri, lezioni, corsi. Dal 2010, cura la comunicazione del marchio, attraverso il blog, la pagina Facebook, Instagram. Collabora con le riviste LiBeR, Bambini e Hamelin, e con i siti di cultura online Doppiozero, cheFare e Federico Novaro Libri. Vive e lavora a Milano.