i non-detti del museo
La paura del buio.
Le cose che non vogliamo dire ma che restano presenti.
di Lucilla Boschi e Fabio Fornasari

“Ci sono due futuri, il futuro del desiderio e il futuro del destino, e la ragione umana non ha mai imparato a separarli”
(John Desmond Bernal, 1929) [1]

La sostanza di cui siamo fatti: l’universo è un immenso e profondo mantello nero puntinato di piccole luci. Credito fotografico: Bruno Gilli/ESO Licenza: CC BY 4.0

La prima scienza è nata in relazione allo sguardo che l’uomo ha dedicato al cielo in movimento, nel suo duplice aspetto di volta celeste e di mantello puntinato di stelle.
Questo ha permesso ai primi pensatori di comprendere la sfericità della terra che tiene insieme intorno a sé stessa, giorno e notte, buio e luce. Hanno compreso da subito lavorando per intuizioni e analogie, osservando e ragionando.

Analogie
I concetti sono sempre, in ogni istante, attivati in modo selettivo da analogie che il nostro cervello fa in continuazione, nel tentativo di dare senso al nuovo, all’ignoto a partire dal vecchio e dal conosciuto (Hofstadter, 2015, p. 22). Alle più semplici analogie affianchiamo le metafore che dialogano intensamente con il nostro pensiero emotivo. Illuminato è il senso e questo genera serenità, benessere. Oscuro è quello che ci impaurisce e oscurato è il rimosso, la cosa della quale è meglio non parlarne, non evocarla. Quando qualcosa non si comprende chiaramente deve essere taciuta, non se ne può parlare. Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere (Wittgenstein 1968, p. 81). Così ci dice Wittgenstein e così in tutte le scienze vengono trattate le cose scomode, da non dire.

Materie oscure
Per i fisici e i cosmologi, oscura è quella materia che non possiamo ancora dire di conoscere. Oscurante è il velo che ricopre nascondendo ma che non elimina: copre solamente, rimuove. L’oscurità caratterizza anche il mondo vegetale che rimane aggrappato all’oscurità della terra, come ha ben mostrato Victor Hugo che descrive l’albero visto dalla parte delle radici nella poesia Il satiro.
Nel mondo animale invece il nero appare pacificato, onnipresente e tollerante: solo gli uomini hanno mutato in maleficio il nero del corvo e del gatto.

Museo, Cose, Persone
Da questa separazione originaria tra la luce e il buio ha inizio la nostra cultura. Una separazione che possiamo incontrare nei racconti fondativi di molte civiltà.
Questa separazione la manteniamo viva cercando di difendere la parte più chiara di noi, rimuovendo tutto ciò che è scuro e che ci fa paura. Tentativo che lascia comunque sempre sentire tra le righe dei nostri pensieri traccia di quell’unità originaria che tiene insieme le due parti.
Anche il detto e il non detto una volta ancora parla di luce e di ombra: ciò che si dice illumina, ciò che non si dice resta all’oscuro. Il non detto del museo sarebbe quindi la parte oscurata, ciò che non si dice. La cosa più oscurata non è ciò che resta nell’ombra ma l’ombra contenuta anche nella parte illuminata.

Perturbante
Il buio che temiamo di più non è quello intorno a noi o quello rappresentato nell’opera, ma il buio contenuto nella cosa che stiamo guardando: il perturbante. Qualcosa che riconosciamo vicino a noi ma che sentiamo contemporaneamente come una minaccia.
Questo è il perturbante. Non è il buio del cieco, di chi non vede ed è perso e alla ricerca di una continuità mancante. È il buio che si nasconde dietro ciò che vediamo, dentro ciò che è illuminato.
Il museo ha spesso a che fare con questa possibilità di perturbare con le opere, con i suoi discorsi, le sue narrazioni. Si tende a nascondere le parti perturbanti con narrazioni rassicuranti, consolatorie.
Uno dei rischi del museo di oggi che si relaziona con il turismo culturale è quello di considerare il suo pubblico dei clienti. I turisti, diceva Paul Sartre, sono i nuovi eserciti che conquistano il mondo. La loro vittoria sta nel veder soddisfatta la richiesta di intrattenimento. Per farlo tornare, il turista culturale va rassicurato: il bene vince sempre sul male. La luce vince sempre sul buio.

Esperienza
Il museo è cresciuto insieme alla capacità dell’uomo di immaginare, ricercare, selezionare, isolare e separare alcune cose dal suo ambiente per portarlo in un altrove. Come gli oggetti siano pervenuti ai musei è una informazione non sempre chiara: bottini di guerra, furti d’arte su commissione, raccolta di oggetti di altre culture “inferiori” sono pratiche non estranee che hanno contribuito alla formazione delle collezioni dei nostri musei.
Su queste dinamiche ricercano gli storici e come detective fanno luce nelle memorie oscure degli archivi. Il museo ha il compito di raccontare questa storia.

Ricerca
La ricerca è una domanda che riguarda il sapere. Ma non si domina la ricerca se non si cattura l’oggetto del nostro peregrinare. La ricerca è un inseguimento senza fine che definiamo metodo.
Ma questo percorso è sempre distratto da qualcosa che non ci attendiamo, che si cela nell’ombra rispetto all’obiettivo illuminato dal metodo. Ed è in quell’ombra che si celano le cose esplosive, fortuite o indiscrete, una cosa improvvisa che diventa un esercizio di lettura, di interpretazione, da affrontare. Quella scoperta accidentale depista, fuorvia ma accresce la nostra impazienza di arrivare al risultato. Ciò che l’incontro inatteso non è in grado di offrire, una risposta agli assiomi di partenza ce la dona altrove e altrimenti in una sperimentazione della ricerca come incontro che è un altro genere di conoscenza (Didi-Huberman, 2011, p. 11).

Luce
Il museo come luogo ideale dove le metafore si fanno spazio, dove le collezioni trovano luogo e possono essere comprese con grande chiarezza da un pubblico che va educato nasce contemporaneamente alla capacità di illuminare lo spazio.
L’uomo è quell’animale privo di artigli, privo di arti possenti e di ali per volare, privo di fiamme da fare uscire dalle narici, ma è capace di far luce, di proiettare un fascio di luce nell’ombra facendo sparire il buio dalla vista dei propri occhi. In questo momento dimentica che l’universo è una vastità di buio puntinata dalle stelle e che insieme alla luce delle nostre tecnologie proiettiamo anche il nostro doppio in forma di ombra.

Luci e ombre nel museo. Immagine dell’allestimento della mostra Rinascimento visto da Sud. Opera in mostra: Donatello, Protome di cavallo, 1456-58. A Palazzo Lanfranchi per Matera 2019 Curatori: Marta Ragozzino (Direttrice del Polo Museale della Basilicata), Pierluigi Leone de Castris, Matteo Ceriana, Dora Catalano (Crediti fotografici degli autori del testo)

Doppelganger: L’Ombra 

“lo spirito umano ha sempre paura di se stesso”
Georges Bataille

La nostra vita è rappresentabile come un cammino che ci porta dal buio alla luce, dalle tenebre alla luce eterna. Ma siamo anche l’ombra che proiettiamo: è il nostro doppio che ci contiene e che allo stesso tempo è contenuto in noi. Separato ma ancora noi. La reiterazione del simile è, come dimostrato da Freud, uno dei fattori più importanti tra le cause della “perturbante estraneità” (cfr Freud, 1966). Otto Rank ha evidenziato che, in termini primitivi, il doppio era un’assicurazione contro la distruzione dell’Io, un’energica smentita della potenza della morte (cfr. Rank, 2009).
Nella duplicazione di noi stessi, nella nostra ombra nasce la favola pliniana del mito dell’origine delle immagini: il nostro doppio che ci sostituisce nella nostra assenza.
Ma che natura ha?
Nella storia della rappresentazione occidentale l’ombra raffigurata diventa il tramite che mostra la parte demoniaca del soggetto rappresentato […] In questo cammino si ricongiungono la demonizzazione dell’ombra e l’immortalizzazione che ne consegue (Stoichita, 2000, p. 129).

Illuminare
Il museo è una bolla di luce che riveste le nostre paure: non le risolve ma ci permette di guardarle con maggiore attenzione. Ne conserva le tracce illuminate dalla ragione, ne conserva le storie. Potremmo dire che i musei sono pieni delle nostre paure prima ancora che delle nostre certezze: animali notturni, storie di streghe e di maghi.
I musei esistono per salvarci dall’in-visibilità, dalla possibilità di dimenticare le figure, le immagini che sconfiggono il buio della nostra mente ma che possono però mantenere anche vivo ciò che c’è di perturbante nelle stesse immagini ponendoci sul filo dell’abisso nel quale cadere.
Illuminare opere d’arte o altri oggetti al museo non è solo operazione metafisica: il far luce è anche creare una scrittura narrativa della luce, un lightscript che accompagna la visita all’interno di un continuo flusso variato di luce, una variazione che genera un senso e si fa racconto.

Innovazione
Nello stesso momento in cui illuminiamo produciamo anche ombre. Sono ombre che spesso non si vedono ma che creano una patina che rende opaco il discorso del museo.
I rischi delle nuove forme di coinvolgimento che tendono a uniformare più che a riunire le esperienze museali con altre forme di intrattenimento.
Ogni tecnologia ha il suo valore e il suo discorso ma come tutti i dispositivi mentre illumina crea delle ombre, oscurando parti del discorso. La soluzione non è abbandonare ciò che l’innovazione ci porta ma mantenere in mente la differenza tra il museo e qualsiasi altro spazio: il museo ha un compito interpretativo, critico, di ricerca e studio. Nonostante questo ha sempre permesso a tutti di muoversi in libertà mossi anche dalla più semplice curiosità. Qualsiasi tecnologia non deve mettere in ombra la curiosità di chi guarda e deve rispettare la possibilità che le conoscenze possano accadere accidentalmente.

Conoscenza accidentale
Didi-Huberman nel suo saggio La conoscenza accidentale dice: «vorrei parlarvi del mio animale preferito, o meglio di quello che un giorno mi provocò il terrore più squisito, il terrore del dissimile. Vi ricorderete di quel luogo che il Jardin des Plantes chiama vivarium, il vivario: è uno spazio che custodisce le vite e i pericoli, in cui gli Antichi tenevano rinchiuse murene e serpenti (per poterle scagliare contro qualche nemico, forse), bestie dentate e bestie velenose […] In quei luoghi di solito regna un silenzio di morte – chissà, forse le bestie feroci sono anche le più silenziose? Oggi invece il vivario risuona di deliziosi, piccoli clamori: un bambino si diverte a colpire con le unghie, o con i pugni, il vetro che lo separa appena da un grosso scorpione nero. È il potere del vetro, frontiera sicura e frontiera invisibile: il bambino va in visibilio al cospetto del falso pericolo. La sua mano posata sul vetro carezza un dardo mortale, ed è la carezza teorica e affascinante che gli è concessa da quei pochi millimetri di dura trasparenza. Ma presto il bambino smette, perché si accorge che il vetro è rotto: anche l’animale nemico accarezza quella frontiera, ma per varcare la fenditura nel senso opposto e, ovviamente, per vendicarsi di te, bambino colpevole, bambino irrequieto» (Didi-Huberman, 2011, p. 19)

Scenografie
Il vivario presenta sempre una scenografia, minerale o vegetale.
Davanti alle vetrine, il gioco consiste principalmente nello scovare il prigioniero, nel distinguere l’animale. Perché battiamo sul vetro? Per vedere qualcosa muovere al suo interno. Abbiamo l’abitudine di battere sul vetro del nostro smartphone e osserviamo accadere qualcosa. Ma la parola vivarium nasconde un significato: ciò che è di là dal vetro è cosa viva. Non è solo un algoritmo che risponde a uno stimolo.
Sulle vetrine battiamo sul vetro come fosse un dispositivo digitale ma la risposta, di fronte a un vivarium, arriva da un vivente.
Come dice Didi-Huberman il gioco diventa cercare la forma, la forma vivente che si suppone sia lì, davanti a noi, su uno sfondo indifferente di sabbie e vegetali – le cose atte a ricreare, come si osa dire, l’habitat della bestia (Didi-Huberman, 2011, p. 20).
Ci sono animali che sono la perfetta mimesi dell’habitat nel quale si nascondono. Fanno del proprio corpo lo scenario in cui nascondersi. Non ci sono copia e modello, ma c’è una copia che divora il suo modello e un modello che non esiste più. Quando c’è qualcosa da vedere normalmente ti avvicini per vedere meglio. Ma a volte, al contrario occorre allontanarsi, de-focalizzare e lasciarsi andare a un’osservazione fluttuante.

Progettisti di ombre
Forniamo tutte le chiavi possibili per rendere chiari i nostri musei, adottiamo metodi per arrivare al giusto contenuto ma restiamo colpiti di fronte a chi, caduto nell’ombra di una malattia degenerativa, riesce a fornirci una lettura nuova di una madonna scolpita nella pietra. Guardiamo come gli altri affrontano le proprie ombre, con la vertigine di chi ha paura di caderci dentro con tutto se stesso.
Abbiamo bisogno di curare la nostra ombra, il nostro doppio che ha altri strumenti per muoversi ma che ci attende quando chiudiamo gli occhi tutte le sere. Nel museo ci muoviamo tra regioni di buio e di ombre. Viviamo costantemente una visione deambulatoria, ma anche con gli smartphone in mano continuiamo a saltare le righe del pavimento, inseguendo il nostro pensiero magico.

Luce eterna-Lux aeterna
Se andiamo a interrogare il lessico del XVII secolo, cioè dell’epoca in cui la rappresentazione occidentale andò cristallizzandosi nei propri principi teorici fondamentali, ci accorgiamo che una delle accezioni della parola “ombra” dal primo vocabolario della lingua francese è: «ombra, si ritiene un nemico chimerico. Combatteremo forse contro la nostra ombra? Cioè contro i nostri sospetti e i nostri pensieri» [2]. Questa definizione rievoca quindi un’interiorizzazione dell’ombra in quanto proiezione della persona, in quanto zona “oscura” dell’anima in cui la negatività si materializza. La visualizzazione propriamente detta del nemico chimerico si manifesta prevalentemente in questa forma nei libri di emblemi, un fatto tutt’altro che fortuito dal momento che l’ombra è, per così dire, l’emblema del raddoppiamento negativo. (Stoichita, 2000, p. 129)

“Per ottenere la completa umanità ciechi e vedenti hanno bisogno gli uni degli altri”
Jon M. Hull [3]

Vedere
«Ciò che si deve tenere a mente è che la vista non consiste solo nel lavoro degli occhi. La vista, la possibilità di vedere, preesiste all’occhio come strumento. Finché gli uomini dimenticheranno questo fatto incorreranno in molte illusioni e molti insuccessi. Diventeranno impazienti, vorranno vedere, vedere sempre di più, senza sapere, di fronte a questo torrente di immagini, chi è che realmente vede questi spettacoli» (cfr. Deonna, 2000).
Ma il cieco lo sa naturalmente. Soprattutto il cieco continua a vivere e a sperimentare con una forza irresistibile quel meraviglioso scambio reciproco che avviene tra il mondo interiore e il mondo esteriore. Forse il cieco è l’unico capace di godere di una scultura in quanto la visione retinica smaterializza e fa perdere peso a ciò che guarda. Come un’ombra luminosa per il vedente una immagine non ha peso e fino a quando una mano non scorre su una superficie non può conoscere la cavità, la convessità, la scabrosità e la temperatura di una scultura. Poter toccare a tutto tondo la Pietà Rondanini fa comprendere appieno il senso stesso dell’opera di Michelangelo. Come avere altrimenti esperienza di tanta bellezza?
Come un paesaggio: solo quando ci sono immerso posso coglierne l’infinta bellezza.
E quanto cambia se mi ci trovo da solo dove il dialogo con l’interiorità non ha più limiti.

Una voce recita
“Mi ritrovo in una radura. Per chi tanta bellezza?
Nessuno per vederla.
Dunque era ancora più bella.
Solitudine perfetta.
Cosa sono questi occhi?”
Aleksandr Sokurov, Elegia del Viaggio [4]

Suoni
Una sensazione vissuta da tutti. Immersi nel buio, le nostre paure popolano gli spazi lasciati abbandonati dalla vista, prendono forma e ne sentiamo il rumore. Sentiamo la loro presenza nella grana dei rumori che popolano il silenzio. Una trama che sosteneva le immagini dello spazio intorno a noi nei silenzi e nelle pause tra un rumore e l’altro. Poniamo attenzione ai più piccoli rumori, per come questi arrivano e per come vanno. Per come si spostano nello spazio. Così ci costruiamo un paesaggio nel nostro essere immersi nel buio.
Franco Farinelli, geografo, in un podcast [5] spiega che il rapporto originale che abbiamo con la realtà si chiama paesaggio. È una impressione sentimentale, ma se non ci fosse questa impressione nessun tipo di conoscenza scientifica potrebbe svilupparsi e assicurarsi. Humboldt faceva coincidere la storia dell’umanità nel suo rapporto con la terra e la storia di ciascun individuo.
La relazione è sonora. Non vi è distanza possibile. C’è allineamento tra soggetto e ciò che lo circonda: il paesaggio.

Silenzio
La voce è una parte del corpo. Forse la più sottile, e la sua grana è il tessuto che si può toccare che contiene toni chiari e toni scuri. Il buio e la luce sono incorporati in noi.
La voce e il suono sono due elementi mantenuti fuori dal museo. Si progetta il silenzio, raramente la presenza del suono. Il museo normalmente ha un suono notturno, buio anche quando le opere e gli spazi sono illuminati. Dal punto di vista dei suoni si fa giorno quando si mettono le cuffie: suoni, musiche e la voce umana, impostata, innaturale che legge, recita, declama.
Quando la voce è presente, normalmente è nascosta nelle audio cuffie e indossandole ecco che una nuova ombra di silenzio nasconde i suoni dell’ambiente. Con le cuffie perdiamo una delle percezioni più importanti che ci lega allo spazio che ci accoglie.
Al silenzio si sostituisce la parola che non ci permette di ascoltare il silenzio.

Scambiare parole
Le parole sono importanti, sono creature viventi, sono una radicale importanza nel creare ponti di comunicazione fra chi parla e chi ascolta. Non tutto è dicibile e non tutto è esprimibile. Non dobbiamo illuderci di potere spiegare tutto. Nulla come l’ascolto, il vero ascolto ci può fare capire la correlazione tra silenzio e parola. La parola è il tratto distintivo dell’uomo, non perché aggiunto alla sua natura, ma perché costitutivo (Borgna, 2017).
Come la luce dal buio e verso il buio: le parole nascono dal silenzio e muoiono nel silenzio e tuttavia le parole non sono mai fragili come lo è il silenzio, che non parla se non con il linguaggio dei volti, degli sguardi e delle lacrime o del sorriso ed è un linguaggio che si coglie nei suoi significati profondi solo quando è accompagnato dalla luce arcana dell’interiorità.
«Comunicare è allora entrare in relazione con se stessi e con gli altri: comunicare è trasmettere esperienze e conoscenze personali: comunicare è uscire da se stessi e immedesimarsi nella vita interiore di un altro da noi: nei suoi pensieri e nelle sue emozioni» (cfr. Borgna, 2017, p. 12).

La parola che genera
Dai primi passi della Bibbia cosa apprendiamo? Prima di qualsiasi parola il buio, la sostanza che ci rende invisibili, inesistenti. Poi, la luce e le cose prendono corpo e le riconosciamo di parola in parola. La Bibbia è il primo museo del mondo fatto di immagini messe in narrazione: una raccolta di azione, una collezione delle prime cose che si mostrano a chi ha strumenti per comprendere.
La genesi racconta ciò che Dio fece il primo giorno, poi il secondo, il terzo quando non c’era il sole e non c’erano i giorni, e in generale non c’era il tempo e non c’erano le parole per raccontarlo. Un racconto che si perpetua da millenni.
Noi possiamo sentirlo e agire solo ora. Dio agisce invece nell’eternità. Sono solo immagini quelle che si raccontano, che valgono come racconto anche per chi non crede.
Ma attenzione per chi crede: non sono affatto immagini per noi. Non esiste impossibilità più grande: l’impossibilità di rappresentare un’azione eterna. Questi testi ci parlano dell’impossibilità di comprendere e di rappresentarci un’immagine di ciò che raccontano. (Hersch, 2009, p. 65). Ancora una volta quello che ci viene mostrato non è ciò che è illuminato dalle parole ma qualcosa che si nasconde dietro la luce, che va compreso e inteso. Questo a sottolineare una volta ancora che possiamo dividere il chiaro dallo scuro, la luce dalla tenebra, ma ciascuno trova nell’altro il suo valore più intimo.

Paura del buio – Acluofobia
Paura: è un’emozione inerente alla natura dell’uomo e della quale ognuno di noi è portato a fare esperienza (Strada, 2004, p. 15). Non bastano i veri pericoli del mondo: l’uomo doveva ancora inventare altre paure per dare a un corpo un’angoscia sempre più profonda.
La paura del nero, dell’uomo nero, del migrante che si porta scritta, visibile, sulla pelle le nostre paure: come una vertigine. Qualsiasi vertigine è caratterizzata da panico che unisce l’individuo alla minaccia di un possibile annientamento. La paura del buio è quindi solo la nostra passione per l’ignoranza e il museo è il luogo dove la si fa diventare cultura per sconfiggerla, per accoglierla.
Tutto questo senza entrare all’interno di un pensiero magico e più in generale all’interno di un rapporto con la realtà che si fonda sull’assenza di differenziazione tra sé e il mondo circostante. Nel pensiero magico il mondo è interpretato secondo le proprie esigenze emotive contingenti. Partendo dall’esperienza del proprio corpo, del proprio mondo interiore, delle proprie emozioni e azioni, il bambino attribuisce a ciò che lo circonda le proprie stesse caratteristiche senza distinguere se stesso dalla realtà con cui interagisce. Il mondo cosi diventa animato, vivo e dotato di intenzionalità e in questo modo può agire attraverso la sua azione magica e così ha il potere di determinare la realtà piegandola al proprio volere in modo onnipotente.

Realismo Magico

“Non sono io ad aver visto tutto ciò davanti a me?
Ogni albero, ogni ombra…
Mi ricordo bene di questo cielo
Molto bene
Perché ho a lungo atteso il momento
In cui le nuvole avrebbero cominciato ad allontanarsi
E avrei visto l’altra faccia
E avrei letto ciò che vi era scritto
Se la fede esiste il cielo è vivente
In basso tutto è morto?”
Aleksandr Sokurov, Elegia del viaggio

Nell’Elegia del viaggio di Sokurov, realtà e immaginazione si fondono fino a dar vita a un vero e proprio “realismo magico in movimento“. Movimento che mescola nel suo intricato interno visivo, realtà, veglia, sogni e ricordi. Nell’opera del regista russo il passato vive nel futuro per rivelare a noi spettatori come la “verità ultima” delle cose non sia altro che un paradosso: ciò che è assente è presente. Ciò che è lontano resta vicino. Ciò che è invisibile è in realtà palese [6]. Visitare una mostra non equivale forse a viaggiare nel tempo? Sokurov ci risponde affermativamente. Con Elegia del viaggio il regista può finalmente abbandonarsi alla contemplazione dell’arte nelle sale deserte di un museo e, ritrovando la propria identità, sentirsi finalmente parte della Storia.

Esplorare il buio: l’immagine ricomposta. Il buco nero supermassiccio nel nucleo della galassia ellittica Messier 87 nella costellazione della Vergine. Si tratta della prima immagine diretta di un buco nero, realizzata collezionando più osservazioni svolte all’interno del progetto internazionale Event Horizon Telescope. Event Horizon Telescope Collaboration Licenza: CC BY 4.0

Epilogo
Un testo sulla luce e sul buio non può che procedere per frammenti richiamando dalla prima scrittura l’idea che non esiste buio senza luce e che questi due aspetti hanno figure differenti che sono in continuo dialogo tra loro. Possiamo oscurare, cancellare una parte del nostro essere perché essendo parte costitutiva di quello che siamo parla comunque attraverso la parte che rimane. Certo è che, metafora o analogia, il buio è immenso e nella sua totalità indicibile e per questo fa paura, ma è anche naturale che lo faccia. Quindi il museo può fare provare anche il sentimento di paura, il perturbante. Non deve semplicemente consolare il suo pubblico.

Note
[1]
Incipit all’introduzione del volume di Lingiardi V., Diagnosi e destino, Einaudi, Torino, 2018
[2] Furetiére A., Dictionnaire Universel, Den Haag-Rotterdam 1727
[3] Citazione tratta dagli appunti del teologo John Hull, diventato cieco per distaccamento della retina. Questa citazione è posta a chiusura del film Notes on Blindness diretto e prodotto da Peter Middleton e James Spinney nel 2016
[4] Titolo originale del film mediometraggio Elegiya dorogi, diretto da Aleksandr Sokurov nel 2001.
[5] Intervento del geografo Franco Farinelli all’interno del Podcast Tre Soldi dal titolo Voicescapes diretto da Renato Rinaldi. Aggiornamento 19 maggio 2019: QUI
[6] Riferimenti al testo pubblicato sul sito della SALT Edition. QUI

Bibliografia
Ball P., L’invisibile. Il fascino pericoloso di quel che non si vede. Einaudi, Torino, 2016
Borgna E., Le parole che ci salvano, La fragilità che è in noi. Parlarsi, Responsabilità e speranza. Einaudi, Torino, 2017
Deonna W., Il simbolismo dell’occhio, Bollati Boringhieri, Torino, 2008
Didi-Huberman G., La conoscenza accidentale. Apparizione e sparizione delle immagini. Bollati Boringhieri, Torino 2011
Edwards N., Storia del buio, Il Saggiatore, Milano, 2019
Freud S., Il perturbante in Freud Opere 1917-1923 Volume nono, Bollati Boringhieri Torino, 1977
Giuva L., Vitali S., Zanni Rosiello I., Il potere degli archivi. Usi del passato e difesa dei diritti nella società contemporanea. Bruno Mondadori, 2007
Hersch J., Tempo e musica. Baldini e Castoldi, Milano, 2009
Merleau Ponty M., Il visibile l’invisibile, Bompiani, 1969
Hofstadter D., Sander E., Superfici ed essenze . L’analogia come cuore pulsante del pensiero. Codice Edizioni, Torino, 2015
Ingold T., Making, Antropologia, archeologia, arte e architettura. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2019
Lingiardi V., Diagnosi e destino. Einaudi Torino, 2018
Lusseyran J., Lo sguardo diverso, Filadelfia editore, 2014
Mauri P., Buio, Einaudi, Torino, 2007
Rank O., Il doppio. Il significato del sosia nella letteratura e nel folklore, Sugarco Edizioni, Milano, 2009
Stoichita V. I., Breve storia dell’ombra. Dalle origini della pittura alla pop art. Il saggiatore, Milano, 2000
Strada, R., Il buio oltre lo schermo. Gli archetipi del cinema di paura, Zephyro edizioni, Milano, 2004
Wittgenstein L., Trattato logico filosofico, Einaudi, Torino, 1968
Zardini M., (a cura di), Sense of the city. An alternative approach to urbanism. Canadian centre For Architecture-Lars MüllerPublishers, Montreal 2005

Fabio Fornasari costruisce dispositivi per mostrare e raccontare storie di valore all’interno di progetti, installazioni museografiche e ambienti di apprendimento. Tra queste il Museo del Novecento di Milano e il Museo Tolomeo. Sviluppa progetti che hanno una dimensione relazionale: coinvolgono il pubblico all’interno di dinamiche di interazione cognitiva e sensoriale. A fianco di psicologi e pedagogisti sviluppa modelli educativi di frontiera in diversi centri di ricerca.

Lucilla Boschi, laureata in Beni Culturali all’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, specializzata in Intermedialità presso l’Università degli Studi Roma Tre, nel corso del tempo ha sviluppato la propria esperienza nella curatela di mostre, nell’organizzazione di eventi culturali internazionali e nella ricerca e creazione di contenuti, portando avanti nel contempo l’analisi dei rapporti tra ambiente e persone con diverse abilità. Da qualche anno collabora con lo Studio di Architettura Fabio Fornasari, affiancandolo nei progetti di allestimento museale. Attualmente si occupa della curatela, della progettazione culturale e della comunicazione di Museo Tolomeo presso l’Istituto dei Ciechi “Francesco Cavazza” di Bologna.
In ICOM Italia è Coordinatrice della Commissione tematica Accessibilità museale e consigliere regionale per l’Emilia-Romagna.