+Fluid Heritage
La Maison Populaire come modello di attivismo LGBTQ+
di Giulia Guaran

Il 2020 è stato e continua ad essere un anno diverso dagli altri. Contraddistinto da incertezze, paure e sconvolgimenti radicali riscontrabili a tutti i livelli del sistema, si presenta tuttavia come un momento favorevole sul piano socio-culturale per riflettere su svariate questioni, tra cui i discorsi legati a temi di genere e LGBTQ+. La Maison Populaire di Montreuil (Parigi) è una tra le numerose realtà culturali che ha scelto il 2020 come anno per orientare in maniera diretta la sua ricerca a tematiche legate a corporeità, genere e fluidità in linea con la società del presente. In particolare, la Maison Populaire ha deciso di sfruttare il concept della residenza curatoriale per dar voce a diversi artisti attraverso il ciclo di mostre NO NO DESIRE DESIRE curate da Thomas Conchou.
Prima di delineare il progetto del giovane curatore e la missione portata avanti dalla Maison Populaire, raccontata attraverso le parole della stessa direttrice Pauline Gacon, si ritiene opportuno affrontare brevemente il discorso sul ruolo e le attività delle istituzioni culturali nel contesto LGBTQ+.
Le istituzioni culturali, quali musei, scuole e università, e le diverse associazioni culturali sono chiamate ad assumere una posizione di responsabilità e a proporsi come figure di riferimento per la collettività. Infatti l’arte, che si tratti di immagine, suono, testo, parola, installazione, protesta, forma teatrale o performance, è da intendersi oggi come mezzo di comunicazione fondamentale e centrale nell’accesso e nel sovvertimento di stereotipi e preconcetti nei confronti della realtà LGBTQ+. Nonostante ciò, si rileva ancora una politica e un attivismo in parte carente nelle istituzioni, spesso accompagnato da esigua tolleranza nei confronti di diversità e categorie considerate altre. Questo scenario si riflette in un debole dibattito pubblico che non vede delle figure di riferimento, pubbliche o private, a rappresentare, sostenere e indirizzare la collettività. Pertanto le istituzioni culturali non dovrebbero rimanere indifferenti a casi quotidiani di discriminazione e violenza nei confronti di questioni di genere e sessualità. È opportuno però, allo stesso tempo, evidenziare la difficoltà di approccio e messa in questione di questi concetti, caratterizzati da sfumature fluide, interpretazioni ambigue e legati a una sfera di attributi, circostanze e riferimenti delicati, intimi e fortemente identitari. Tuttavia, in tempi recenti, molteplici realtà culturali hanno iniziato a cogliere il valore e l’urgenza di sostenere una comunicazione e una trasmissione costruttive di queste tematiche a favore della comunità, promuovendone riflessioni di spessore, politiche educative e azioni di sensibilizzazione.

Tra i progetti realizzati di recente presso sedi museali europee si possono citare Desire, Love, Identity LGBTQ histories trail [1] presso il British Museum, che consiste in percorsi tematici di riscoperta e rilettura in chiave di identità sessuale di una selezione di opere della collezione; rimanendo a Londra, anche la Tate Britain ha organizzato nel 2017 la mostra dal titolo Queer British Art 1861-1967 [2], ripercorrendo la complessità della storia della sessualità attraverso l’arte inglese. In parallelo anche il Bode Museum di Berlino a cavallo tra il 2019 e il 2020, offre un percorso alternativo, chiamato The Second Glance [3], costituito da 5 percorsi al suo interno, con lo scopo di guardare ad alcuni pezzi della collezione permanente con uno sguardo nuovo e aperto su questioni di diversità di genere e orientamento sessuale.
Questi esigui esempi sono sufficienti a mettere in luce la necessità da parte delle istituzioni di assumere una posizione nel contesto contemporaneo, non essendo più possibile restare indifferenti e mantenersi estranei a temi imprescindibili nel XXI secolo. La questione identitaria coincide ancora oggi con una delle controversie di maggior rilevanza e centralità nella società odierna. Le realtà culturali hanno il diritto e il dovere di favorirne il dibattito, di offrire alla collettività le chiavi di lettura e gli strumenti necessari per poter mettere in dubbio, investigare e conoscere gli aspetti legati alla realtà LGBTQ+, al fine di raggiungere una consapevolezza tale da comprendere per quanto possibile i processi identitari altri e propri.
Con questa politica di attivismo museale non bisogna però scadere in attività quasi promozionali e di marketing culturale. Si allude qui a quelle “mostre-pacchetto” che vengono ideate per muoversi e installarsi in realtà territoriali contraddistinte da assetti socio-culturali estremamente diversi tra loro, senza tenere conto del target del pubblico e delle azioni politiche e cultuali già compiute o in corso di realizzazione a livello locale. Al contrario, sarebbe più corretto e proficuo concepire qualsiasi tipo di azione legata a temi LGBTQ+ partendo dall’humus culturale della zona in cui si vuole agire. Solo dopo un’accurata analisi territoriale, della popolazione e del livello di interesse e ricezione generale, è possibile pensare a un programma culturale veramente distintivo e fecondo. In seguito, anche la collaborazione con altre realtà del luogo risulta essere di fondamentale importanza. 

La Maison Populaire di Montreuil, associazione di educazione popolare fondata nel 1966 con l’obiettivo di offrire uno spazio di accoglienza e riferimento per la comunità giovanile di quel tempo, rappresenta ancora oggi un’istituzione centrale per la periferia parigina. Essa viene definita un’associazione di educazione popolare in movimento per il suo carattere trasversale, vario e in continua evoluzione, capace di adattarsi ai più svariati contesti e problematiche sociali e culturali legate all’attualità e alla territorialità in cui è inserita. Tra le varie iniziative proposte vi sono mostre d’arte, proiezioni cinematografiche, concerti e spettacoli, dibattiti e conferenze, e infine l’area pedagogico-didattica dedicata all’infanzia e alle scuole. Queste azioni sono rivolte ad un pubblico su ampia scala, dai bambini agli adulti e ricoprono tutto l’arco dell’anno. La Maison Populaire presenta un centro per l’arte contemporanea che, come un laboratorio, tesse delle storie capaci di offrire diversi stimoli sia per la realizzazione che per la fruizione dell’arte. Le diverse attività e gli ateliers si organizzano in maniera satellitare al centro d’arte e ne sono dipendenti e indipendenti allo stesso tempo. Accanto a questi vi è la possibilità di partecipare a residenze artistiche e curatoriali ai fini di sviluppare programmi collettivi e pratiche artistico-culturali transdisciplinari, favorendo lo scambio di idee e la nascita di nuovi impulsi. L’incrocio e il dialogo aperto tra ambiti e audience diversi incoraggiano inoltre il raggiungimento di una consapevolezza collettiva nei confronti dei maggiori temi e tabù legati alla contemporaneità [4].

Thomas Conchou è un giovane curatore indipendente che attualmente vive e lavora a Parigi. Durante la sua partecipazione alla residenza curatoriale per l’anno 2020 presso la Maison Populaire ha concepito il ciclo NO NO DESIRE DESIRE, costituito da tre mostre, con l’obiettivo di indagare le pratiche artistiche queer in relazione ai loro possibili sviluppi futuri. La direttrice Pauline Gacon racconta di come da tempo il tema della metamorfosi del corpo e la questione di genere costituiscano per lei un motivo di forte interesse, urgenza e impegno politico, sociale e culturale, e che finalmente è riuscita ad indagare e concretizzare con la corrente programmazione. Anche se solo grazie a questo ciclo di mostre il tema queer viene affrontato esplicitamente per la prima volta, da sempre l’intento della Maison Pop è quello dell’educazione popolare investendo un primario interesse per argomenti sociali e di attualità [5].

“Josefin Arnell, Smile and be happy, 2017”. Foto di Anita Moreno da I’m from nowhere good.

La prima mostra I’m from nowhere good (gennaio – luglio 2020) è una collettiva che vede i nomi di una dozzina di giovani artisti contemporanei come Josefin Arnell, Simon Brossard & Julie Villard, Roy Dib, Nash Glynn, Tarek Lakhrissi, Hannah Quinlan & Rosie Hastings, Bruno Pelassy, Luiz Roque and Mikołaj Sobczak. In questa cornice Conchou evidenzia e questiona gli aspetti materiali che la minoranza queer deve affrontare, definendone non solo gli aspetti di limitazione di accesso e visibilità, ma anche la conquista dei diritti di uguaglianza ed emancipazione. Cruciale per il curatore è l’immaginario che accompagna la loro esistenza marginale, la quale viene soprattutto concretizzata attraverso opere mediali e video. Durante un’intervista al curatore viene chiesto di definire in primo luogo il concetto di queer ed egli lo dichiara innanzitutto come una conquista per le minoranze. Come già enunciato il termine inglese significa letteralmente bizzarro, strano, eccentrico, ciò nonostante questo nome designato prima dal disprezzo viene in seguito preso e utilizzato come elemento di orgoglio. Pertanto, queer allude quasi a un “ambiente-condizione” dove si mescolano pratiche artistiche, sociali, culturali e politiche, ma anche sentimenti, relazioni e aspetti di sessualità. Al contempo, si tratta di uno spazio teorico e di profonda ricerca dove è possibile rimettere in discussione i concetti di binarismo, identità e orientamenti sessuali e di genere. Il corpo e le pratiche ad esso legate occupano una posizione centrale in questo spazio dedicato all’indagine e all’acquisizione di consapevolezza. I’m from nowhere good, già a partire dal titolo, richiama alla mente quell’idea di origine e provenienza che in qualche modo dev’esser negata o dissimulata poiché non ritenuta conforme alle linee della società. Le personalità che si riconoscono nell’etichetta queer guardano alla loro vita e alle conseguenze della loro provenienza come a un qualcosa di “non buono” che non concede loro di vivere e agire in tutta normalità, senza il peso di pregiudizi, discriminazioni e limitazioni quotidiane. I’m from nowhere good indaga le origini a cui si legano i diversi traumi con i quali le personalità queer devono combattere quotidianamente, in particolar modo il concetto astratto di “non appartenenza a nessun luogo” (in inglese placelessness) rappresenta un tema d’indagine centrale in questa mostra. Infatti, per le comunità queer il non sentirsi appartenere a nulla e a nessuno, il provare una sensazione di non-origine, come se non vi fossero antenati e alberi genealogici per loro a causa della loro condizione, comporta il credere a una mancanza di radici. A questo si aggiunge il forte condizionamento provocato dalla smania di classificare e normalizzare spazi, provenienze, passati e discendenze, propria della società a noi contemporanea. Questo stato quasi di soffocamento nei confronti delle personalità queer ha spinto gli artisti presenti in mostra a indagare le questioni legate all’origine, agli spazi, alle relazioni e al loro posto nel mondo, e infine a riflettere se nel 2020 abbia ancora senso parlare di “posto nel mondo”. La mostra da un lato si pone come obiettivo quello di mettere in luce le diverse facce dell’oppressione di genere e riflette su come sia ancora difficile nella società odierna condurre un’esistenza con un corpo e degli attributi non conformi. Dall’altro offre attraverso i lavori esposti alcune chiavi di lettura e di riscrittura della realtà queer, passando da un concetto comunemente percepito come negativo a un’opportunità di rinascita in nome di positività e crescita, in vista di un futuro che dispone le potenzialità per potersi affermare in quanto tali [6]. A tal proposito le opere in mostra parlano dell’anticipazione di un futuro alternativo, forse a tratti utopico, e facendo leva sull’immaginazione si riesce a delineare una realtà ibrida e di coabitazione dove le diverse entità sono accettate e felicemente integrate. I lavori esposti si propongono per l’appunto come chimere per un futuro nuovo, diverso e di rinascita, slegato dalle costruzioni e categorizzazioni sociali. Ad espressione e ricerca del discorso identitario si ricorda il lavoro Out of the blue di Tarek Lakhrissi, un filmato breve dalle note futuriste, ambientato durante un’invasione extra-terrestre, che suggerisce ed esplora idee di libertà, determinazione del sé aprendo a nuove prospettive identitarie e queer [7].

Scultura, Simon Brossard et Julie Villard. Tahrek Lahkrissi, Out of the blue, video, 2019. Foto di Anita Moreno da I’m from nowhere good.

Il tema dell’invisibilità viene trattato in modo sottile ma pungente dal video Mondial 2010 di Roy Dib, il quale decide di raccontare il viaggio di una giovane coppia di uomini libanesi omosessuali che deve attraversare il confine tra Palestina e Israele. Accanto alle frontiere fisiche e geografiche, il filmato allude a quelle culturali e di genere, soffermandosi sulla condizione di invisibilità dei corpi e delle vite dei due protagonisti che rappresentano il concetto generale di minoranza, quindi discriminata e occultata in una società ancora fortemente eteronormativa. Ad evidenziare ancor più questo aspetto sono le riprese del filmato che volontariamente non inquadrano mai i due ragazzi, viceversa si concentrano sul paesaggio circostante mettendo in luce gli aspetti di non-luogo, di non-appartenenza già annunciati precedentemente (Metayer, 2020).

La seconda mostra s’intitola La clinique du queer (settembre – dicembre 2020) e vede una partecipazione altrettanto numerosa di artisti, tra cui Babi Badalov, Simon Brossard & Julie Villard, Gaëlle Choisne, Jude Crilly, Éditions douteuses (Élodie Petit & Marguerin Lelouvier), Justin Fitzpatrick, Victorine Grataloup, HIGH HEAL (Lisa Fetva, Fatma Wicca & Lorenzo Targhetta), Tarek Lakhrissi, Paul Maheke, Roxane Maillet & Barbara Quintin, Élodie Petit, Raju Rage & Al Pheratz, Julien Ribeiro, Rotolux Press (Léna Araguas & Alaric Garnier), Bassem Saad, Eothen Stearn et Simone Thiébaut. Qui il tempo della mostra è quello futuro, con un balzo in avanti al 2069, dove le città sono collegate da treni magnetici e i corpi umani hanno perso la loro caratteristica di invecchiamento e autodistruzione. Attraverso cure ormonali e mediche i soggetti si reincarnano in altre vite per popolare questa nuova fase del mondo. Si allude a una vera e propria clinica medica, clinica del queer, dove i nuovi esseri conducono le loro attività quotidiane. Lo scenario qui descritto, sostiene Conchou, richiama volontariamente un sistema medico-legale in relazione alla comunità queer in termini di messa in questione delle pratiche fisico-estetiche, identitario-ormonali e sul piano domestico e della cura del sé.
Attraverso queste mostre Conchou sottolinea la necessità di non guardare alla produzione queer solo come una ricerca legata a questioni di genere e accettazione identitaria, al contrario queste pratiche dovrebbero essere percepite come punto di partenza per ripensare e quindi organizzare un mondo futuro post-capitalista, ecologico e antirazzista.

Babi Badalov, Homoresexualism, 2020. Foto di Anita Moreno da La clinique du queer.
Justin Fitzpatrick, Vehicle n°1: The White Glasses, 2019. Foto di Anita Moreno da La Clinique du queer

Ritornando al discorso sul ruolo delle istituzioni culturali nell’affrontare e sensibilizzare temi LGBT, Pauline Gacon racconta le divergenti reazioni al ciclo NO NO DESIRE DESIRE da parte del pubblico. Se da un lato la presenza e l’attenzione costante di Conchou nello sviluppo delle varie iniziative proposte e l’efficiente lavoro svolto dall’equipe di mediatori culturali nel trasmettere idee, valori e anche problematiche legati alla sfera queer hanno favorito un riscontro positivo e di soddisfazione da parte del pubblico. Dall’altro, invece, in un primo momento è stato fatto un passo indietro da parte dei responsabili dei settori giovanili del comune di Montreuil e dal gruppo di animatori che avrebbero dovuto fare da filtro e da canale di trasmissione tra i contenuti espressi dalle opere in mostra e i ragazzi partecipanti a visite, laboratori e attività creative. Da loro viene rivendicata un’inadeguata formazione nei confronti di questi argomenti, non sentendosi quindi all’altezza di divulgare e sensibilizzare i più piccoli. Infatti, le maggiori opposizioni sono arrivate da parte di un’audience adulta, preoccupata per il carattere politico, attuale e quindi anche delicato legato alla sfera LGBT, ritenuto eccessivamente forte e diretto per i più piccoli. Per far fronte a questa reazione la Maison Populaire si è mobilizzata per offrire un supporto diretto ad animatori, mediatori, a tutti i rappresentanti politici della comunità di Montreuil e alle figure di riferimento nel campo dell’educazione scolastica, della sanità, delle politiche giovanili e delle realtà ricreative. In altre parole, la Maison Pop ha organizzato una giornata di incontri, visite guidate, laboratori e momenti di confronto, dialogo e raccolta di dubbi e domande per tutte le figure di mediazione al fine di far conquistare loro una maggior consapevolezza e sicurezza delle proprie conoscenze e capacità divulgative sugli argomenti trattati dal ciclo NO NO DESIRE DESIRE [8].

Il principale pubblico dell’istituzione di Montreuil coincide soprattutto con visitatori fidelizzati che pertanto ne frequenta regolarmente gli spazi. In specifico, la comunità queer dell’Île-de-France è stata coinvolta fin da subito nella realizzazione delle mostre e delle attività collaterali attraverso una partecipazione attiva e costruttiva.
Infine, a favore della partecipazione numerosa alla programmazione della Maison Pop, e della ricezione positiva da parte della popolazione locale, gioca sicuramente un ruolo fondamentale la natura stessa di Montreuil, realtà contraddistinta da un passato di ville d’artiste e che ancora oggi si afferma grazie a numerosi ateliers, a progetti di riqualifica urbana che vedono il riutilizzo di vecchi edifici industriali trasformati in luoghi ricreativi e di supporto alla gioventù e alle minoranze. Per questo motivo il sostegno della comunità locale è evidente e si proietta ad esserlo anche in futuro, aiutando la Maison Populaire a guadagnare quasi un ruolo di apripista tra le istituzioni culturali francesi ad indagare i temi LGBT. Pauline Gacon evidenzia come il lavoro svolto nel 2020 dall’istituzione di Montreuil sicuramente continuerà ad essere stimolante attraverso i vari ateliers anche negli anni a venire e fungerà da esempio per altre realtà francesi, ponendo le basi per tessere in seguito una rete di collaborazione tra le varie entità, partendo dai temi LGBT per ambire a trattare altre questioni aperte, centrali e urgenti della contemporaneità [9].

Note
[1] British Museum  (Data di ultima consultazione 08/11/2020).
[2] Tate (Data di ultima consultazione 26/09/20).
[3] Staatliche Museen zu Berlin (Data di ultima consultazione 26/09/20).
[4] La maison populaire une histoire en mouvement (Data di ultima consultazione 22/09/2020).
[5] Dall’intervista da me condotta a Pauline Gacon il 02/10/2020.
[6] Dall’intervista al curatore Thomas Conchou su maison pop (Data dell’ultima consultazione 23/09/20).
[7] Thomas Conchou (Data dell’ultima consultazione 23/09/20).
[8] Dall’intervista da me condotta a Pauline Gacon il 02/10/2020.
[9] Dall’intervista da me condotta a Pauline Gacon il 02/10/2020.

Bibliografia
A. A., Cosa significa LGBTQI, Il Post, 20/12/2019.
Metayer L., I’m from nowhere good – Maison Pop Montreuil, Slash, 27/02/2020.
Moolhuijsen N., Identità di genere e sessualità nei luoghi di cultura, Artribune, 01/12/2018.
Moolhuijsen N., Musei e attivismo. Un viaggio nei Paesi Bassi, Artribune, 06/11/2019.

Sitografia
maison pop
thomas conchou  

Interviste
Interview de Thomas Conchou in data 17/01/2020 in maison pop
Intervista personale a Pauline Gacon in data 02/10/2020

Giulia Guaran borsista Predoc presso l’Università di Colonia (Germania) con progetto di indagine sulla generazione post-internet di artiste donne di colore. Laureata magistrale in Arti Visive presso Alma Mater Studiorum Università di Bologna, con una tesi in arte contemporanea nel 2019. Ha maturato un’esperienza Erasmus in Spagna, un titolo congiunto in Beni Culturali presso l’Université Blaise Pascal di Clermont-Ferrand in Francia e due periodi di tirocinio presso Otto Gallery (Bologna) e Museo di arte moderna e contemporanea Casa Cavazzini (Udine). Due pubblicazioni per la rivista online di arte DArteMA, una per il magazine online Roots§Routes, una per Lynx Contemporary Magazine e una per Verein Kunstentropie Uterus Effects magazine.