Ci viene chiesto dai giovani, tanto più spesso e tanto più insistentemente, quanto più quel tempo si allontana, chi erano, di che stoffa erano fatti, i nostri «aguzzini». Il termine allude ai nostri ex custodi, alle SS,e a mio parere è improprio: fa pensare a individui distorti, nati male, sadici, affetti da un vizio d’origine. Invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male.
(Levi, 1986)
Educazione e violenza hanno un legame quasi connaturato. Può sembrare provocatorio, ma il dato non è interpretativo, è meramente storico.
Quando Katharyna Rutschky pubblicò Pedagogia nera (Rutschky, 1977) non se ne accorse quasi nessuno, oggi è un testo di primaria importanza nella disamina del rapporto tra potere sovrano e potere disciplinare, tra educazione, psicopatologia e vita inerme, e pone una particolare attenzione sulla stretta relazione che intercorre tra la costruzione dell’homo aeconomicus e il trattamento del bambino. «La pedagogia nera è il tentativo tendenzioso di documentare le conseguenze e i fenomeni collaterali derivanti dall’attenzione cui sono stati esposti i bambini a partire dal XVIII secolo. Ho analizzato e selezionato soltanto testi conosciuti, stampati e accessibili, interni alla storia dell’educazione. Tuttavia, per rendere percepibili i conflitti rimossi e nascosti che contribuiscono a determinare questa storia, ho dovuto procedere senza scrupoli, in un certo senso contro le esplicite intenzioni degli autori». Così la pedagogista tedesca introduce le ragioni della sua opera.
La sua ricerca è costruita come un patchwork di citazioni, che Paolo Perticari, curatore dell’edizione italiana, paragona al lavoro incompiuto di Walter Benjamin sui Passages. Ogni capitolo è introdotto da un testo, che Rutchky suggerisce di leggere dopo aver letto le fonti. I titoli dei capitoli (ad esempio, “La distruzione del mondo attraverso l’insegnamento”, “Educazione come istituzione totale”) evocano un fantasma che è in realtà una presenza cogente della ricerca, ovvero il nazismo, la cui ascesa è strettamente connessa e qui ricostruita e predeterminata grazie alla reiterazione di pratiche educative ordinarie peculiari nelle case borghesi e per bene e che preparavano la “banalità del male”. Nell’entusiastica introduzione del prematuramente scomparso Perticari, nel 2015 il pedagogista italiano si interroga in un testo lungo ben 172 pagine, sulle ragioni del lungo disinteresse per questa imponente e necessaria ricerca, che ha dato nome a qualcosa che prima era non nominato, proprio perché «la pedagogia nera è il silenzio prima della deflagrazione del crimine mostruoso» (Perticari, 2015). Il godimento dell’adulto sovrano viene assolutizzato grazie al silenzio, anche della ricerca, su un tema che disturba troppi vissuti: «La pedagogia nera si fa, ma non si dice. Nessuno deve accorgersi della sua esistenza» (Perticari, 2015). Essa è alla base dell’abuso, anche sessuale, nei confronti dei minori in famiglia e ha sintomi che possono essere letti a breve e a lungo termine. Ma la pedagogia nera diventa anche pratica giustificata nei sistemi educativi, come ci dice già Levi nella sua ultima opera pubblicata in vita. Levi non aveva trovato le parole, Rutchky ci da anche le prove. Alice Miller ne codifica gli esiti nella sua importante trilogia (Miller, 1979, Miller 1980, Miller 1981): in particolare nel secondo volume si concentra sulla vita di tre esempi Adolf Hitler; il criminale degli anni Sessanta Jürgen Bartsch, assassino e seviziatore di bambini; Christiane F., autrice del libro Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, ma anche Sylvia Plath. Biografie che possono apparire totalmente lontane per anni, esperienza, contesto, ma che servono alla filosofa tedesca per dimostrare che l’educazione all’obbedienza cieca, la manipolazione del potere genitoriale, la negazione della violenza insita nel rapporto stesso di potere, l’addestramento alla catastrofe futura mediante le privazioni, i provvedimenti disciplinari presi “per il bene del bambino”, sono tutti elementi comuni che portano gli individui adulti alla coazione a ripetere violenta. Essa può essere verso gli altri o verso se stessi, ma alberga in una esperienza tipologica che possiamo chiamare di pedagogia nera.
La lettura di alcune pratiche e dell’implicito che è sotteso ci portano ad una riflessione che per forza di cose richiama alla mente la presenza tuttora attiva della pedagogia nera, una sorta di nervo scoperto del sistema educativo e del suo farsi.
Prendiamo ad esempio la riflessione che Rutschky snocciola nel capitolo 5 L’educazione come istituzione totale. Parte da Durkheim, che aveva paragonato l’insegnante al sacerdote, organo di una persona morale che lo trascende, ovvero la società. L’insegnante svolge quindi un’azione di controllo, è una sorta di Super-Io che spiega il carattere totalitario dell’educazione: se l’educatore ha il ruolo di sorvegliante e di controllore, le attività del bambino vanno stroncate o prescritte quando non sono conformi alle sue attese e al suo orizzonte valoriale. Tutto viene regolato: come salutare, come camminare, con quale postura scrivere. La scuola del resto cerca invariabilmente di espandere la sua influenza aldilà delle ore di lezione.
E la pedagogia bianca? Esiste ovviamente anch’essa e si è dispiegata, seppur con recinti forzati, a partire dall’inizio del ‘900, con una particolare eccellenza italiana, l’esperienza di Maria Montessori. Perché la scuola montessoriana, fondata e sperimentata in Italia a partire del 1907, sostenuta per un breve periodo persino dal fascismo, a cui interessava il lustro che portava all’Italia, rapporto che si interromperà definitivamente nel 1934, con l’esilio volontario di Montessori, e con la chiusura imposta alle scuole montessoriane italiane.
Pur essendo l’unica donna ad essere ritratta sulle lire italiane, il metodo non fu accolto, se non apparentemente, come una base di partenza per il rinnovato sistema scolastico repubblicano. Da una parte la sua difficile collocazione politica la rendeva indigesta alla pedagogia libertaria e di sinistra, dall’altra continuava e continua ad operare nel clima elefantiaco e conservatore del Ministero dell’Istruzione un’innata sfiducia nell’idea del bambino “mente assorbente”, della visione fortemente pacifista ed ecologista connaturata nelle pratiche montessoriane, l’idea che dalla libertà ne deriva l’autodisciplina.
C’è un’altra donna che, trapiantata dalla Svizzera in Italia e nello specifico a Rimini, ha messo in scacco una serie di automatismi che derivano da questo implicito culturale che collega obbedienza dovuta all’autorità, educazione familiare ed istituzionale abusante e coazione a ripetere il male, ed è Margherita Zoebeli. Dopo un’intensa attività nel sostegno del Soccorso operaio svizzero, che la portarono in Spagna durante la Guerra Civile, poi in Francia, quindi di ritorno in Svizzera, ma anche a sostenere in partigiani della Val d’Ossola, arrivò a Rimini nel dicembre del 1945, invitata dal sindaco Arturo Clari. Costruì un villaggio per l’infanzia, il CEIS, che prevedeva una scuola dell’infanzia, una casa per orfani e un centro socio-assistenziale. Influenzata da Adler, condusse la sua esperienza guidata dall’idea di “libertà responsabile”, un’idea che doveva condurre i ragazzi e le ragazze a creare le proprie regole di condotta. Niente attività frontale, insegnamento come sostegno all’autonomia e non istruzione, che impartisce direttive a cui obbedire. Insieme a lei, nella delegazione composta da due uomini e due donne, c’era anche Felice Schwartz, architetto, che lavorò alla realizzazione dei padiglioni e che curerà gli aspetti peculiare della suddivisione degli spazi, modulari e in continuità tra interno ed esterno. Questo luogo sarà sicuramente di ispirazione per Loris Malaguzzi che ricorderà: «L’impressione forte e immediata – cercando di mettere insieme le immagini, le parole, le parti, i materiali, le funzioni, le case di legno, la casa in muratura, il padiglione degli uffici e della direzione, la sala di ricevimento, gli alberi, le aiuole, i sentieri, le siepi, il perdersi e il ritrovarsi degli spazi, fu soprattutto il prendere coscienza di quanto il pensiero avesse lavorato prima di trasformarsi nella forma di un Villaggio e di un’impresa educativa» (Dubach et al., 2012).
Questa esperienza, nata per essere temporanea nella situazione emergenziale post bellica sulla linea gotica, costituirà forse il più importante nucleo di propagazione e attivazione di realtà ed esperienze concrete di pedagogia bianca in Italia, grazie anche ai numerosi convegni internazionali, al lavoro di rete e documentazione intrapreso, che non rinchiuderanno l’esperienza in un magico giardino, ma saranno occasione di crescita di un movimento che porterà altre esperienze significative e positive in Italia negli anni successivi.
Eppure. Sebbene quindi lo stivale sia stato un luogo di straordinaria sperimentazione e attivazione di pedagogia bianca, l’esperienza dell’ora di lezione continua ad essere un terreno di conflitto, non solo per chi la vive quotidianamente, ma anche nel dibattito pubblico, in cui l’elemento imperante è (per confermare l’ipotesi di Rutschky e Miller) l’esperienza individuale, magari castrante ma ritenuta fortificante, dell’opinionista di turno. Come se esperienza fattiva, osservazioni, ricerche non avessero mai avuto luogo.
L’invasione dell’ora di lezione nell’ora di vita è peraltro un dramma ben sperimentato dall’esperienza scolastica attuale. Per non parlare delle prescrizioni. A partire dalla scuola primaria l’emergenza dei compiti e il dibattito pubblico intorno ad esso mostrano una fragilità e un rimosso particolarmente interessante. Posto che non esiste nessun pedagogista italiano o europeo di fama che ne difende l’efficacia, essi però costituiscono un elemento conteggiabile e quindi esprimibile in termini di valore da parte delle famiglie. Ecco che quindi da una parte ogni tanto partono campagne anti compiti, dall’altra di fatto le scuole non esitano a quotare la propria rilevanza proprio in misura della quantità di lavoro domestico impartito, perché propongono un modello che impegna il bambino e lo addestra. “Come farà in futuro quando dovrà veramente studiare?”, una pietra angolare simile al principio delle punizioni corporali impartite nei decenni passati perché “Come farà poi nella vita a sopportare il dolore?”. Il tempo è quindi invaso dalla scuola e dai suoi esercizi: sarà interessante fare un’indagine quantitativa sulla formazione a distanza attivata nel periodo del Corona virus, per scoprire che l’80% di quanto indicato sui registri elettronici è costituito da compiti.
Ma osserviamo anche forme comportamentali più banali: nella mia esperienza di formatrice ho avuto l’opportunità di fare un’osservazione nelle scuole montessoriane di Roma di viale Libia e della Casa dei bimbi di San Lorenzo a Roma, la prima fondata da Maria Montessori nel lontano 1907. «Era la fine del 1906. Tornavo da Milano […]. Fui invitata dal direttore generale dell’Istituto dei Beni Stabili di Roma ad assumere l’organizzazione di scuole infantili da crearsi nelle case popolari. La magnifica idea era di riformare un quartiere pieno di rifugiati e di misera gente, come quello di San Lorenzo a Roma. V’erano operai disoccupati, mendicanti, prostitute, condannati appena usciti dal carcere, i quali tutti avevano cercato rifugio tra le pareti di case rimaste incompiute a causa della crisi economica, che aveva interrotto ogni costruzione in tutto il quartiere. Il progetto, ideato dall’ingegnere Talamo, si proponeva di comperare tutte quelle mura, quegli scheletri di case e completarli man mano, rendendoli abitazioni stabili per il popolo. Questo piano fu accoppiato con la idea veramente mirabile di raccogliere tutti i bambini al di sotto dell’età scolastica (dai tre ai sei anni) in una specie di scuola della casa. [… ] Frattanto la prima scuola si doveva aprire nel gennaio del 1907, in una grande casa popolare del quartiere di San Lorenzo. Questo tipo speciale di scuola fu battezzato con l’incantevole nome di “ Casa dei Bambini”. La prima di esse fu aperta, con questo nome, il 6 gennaio 1907, in via dei Marsi, 53, e a me fu affidata la responsabilità della direzione. […] Il 6 gennaio in Italia è la festa dei bambini, corrispondente all’Epifania del calendario cattolico. È proprio come il giorno di Natale, e i bambini ricevono doni e giocattoli. Il 6 gennaio, dunque si raccolse il primo gruppo di piccoli, più di cinquanta» scriveva Montessori (2009) e viene riportato oggi sul sito di questa scuola pubblica. Una cosa che mi colpì molto fu che i bambini uscivano in silenzio dall’aula e tornavano sempre tranquilli in classe senza chiedere il permesso a nessuno. Quando chiesi spiegazioni a Daniela Dabbene, un’insegnante della scuola primaria e formatrice montessoriana che mi accompagnava, mi spiego con naturalezza che nessun bambino doveva chiedere il permesso di uscire per andare in bagno o per sgranchirsi le gambe «perché nessuno deve rendere conto delle proprie urgenze corporali, loro capiscono naturalmente che quello che succede in classe è importante e significativo, per cui si evita così anche di disturbare il gruppo che sta lavorando in quel momento». Mi sembrò una sorta di epifania verso una delle regole più comuni e attuate nelle scuole di ogni ordine e grado, l’obbligo di chiedere il permesso per andare in bagno…
Questa banale, ma comunque sostanziale, constatazione mi ha disvelato una serie di automatismi del “regolismo” che mette continuamente in scacco il senso di responsabilità individuale e di riconoscimento del sé e dell’altro che viene giornalmente attuata nelle istituzioni scolastiche. Certo, non stiamo parlando di abuso, ma di una interiorizzazione dell’autorità che incombe e decide anche i tempi dei tuoi bisogni primari e che va comunque soddisfatta.
Il complesso rapporto, quasi inestricabile, tra educazione e violenza è al centro di un lavoro che avevo presentato alcuni anni fa in un progetto espositivo ad Ancona alla Mole (Stamboulis, 2012) di Adelita Husni Bey dal significativo titolo A Holiday from rules, e che indagava le pratiche e le teorie del pedagogista libertario Francisco Ferrer Y Guàrdia, fondatore dell’Escuela moderna, fucilato a Barcellona nel 1909 durante la settimana tragica. Composto da due istallazioni I want the sun I want e Postcards from a desert Island, mostrano gli esiti dell’artista nell’indagine sulle effettive possibilità di un sistema educativo diverso, attraverso l’osservazione nel Liceo autogestito di Parigi e dell’Ecole Vitruve di Parigi. Credo che la ricerca artistica che si muove con rigore nello spazio delle micro utopie sia più che necessaria in questi tempi in cui il consenso si conserva sulla base di automatismi che si basano sulla pedagogia nera e le sue vischiose abitudini. Perché come diceva spesso Zoebeli, «l’educazione è una parola delicata, che si ammala facilmente» (Perticari, 2015).
Bibliografia
Dubach E., Forlani F., Maioli M., Pasini R., Lo spazio che educa. Il centro educativo Italo Svizzero di Rimini, Marsilio, Venezia 2012.
Ferrer Guardia F., La scuola moderna. Verso un’educazione senza voti né esami, a cura di Levi P., I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986.
Montessori M., Educazione e pace, Opera nazionale Montessori, Roma 2004.
Montessori M., La scoperta del bambino, Garzanti, Milano 2009.
Miller A., Das drama des begabten Kindes und die Suche nach wahren Selbst. Eine Um-und Fortschreibung, Frankfurt am Main 1979. (ed. it. Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé, Bollati Boringhieri, Torino 1996).
Miller A., Am Anfang war Erziehung, Frankfurt am Main 1980. (ed. it. La persecuzione del bambino. Le radici della violenza, Bollati Boringhieri, Torino 1987)
Miller A., Du sollst nicht merken Variationen über das éaradies-Thema, Frankfurt am Main, 1980. (ed. it. Il bambino inascoltato. Realtà infantile e dogma psicoanalitico, Bollati Boringhieri, Torino 1989).
Perticari, P., Introduzione alla pedagogia nera, in: Rutschky 2015.Rutschky K. (hrsg.), Schwarze Pädagogik. Quellen zur Naturgeschichte der bürgerlichen Erziehung, Ullstein 1977 (ed. it. Pedagogia nera. Fonti storiche dell’educazione civile, tr. Stefano Franchini, Mimesis edizioni, Fano 2015).
Saccoccio A., Avanguardia 21, Roma 2014.
Stamboulis E., (a cura di), Arrivi e partenze_Mediterraneo, Giuda edizioni, Ravenna 2012.
Sitografia
L’insegnamento di Margherita Zoebeli. LINK QUI
Centro educativo Italo-Svizzero. LINK QUI
CEIS. LINK QUI con bibliografia completa sull’esperienza.
Elettra Stamboulis è una curatrice, scrittrice e dirigente scolastica. Ha curato numerose mostre di arte contemporanea, in particolare di giovani artisti, la più recente al Museo di Santa Giulia a Brescia “Avremo anche giorni migliori. Zehra Doğan” nel novembre 2019. ha fatto parte del collettivo InguineMAH!gazine e G.I.U.D.A e ha diretto il festival internazionale del fumetto di realtà Komikazen. Ha scritto le Graphic Novel L’ammaestratore di Istanbul (Comma 22, 2008), Officina del macello (Edizioni del Vento, 2008 rist. Eris Edizioni 2014), Cena con Gramsci (Becco giallo 2012), Arrivederci Berlinguer (Becco giallo, 2013), Pertini tra le nuvole (Becco Giallo, 2014), Diario segreto di Pasolini (Becco giallo, 2015) tutti disegnati da Gianluca Costantini. Ha inoltre pubblicato la Graphic Novel Piccola Gerusalemme, disegnata da Angelo Mennillo in Grecia (Jemma Press, 2016), Turchia (Istos Publishing House, 2017), Francia (Rackham 2018), Italia (Mesogea 2019). Vive a Ravenna.