“La buona scuola si fa fuori da scuola. Almeno fuori dal luogo fisico”.
Da questa considerazione, che non è né nuova né particolarmente originale, è nata la voglia, che trovo incredibilmente viva nelle scuole d’arte dei nostri territori, di uscire e sperimentare sul campo il mestiere dell’arte.
Così sono nati i progetti che nel corso dell’ultimo anno, insieme a una mia classe, mi hanno portato a guidare delle sperimentazioni e intraprendere sfide che fino all’ultimo sembravano molto difficili, se non impossibili da portare a termine.
La classe in questione era una quarta del Liceo Artistico Manzù di Bergamo (oggi diventata quinta). Vista dell’esterno una classe come tante, che come tante ha sinergie e rivalità, momenti di condivisione e inimicizie ben radicate sottopelle.
A differenza di altre è una classe particolarmente aperta al dialogo, di quelle che ad un sasso lanciato nello stagno risponde tutta, con mille voci e mille domande.
Parco Nochetto, Bolgare Intervento a cura della Classe 4F del LAS Manzù di Bergamo. Photo credits: Stefano Scandella
I progetti portati a termine sono stati vere e proprie incursioni all’interno delle pratiche storiche e artistiche nel territorio, per arrivare ad un’apertura pubblica che “stesse in piedi”.
Il primo, è stato un confronto con i linguaggi della Land Art per prendere possesso di un grande parco nella provincia bergamasca e misurarsi con un luogo reale, con il site specific.
Il secondo, un intervento ancora più ambizioso: un’incursione nella storia dei monumenti oggi, per provare ad immaginarne un futuro.
Una classe ideale quindi, con cui condividere e sperimentare, dentro e fuori dall’edificio/scuola l’esercizio della partecipazione.
Ma come si crea un progetto con più di venti personalità diverse?
Nei due anni passati insieme, l’educazione civica (intesa come materia scolastica), quel contenitore che ogni docente a settembre si chiede come diavolo riempire, è stata una miccia per accendere un dialogo costante e a volte esplosivo.
Parlare di ciò che ha caratterizzato gli ultimi anni, dalle proteste di Black Lives Matter ai moti ambientalisti di Ultima Generazione.
Raccontare le migrazioni dei padri di questa generazione di studenti, che della nave Vlora spesso non hanno mai sentito parlare. Rileggere la preghiera punk delle Pussy Riot che forse solo oggi viene capita da tutti, dopo più di dieci anni.
Tutto ciò ha aperto un ponte verso i simboli del passato, interrogandoci su come questi andassero ridefiniti.
La base teorica c’era, e anche le persone con cui lavorare, ma rimaneva un problema da risolvere, quella falsa democrazia del “tutti devono avere un posto sempre e comunque”.
La scuola, soprattutto quella superiore, per come la penso, non è luogo dove fare classifiche o graduatorie ed escludere a priori; ma è necessario far affiorare le proposte che hanno più valore.
Se vi è mai capitato di assistere ad un saggio teatrale, di quelli che tutte le scuole delle nostre province organizzano ogni anno, avrete notato che tutti hanno una parte, chi più piccola chi più grande ma nessuno può essere escluso.
Questo, che rende il teatro/scuola una bella esperienza di formazione, non si pone però obiettivi altri, non vuole competere fuori dall’ambiente scolastico.
Nella mia idea c’era e persiste invece la volontà che i progetti debbano aprirsi alla città e ai territori. Essere visti e giudicati da chi non è “di parte”.
Se ora sto scrivendo questo articolo è perché i due progetti hanno avuto una visibilità ampia che ha travalicato i confini di classe e i Consigli di Classe, i gruppi di amici, le assemblee dei genitori e hanno innescato una serie di possibilità future ancora da attuare.
Il primo intervento ha avuto una gestazione più lineare ma è stato una palestra fondamentale per capire che un progetto non è solo un disegno ben fatto su un foglio.
La richiesta era semplice: portare alcune opere all’interno di un grande parco pubblico. I disegni su carta erano già pronti, andavano solo selezionati e proposti alla committenza.
Con la classe ne sono emersi cinque che, con le nostre forze e qualche aiuto avremmo potuto realizzare in tempi brevi; la committenza ne ha scelti due.
Il primo è nato da un progetto di Arianna P. poi diventato collettivo, perché servivano due volti in prestito e un po’ di manodopera per realizzare i dieci calchi in cemento bianco e grigio che dessero un’anima agli alberi nel parco.
Il secondo, disegnato da Nadia Q. come un tunnel verso una stanza buia, è poi stato fortemente rielaborato e trasformato in una lunga cortina azzurra, che per oltre cento metri ha avvolto e accarezzato un filare di alberi. Una barriera che creava un ostacolo visivo ma restituiva, attraverso il suo colore cangiante, i riflessi del cielo.
Da questa prima esperienza la classe è uscita con pareri estetici discordanti ma la consapevolezza di aver, forse per la prima volta, concretizzato un progetto.
Da qui è partita la costruzione del secondo e più complesso intervento, perché se lavorare in un territorio neutro come un parco, lascia ampia libertà, come sapevano bene gli artisti della Land Art, ai quali gli studenti hanno guardato, riportare il discorso tra le vie di una città di provincia innescava invece ragionamenti e confronti più complessi.
L’idea di lavorare sui monumenti che riempiono le nostre città è stata da un lato, come già detto, conseguenza degli approfondimenti dell’Educazione Civica, dall’altro un esercizio diametralmente opposto al precedente.
Agli ampi spazi all’Arte ambientale contrapporre un plinto, un basamento che rappresenta un limite forte ma anche un potenziale. Una ‘soglia’ tra lo spazio che occupa il monumento e il suo significato, come ha scritto la critica Rosalind Krauss.
Il primo elemento di interesse proposto alla classe è stato l’inizio del film Luci della Città, pellicola del 1931 di Charlie Chaplin, che in poco meno di dieci minuti affonda l’aura del monumento irridendo aspettative e significati.
La proposta, in questo caso, è stata quella di lavorare su modelli in scala, pensandoli in dialogo tra loro in un’esposizione comune.
Ai 23 plinti della mia classe si sono aggiunti i lavori grafici di un altro gruppo di studenti che con un approccio simile ha immaginato monumenti o rielaborato statue presenti nelle piazze della città.
L’idea di tramandare la memoria ai posteri, propria del monumento è stata un punto centrale dello sviluppo progettuale che qualcuno ha seguito e qualcun altro rielaborato in modo personale. Per questo sui plinti svettano, cibi e animali dorati, parti anatomiche, strumenti di misurazione e simboli di ogni tipo. Il plinto è diventato a volte sostegno a volte contenitore altre ancora passerella o piattaforma da far vivere.
Scavando in ognuna delle idee che sono emerse possiamo trovare lavori che partono da fatti storici e li celebrano o li criticano, lavori più introspettivi sui nostri o i loro corpi adolescenti e infine lavori installativi che in qualche modo chiedono di essere attuati dal pubblico.
Entrare in ogni idea richiederebbe un approfondimento molto più dettagliato, ma ciò che da questo percorso è scaturito, certamente è un potenziale di analisi e risignificazione dei monumenti che gli studenti hanno interpretato in modo originale e efficace. Portando con sé la consapevolezza che ogni statua, presente nelle nostre strade, ha una storia che non può essere sintetizzata con uno slogan a favore o contro ma deve far nascere una ricerca di senso.
Cosicché l’ennesima statua risorgimentale nella quale ci imbatteremo non sarà semplicemente ignorata ma magari ripensata.
E Charlie Chaplin ringrazia.
Vera Cirelli – Evoluzione (dente del giudizio). Photo credits: Anna Arzuffi
Melissa Vezzoli – L’oceano. La terra. L’uomo. Photo credits: Anna Arzuffi
Nadia Quistini – Senza Titolo. Photo credits: Anna Arzuffi
Crystel J. Romo Cazar – Senza Titolo. Photo credits: Anna Arzuffi
Michele Calabresu – 25 Aprile 1945. Photo credits: Anna Arzuffi
Martina Grassi – Senza Titolo. Photo credits: Anna Arzuffi
Un grazie di cuore a: Giorgio, Emma, Michele, Carlo, Elena, Martina C., Vera, Federico, Marta, Martina G., Giulia, Marilena, Giada, Francesca, Nicole, Anastasiia, Martina P., Nadia, Crystel, Mattia, Ludovica, Melissa e Martina V. e al Prof Giovanni Bonaldi.
Stefano Scandella, nato a Bergamo nel 1984, ha studiato Scultura all’Accademia di Belle Arti di Brera, diplomandosi nella classe della Prof.ssa Francesca Alfano Miglietti Performer e artista, ha collaborato fino al 2013 con il collettivo Temporary Black Space, intraprendendo poi le attività di graphic design e insegnante. Dal 2016 è titolare della cattedra di Discipline Plastiche al Liceo Artistico Manzù dove, segue e promuove gli eventi espositivi dell’istituto.