Sensory Hiatus
Irrisolto: partiture per corpi liberi
di Aaron Inker e Annalisa Zegna

Irrisolto: partiture per corpi liberi, collage su carta, 2018.

indossare i tappi
sintonizzarsi con i battiti del cuore
ascoltare la pancia
sentire il corpo

Irrisolto: partiture per corpi liberi consiste in un progetto collaborativo basato sull’esecuzione di azioni performative a partire da un corpus di partiture visive realizzate attraverso la tecnica del collage. Irrisolto propone allo spettatore – che diventa anche interprete e performer – di fare un’esperienza percettiva inedita, basandosi sul ritmo del proprio corpo ed eseguendo una performance che possa in qualche modo stabilire nuove connessioni con se stessi e con l’ambiente che si abita. Le regole di base sono semplici: indossare dei tappi per le orecchie per sentire meno “fuori” e più “dentro”, essere in sintonia con il proprio corpo focalizzandosi sul battito cardiaco e sul respiro come riferimenti ritmici, creare liberamente una performance che risponda alle istruzioni emozionali e compositive presenti nella notazione visiva.

Il progetto ha avuto inizio nel 2016 a partire dallo studio e dalle suggestioni delle partiture “visive”, notazioni grafiche sperimentali dei maestri della Musica concreta e della Poesia Sonora e Visiva, incontrate grazie ad un periodo di ricerca effettuato nell’archivio e nella ricca collezione della Fondazione Bonotto1 (Molvena, Italia). La prima fase del progetto si è concretizzata in un intervento inserito all’interno della pubblicazione ROLL UP, un libro d’artista a cura di Rachele D’Osualdo e Patrizio Peterlini, realizzato grazie alla collaborazione tra la Fondazione Bonotto e l’Istituzione Fondazione Bevilacqua La Masa (edizione limitata, 35 copie, 2016).

Irrisolto: partiture per corpi liberi, collage su carta, 2016. Presente all’interno di Roll Up, libro d’artista in collaborazione con Fondazione Bonotto e l’Istituzione Fondazione Bevilacqua La Masa (edizione limitata, 35 copie, 2016).

Sulle notazioni

Nella comune pratica musicale la partitura (termine che deriva da partire, nel significato di «dividere in parti, distribuire le parti») è un’organizzazione grafica di più righi musicali da eseguirsi contemporaneamente, usata da compositori e direttori d’orchestra per poter controllare il flusso dell’opera durante il suo svolgimento, avendo a disposizione in un singolo sguardo tutte le parti che lo compongono. La si usa in tutti quei casi, dall’orchestra alla musica elettronica, in cui una polifonia complessa necessita di una notazione scritta.

A partire dal Secondo Dopoguerra, la musica sperimentale ha trovato nella partitura e nella sua scrittura “non convenzionale” uno strumento di supporto e di ricerca per l’esplorazione espressiva. Diversi artisti internazionali hanno indagato le potenzialità linguistiche ed espressive della partitura, trasformandola in un insieme di istruzioni verbo-visuali che non si basano sull’utilizzo del pentagramma della notazione musicale tradizionale ma si sviluppano a partire da regole aperte all’interpretazione e alla specificità di ogni diversa esecuzione. Tali sperimentazioni derivano dalla necessità, per questi autori, di allargare il campo sonoro all’altro inteso come sinestesia, intermedialità. Alla stessa maniera delle avanguardie dadaista e surrealista – Duchamp, Man Ray, Richter tra i più conosciuti – che cercavano con la cinematografia di andare oltre il campo visivo, così alcuni compositori tentarono di trovare un campo visivo oltre al suono.
Nel 1910, Alexander Scriabin scrisse Prométhée, Le Poème du Feu (Prometeo, il Poema del fuoco), un’opera sinfonica basata sulla sinestesia tra suono e colore dove lo spartito includeva una speciale partitura per colori da eseguire tramite uno strumento chiamato “clavier à lumières”, una tastiera per luci. Il futurista Luigi Russolo, scrittore del manifesto L’Arte dei rumori del 1913, sperimentò ampiamente le sonorità prodotte dagli “intonarumori”, apparecchi meccanici in grado di generare suoni disarmonici, e ne dedusse che le partiture che dovevano descriverne le composizioni non potevano che essere rappresentazioni degli effetti prodotti da tali oggetti sonori. È una questione tecnica quindi, quella che porta alle prime esperienze di partitura non convenzionale. Il tentativo di allargare il campo a nuove forme espressive e a nuovi materiali sonori rende necessaria l’aggiunta di nuovi simboli e sistemi di integrazione della notazione consueta, come evidenzia Edgard Varèse, una delle figure seminali nell’ambito della musica contemporanea del Novecento: «Poiché nuove frequenze e nuovi ritmi dovranno essere indicati sulla partitura, la notazione attuale si rivelerà inadeguata. La nuova notazione sarà probabilmente di tipo sismografico. Come nel Medio Evo, siamo di fronte ad un problema di identità; quello di trovare simboli grafici per trasporre le idee del compositore in suoni» (Sani, 2003).

La musica concreta (dal francese musique concrète)2, nata ufficialmente nel 1948 con il compositore francese Pierre Schaeffer, esplicita una tendenza ormai affermata in quel periodo: focalizzare la sperimentazione sugli apparati di registrazione e riproduzione musicale.

La possibilità di incidere su nastro dava l’opportunità di cogliere tutte le caratteristiche di un suono a partire dall’unicità delle condizioni ambientali in cui veniva registrato, ma anche la possibilità di “staccare” un suono dall’ambiente originario e di riprodurlo in un altro ambiente, manipolarlo e trasformarlo anche in base alle peculiarità del “diffusore”.

A partire dalla riflessione concettuale della musica concreta sul ruolo del diffusore, o riproduttore, il musicista stesso nel momento in cui esegue un’opera diventa tecnicamente un “diffusore”, non più solo esecutore, ma performer. Questo elemento performativo, che assume un coinvolgimento sempre più autonomo e di responsabilità all’interno delle sperimentazioni, richiede anch’esso un rinnovamento del sistema di notazioni. Non sono quindi soltanto i nuovi processi compositivi o i nuovi materiali sonori a imporre una diversa visione delle notazioni musicali, ma anche una forte spinta concettuale verso la performatività.

Questo passaggio porta dalla musica concreta – dove è centrale il ruolo del diffusore – all’happening – dove una serie di istruzioni informa le performance più svariate – mediante il lavoro di artisti come John Cage, che dagli anni ‘50 si dedicò alla sperimentazione e allo sviluppo della partitura come set istruttivo per ogni tipo di azione, da quella sonora nella prima fase a quella performativa in senso sempre più ampio con il procedere della carriera. Esempio emblematico è la serie Variations di Cage composta di 8 parti scritte tra il 1958 e il 1978 in cui ben si evidenzia questo processo. La serie inizia con due opere – Variations I e Variations II – «for any number of players, using any sound producing means»3 la cui partitura consiste in diversi fogli quadrati trasparenti, contenenti punti e linee a rappresentare suoni e valori musicali da combinare liberamente prima dell’esecuzione. Il dato importante è qui il passaggio da un’esecuzione fatta di strumenti musicali ad una molto più ampia di qualsiasi emettitore sonoro. Variations III apre ulteriormente ad ogni tipo di azione sonora «one or any number of people performing any actions» mediata da una partitura formata da un foglio bianco e 42 tondi neri da far cadere a caso sul foglio. Variations IV è considerato il punto di svolta della serie in cui Cage per la prima volta prepara la performance in termini spaziali e non musicali e apre ai performer la possibilità di fare altre azioni: «for any number of players, any sounds or combinations of sounds produced by any means, with or without other activities». Le successive variazioni esplorano differenti combinazioni di performer e diffusori sonori soprattutto in ambito elettronico fino ad arrivare all’atto definitivo di Variation VIII in cui la partitura è un semplice foglio, a tratti illeggibile, su cui spiccano le parole «no music no recordings» a testimoniare l’importanza ormai ricoperta dall’azione performativa.

La partitura diventa in queste opere un insieme di istruzioni che in un primo momento accompagna la notazione classica come nella famosa 4’33’’ dello stesso Cage in cui il musicista resta in silenzio, eseguendo uno spartito fondamentalmente vuoto, corredato però di un testo che esplicita il titolo dell’opera, la sua durata e alcune informazioni chiave per l’esecuzione. Sempre più spesso però, la partitura diviene autosufficiente e prescinde dallo spartito in favore di un suo sistema autonomo a volte grafico, come nel caso di Variations I (1958), Fontana Mix (1958) e Aria (1958) mentre in altri casi semplicemente formato da istruzioni verbali scritte, come nel caso di Variations VIII (1978) o come in Pendulum music (1968) di Steve Reich, dove la partitura scritta a mano dall’autore è una breve descrizione di come allestire lo spazio, quali strumenti utilizzare e quali azioni compiere per poter suonare il brano. In alcuni casi le partiture vengono considerate come opere d’arte indipendenti e non vincolate alla loro realizzazione performativa, come ad esempio in Treatise (1967) di Cornelius Cardew, un vero e proprio libro di 193 pagine di composizione grafica senza altra indicazione, o Artikulation (1958) di György Ligeti, una guida all’ascolto del brano realizzata per accompagnare il pubblico durante l’esecuzione4.

Le nuove partiture mettono in discussione la lettura tradizionale della composizione e invitano alla sperimentazione della performance in base all’ispirazione del momento e alla ricerca attorno alla sinestesia tra diverse pratiche in linea con la poetica Fluxus, movimento che raccoglie molte delle esperienze sopra citate di artisti, come Cage e Ligeti, e si fonda sull’ibridazione tra diverse forme di espressione.

Importante promotore delle ricerche intermediali è stato Dick Higgins, artista e compositore coinvolto nel movimento Fluxus, che nel 1965 scrive il saggio Intermedia, seguito poi dalla realizzazione visiva di diagrammi esplicativi (Intermedia Chart5). Al termine “Intermedia” si riconducono molte pratiche artistiche che si sviluppano a partire dagli anni Cinquanta e che sperimentano la fusione reciproca tra diverse discipline: «[Higgins’] revival of that term – originated by Samuel Taylor Coleridge in an 1812 essay – quickly filled a terminological void in the art world. Used to describe art that falls between media or between art and life, “intermedia” spread rapidly into use, since it could function as an umbrella term for much of the most interesting art of the period» (Aa. Vv., 2003). Come si legge nel saggio-manifesto di Higgins, questa tendenza non è casuale in quanto rompe la logica rinascimentale della divisione e categorizzazione delle arti, verso un’esperienza estetica totale, suggerita già dal ready-made di Duchamp, operazione che apriva uno spazio intermedio tra “art media” e “life media”.

Queste ricerche, che promuovono l’effimero e il riavvicinamento tra arte e vita, vedono il loro culmine nell’happening, evento artistico in cui lo spettatore è invitato a intervenire direttamente e attivamente nel processo creativo, in un contesto spazio-temporale specifico.

Altra esperienza fondamentale legata alla performance è quella di Merce Cunningham, uno dei maggiori coreografi della danza moderna e precursore della danza postmoderna. La ricerca di Cunningham si è focalizzata sul movimento nello spazio e nel tempo, introducendo nuove visioni nella relazione tra danza, musica, arte visiva e scenografia. Dal suo studio sono passati artisti e danzatori come Trisha Brown, Yvonne Rainer e Steve Paxton successivamente membri del collettivo Judson Dance Theatre (1962). Soprattutto nel lavoro di Trisha Brown emerge il tema dell’esplorazione del movimento e della sua rappresentazione, dell’inseparabilità tra la performance e il disegno, e del processo creativo a partire da una notazione (Eleey, 2008).

Irrisolto: partiture per corpi liberi, collage su carta, 2018.

Su Irrisolto

La ricerca sul corpo e sul suo utilizzo come mezzo di esplorazione della realtà è il tema alla base di Irrisolto, dove la notazione visiva diventa lo strumento da cui partire per ripensare le potenzialità conoscitive corporee. Le partiture di Irrisolto nascono sulla scia delle sperimentazioni visive utilizzando il collage come tecnica di assemblaggio a partire dal materiale cartaceo di riviste d’arte contemporanea. Sono partiture libere, senza indicazioni di lettura, con l’intenzione di fornire una guida quanto più possibile aperta all’interpretazione emotiva e psico-fisica del performer.

Le uniche istruzioni sono quelle dell’incipit: «indossare i tappi / sintonizzarsi con i battiti del cuore / ascoltare la pancia / sentire il corpo», il nucleo di Irrisolto. Tutto il lavoro ruota intorno al tentativo di trasportare chi partecipa, lo spettatore-performer, in uno spazio “altro” al di fuori delle regole convenzionali, dove la percezione si affida in maniera minore all’abitudine e assumono più importanza altre modalità di “sentire”: il corpo diventa lo strumento conoscitivo di quello spazio, e il suo movimento e la sua azione costituiscono l’atto generativo della realtà. Il risultato, qualunque sia la forma, è una sintesi tra percezione e intuizione cristallizzata in atto fisico. In questa mediazione avviene un passaggio tra lo sguardo che legge la partitura, la mente che la elabora aprendosi alla memoria e alla suggestione emotiva, e il corpo che la realizza seguendo una percezione inconsueta, una sensibilità nuova.

Le esecuzioni realizzate all’interno del contesto di Irrisolto assumono il valore di opere performative autonome, a patto di essere eseguite alla presenza di un pubblico che possa esserne testimone. Sono “irrisolte” in quanto l’obiettivo principale è di mettere in risonanza dei corpi che restano liberi di trovare la loro forma di espressione, corpi che sono in ascolto di ciò che ancora non conoscono.

Citando Cage, la partitura è come una macchina fotografica, «a camera from which anyone can take a photograph» (Woodstra, Brennan, Schrott, 2005) e rappresenta dunque un intrigante strumento di ricerca espressiva ed esperienziale.

1«La Collezione Bonotto nasce dalla frequentazione di Luigi Bonotto con artisti Fluxus e della Poesia Concreta, Visiva e Sonora che accoglie a partire dai primi anni Settanta a Molvena, nella sua azienda tessile e nella casa dove viveva. Qui gli artisti s’incontrano, progettano e realizzano opere che costituiscono il primo nucleo della Collezione. In oltre quarant’anni di attività, la Collezione è cresciuta custodendo ora oltre 15.000 documenti, sovente donati dagli artisti stessi. Un corpus unico per lo studio delle relazioni e le collaborazioni sviluppate nel corso degli anni tra gli artisti. La Collezione è collocata all’interno dei 10.000 metri della Bonotto Spa (uffici, linee produttive, magazzini) creando un forte legame concettuale e fisico tra arte e industria. La digitalizzazione di tutti i documenti, rendendoli liberamente consultabili online, l’ha trasformata in un punto di riferimento internazionale per studiosi e appassionati». Dal sito: www.fondazionebonotto.org/it/collection/
2 Dal Trattato degli oggetti musicali di Pierre Schaeffer: “Noi abbiamo chiamato la nostra musica concreta, poiché essa è costituita da elementi preesistenti, presi in prestito da un qualsiasi materiale sonoro, sia rumore o musica tradizionale. Questi elementi sono poi composti in modo sperimentale mediante una costruzione diretta che tende a realizzare una volontà di composizione senza l’aiuto, divenuto impossibile, di una notazione musicale tradizionale”. Schaeffer P., Traité des objets musicaux, Editions du Seuil, Parigi, 1966.
3 Per le opere di Cage: www.johncage.org/pp/john-cage-works.cfm
4 Esistono in realtà due partiture di Artikulation: una realizzata dall’autore stesso mentre componeva l’opera nel 1958, l’altra disegnata da Rainer Wehinger come guida all’ascolto nel 1970 e approvata dall’autore, diventata poi la versione di uso comune.
www.fondazionebonotto.org/en/collection/fluxus/higginsdick/983.html

Bibliografia

Aa.Vv., INTERMEDIA: The Dick Higgins Collection at UMBC, Albin O. Kuhn Library & Gallery, University of Maryland, Baltimore County, 2003.
Eleey P., If You Couldn’t See Me: The Drawings of Trisha Brown in «On Performativity, Living Collections Catalogue», Vol. 1, Walker Art Center, Minneapolis, 2014. Originariamente in: Eleey P., Trisha Brown: So That the Audience Does Not Know Whether I Have Stopped Dancing, Walker Art Center, Minneapolis, 2008.
Higgins D., Intermedia, in «Something Else Press Newsletter», Vol. 1, n.1, New York, 1966.
Nyman M., Experimental Music: Cage and Beyond, Cambridge University Press, 1999.
Sani N., L’immagine del suono: un percorso del Novecento, in «Musica/Realtà», n.71, Edizioni LIM, Lucca, 2003. Originariamente in: Varèse E., Écrits, ed. Christian Bourgois, Parigi 1983.
Schaeffer P., Traité des objets musicaux, Editions du Seuil, Parigi, 1966.
Woodstra C., Brennan G., Schrott A., All Music Guide to Classical Music, Backbeat Books, 2005.

www.fondazionebonotto.org/it/collection
www.johncage.org/pp/john-cage-works.cfm
www.monoskop.org/Monoskop

aaron inker (Biella, 1984) lavora con diversi media espressivi, principalmente video, audio e installazioni. Il medium è sempre scelto alla ricerca della migliore sintesi tra il concetto – l’idea cardine del lavoro – e il potenziale espressivo del medium stesso. Materiali, impatto sensoriale e aspetto visivo sono scelti per la loro corrispondenza con le idee di base, al fine di creare un unicum efficace con la capacità di mostrare la complessità del lavoro e stabilire connessioni con il pubblico. L’uso di questa varietà di mezzi, intesa come strumento per veicolare il valore intrinseco delle opere, offre un ampio spazio di sperimentazione e ricerca sui temi trattati, e consente al lavoro le migliori possibilità di coinvolgere il pubblico. Stimolare la discussione, generare pensiero, invitare le persone a riflettere, essere critici o curiosi, indagare e approfondire tematiche e riflessioni sulla realtà e il quotidiano, sulle cose che solitamente passano inosservate, sono lo scopo ultimo dell’intero complesso creativo.

www.inkerwarehouse.blogspot.com

Annalisa Zegna (Biella, 1990) lavora con diversi linguaggi visivi – immagini, oggetti e azioni – con particolare attenzione alle sperimentazioni collettive, collaborative e laboratoriali. Sviluppa la sua pratica artistica a partire dall’esperienza quotidiana, dai rapporti interpersonali, tenendo conto della specificità dei diversi contesti sociali e geografici, delle situazioni e dei luoghi che vive. Interroga la complessità attraverso interventi di varia natura, ricercando degli spazi di sospensione delle abitudini e dei significati che permettano di riorganizzare il pensiero e la consapevolezza. La sua ricerca si concentra sulla relazione tra l’immaginario umano – individuale e collettivo – e l’ambiente che lo influenza, dove i sistemi umani e non umani sono interconnessi e inseparabili.

www.annalisazegna.com