Andrea Aquilanti, Piazza del Popolo, 2009
Videoproiezione, acrilico e matita su tela, cm 120×160
Courtesy The Gallery Apart, Roma
Lo sguardo dello spettatore si imbatte in una tela di grandi dimensioni raffigurante la celebre Piazza del Popolo a Roma. Il punto di vista alto omaggia la piazza della sua eleganza e grandezza. La visione è accattivante nell’immediato, è mobile al soffermarsi dello sguardo. Lo spettatore dunque è costretto a scomporre la tradizionale iconografia delle vedute paesaggistiche alla ricerca della fonte del movimento. Come se l’invito da parte dell’artista fosse implicito (ormai da tradizione nei lavori di Aquilanti), lo spettatore attraversa lo spazio che lo separa dall’opera e con la sua stessa presenza fisica svela come un segreto alchemico il disegno della piazza sulla tela. Il suo corpo diventa temporaneamente supporto perché inserito nello spazio della proiezione.
Il linguaggio del disegno, nell’intera produzione di Andrea Aquilanti, supera la staticità dell’immagine e sconfina i suoi limiti fisici attraverso la perfetta sovrapposizione del video. Si avverte dunque un passaggio da uno stato contemplativo ad uno interattivo nel quale la funzione del video ridefinisce un nuovo concetto di spazio e di immagine attraverso un linguaggio estetico al limite tra il cinematografico e il fotografico. L’aspetto fotografico connesso alla presenza del movimento suggella la teoria, creandone un sostanziale scarto di prospettiva concettuale, di un’immagine fotografica che attraverso e nell’arte contemporanea realizza un’uscita da sé, contraddicendo definitivamente il suo stesso senso ovvero la sua essenza riproduttrice, “superando a sinistra il reale stesso facendosi realtà simultanea”.1
All’evoluzione nella modalità rappresentativa dei monumenti e contesti storici dovrebbe dunque corrispondere un’evoluzione nella percezione collettiva di essi. Piazza del Popolo di Andrea Aquilanti fa i conti con un immaginario in apparenza semplice, ma più in profondità scomodo: quello a cui è legato la città di Roma. Rome come dimensione urbana e turistica, proiezione romantica di un passato al quale siamo da secoli abituati, scansione di spazi stratificati scanditi dai grandiosi sistemi urbanistici imperiali e papali. Roma è storia, è indefinito centro storico che nonostante la sua apparente naturalezza, ha in sé una modalità inedita di offrirsi perché la progressione del tempo le ha conferito artificialità rispetto al progetto originario.
L’illusione vigente è quella di preservare questo passato che inesorabilmente, invece, fa i conti con le coordinate temporali. La cultura del monumento radicata in Italia trova una potente motivazione nel rispetto delle istanze proprie del bene alle quali è affidata l’identità stessa della città. Il monumento finisce con il rappresentare un totem da mantenere in vita, oggetto contemplativo da rispettare e da vivere come testimonianza autentica. Le tracce della storia sembrano avere una coerenza in sé conclusa, da guardare con l’ammirazione che si deve a qualcosa di sacro e di assoluto2. In un gioco di cause ed effettivi appare chiaro come alla cultura spetti il difficile di compito di interagire con il contesto storico per interrompere questa suggestione ad un’attitudine passiva. Piazza del Popolo di Andrea Aquilanti ci riesce perché infrange le vetrine protettive che circondano gli affetti culturali ai quali si è delegata la propria identità3. Attraverso una riproduzione fedele della piazza ottenuta con la ripresa a camera fissa, l’artista ci regala non solo una visione, ma l’insieme delle dinamiche spazio-temporali invisibili. Un’apparente staticità tradita dal dinamismo e dalla mutevolezza, da uno scorrere del tempo che rilegge in chiave contemporanea l’immaginario storico.
Come afferma l’antropologo Alberto Sobrero, nel capitolo dedicato a Benjamin: la città invisibile nel saggio Antropologia urbana “Un capitolo centrale di quello che avrebbe potuto essere il libro definitivo di Benjamin sull’idea di città avrebbe riguardato come progressivamente la realtà della città moderna si sottragga allo sguardo. […] Troppo piena di strada, di piazze, di case, di tempi, di spazi, troppo carica di persone e di situazioni lo sguardo non può seguirla, non può farsi curiosa di tutti i suoi aspetti, non può sperare di indagare più di tanto.”4 L’unico modo per conoscere una città è riprodurla ed è attraverso tale esposizione che è quindi possibile raggiungere l’anima della città. Con un’incisiva scelta espositiva l’artista ci regala una nuova lettura di una celebre piazza e una nuova anima della città attraverso la decostruzione del suo immaginario. Non a caso Andrea Aquilanti rappresenta lo scorcio storico attraverso un filtro dorato: lo spazio è stato concepito in origine come mostrazione e dimostrazione di grandezza e potere, l’oro diventa metafora di un lusso legato al concetto di bellezza eterna. Anche la scelta di Piazza del Popolo appare chiara: l’ultima grande realizzazione, tra le più scenografiche, della Roma papale. Chiusa da un’immensa porta e dominata dalle rampe che portano al Pincio, era stata concepita per impressionare il forestiero al suo ingresso in città annunciandone le meraviglie artistiche e il carattere sacro. I tre perfetti assi prospettici che dall’obelisco puntano il centro della città (via di Ripetta, del Corso, e del Babuino), rappresentano il tridente rinascimentale preso non a caso a modello dell’urbanistica barocca europea.
Nell’opera di Aquilanti lo spazio urbano contemporaneo subisce la fascinazione delle tracce moderne, ha assimilato quella cultura occidentale che ha posto lo spazio a fondamento di ogni evento fisico5 trasformandosi in un’affascinante contemporaneo labirinto. L’artista agisce nell’intoccabile immaginario della città eterna senza scalfire la materia dei suoi beni culturali e la storicità in essi racchiusa, ma accostandosi ad essi come testimonianza di un presente che rivendica la propria esistenza estetica e concettuale.
Vorrei che esistessero luoghi stabili,
immobili, intangibili, mai toccati o quasi intoccabili, immutabili, radicanti;
luoghi che sarebbero punti di riferimento e di partenza delle fonti.
(Georges Perec, Specie di Spazi, 1974)
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1 V. Gravano, Mappe addio! L’immagine è nomade, pubblicato in Gomorra. Territori e Culture della metropoli, n. 1, febbraio 1998, Costa&Nolan. Un interessante dissertazione sulla rappresentazione fotografica come superamento del rappresentato è costituito da un breve saggio dal titolo Mu o del vuoto di Viviana Gravano, pubblicato in Geografia dell’espressione. Città e paesaggi del terzo millennio, Mike Davis (a cura di), Mimes, 1977, Milano. Nel saggio, la fotografia è analizzata come luogo della complessità, chiave di lettura del mondo al di là della sua apparenza.
2 Alessandra Criconia, nel saggio Terrains Vagues (in Gomorra, Terriroti e Culture della metropoli, n. 1, febbraio 1998, Costa&Nolan) ci invita ad osservare una carta della città contemporanea al negativo invertendo cioè il rapporto pieno/vuoto. Nella configurazione delle mappe contemporanee assume un grandissimo ruolo la presenza di zone di interesse storico e artistico. Fatta eccezione per i parchi e le grandi aree verdi, una gran quantità di vuoti è invece dislocata in punti di discontinuità degli assetti urbani, laddove lo spazio non è funzionale alla storicità di un bene: zone infrastrutturali, spazi liminali di passaggio tra città/campagna, aree di scarto della città postindustriale.
3 Particolarmente interessante risulta il saggio Il restauro come valore della storica dell’arte Mariny Guttilla (Libreria Dante, Palermo, 2001) nel quale si evince come nei secoli, l’alternanza dei giudizi valutativi sulle opere d’arte abbia conseguentemente condizionato le scelte operative nel campo della tutela e del restauro. Il testo, con un approccio innovativo, ripercorre l’evoluzione delle teorie del restauro (dal primo teorizzatore del restauro italiano dalle prime teorie di Camillo Boito, al metodo analogico di Luca Beltrami, fino ad arrivare alla Carta del Restauro del 1972 ispirata alle teorie di Cesare Brandi). Già dal titolo, l’autrice sottolinea come in Italia il restauro costituisca un vero e proprio valore più che una semplice tecnica.
4 A. M. Sobrero, Antropologia della città, Carocci editore, Roma, 2007, pg.142.
5 Non è un caso che la prospettiva nata proprio in Italia sia stata definita metodo scientifico per la rappresentazione bidimensionale dello spazio tridimensionale e che abbia come fondamento teorico il rapporto tra le proporzioni del corpo umano, canone ideale di bellezza, e lo spazio da costruire. Sul rapporto uomo-spazio si consiglia la lettura del saggio I corpi, lo spazio e la città. Frammenti di un discorso geografico di Vincenzo Guarrisi in Geografia dell’espressione. Città e paesaggi del Terzo Millennio, a cura di Mike Davis, Mimes, Milano, 1997.
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Riferimenti bibliografici
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W. Cortese, I beni culturali e ambientali, Profili Normativi, Cedam, Padova 2002.
Alessandra Criconia, nel saggio Terrains Vagues (in Gomorra, Terriroti e Culture della metropoli, n. 1, febbraio 1998, Costa&Nolan).
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V. Gravano, Mappe addio! L’immagine è nomade, pubblicato in Gomorra. Territori e Culture della metropoli, n. 1, febbraio 1998, Costa&Nolan.
M. Guttilla, Il restauro come valore, Libreria Dante, Palermo 2001.
D. Maestosi, Innovazione o conservazione? il dibattito sul futuro della Capitale, Il Messaggero del 02.07.04.
G. Perec, Specie di Spazi, Bollati Boringhieri, 2009, Torino. Testo originale Espèces d’espaces, Editions Galilée, 1974, Paris.
A. M. Sobrero, Antropologia della città, Carocci editore, Roma 2007.
F. Speroni, La rovina in scena, Meltremi, Roma 2002.