INVISIBILE
In luogo dell’assenza. Uno spazio politico e affettivo: Plegaria Muda di Doris Salcedo
di Giulia Grechi

Doris Salcedo, Plegaria Muda 2008–‐2010.
Legno, material organic, metallo e erba /Wood, mineral compound, metal and grass
Dimensioni variabili /Variable dimensions. Fondação Calouste Gulbenkian, Lisbona, 2011
Fotografia Patrizia Tocci. Courtesy Alexander and Bonin, New York e Fondazione MAXXI, Roma

 

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“The worst silencing is that which makes itself invisible.”
(Mieke Bal, 2010)


Prima di entrare nella sala sono rimasta colpita da un avviso che invitava al silenzio. Si pregava i visitatori di attraversare in silenzio la stanza che il Maxxi aveva dedicato all’ultima installazione di Doris Salcedo, Plegaria Muda. Sono entrata chiedendomi il motivo di quella richiesta, e pensando che in effetti quell’avviso mi faceva sentire come se stessi entrando in un Tempio – un modo di pensare il museo da tempo criticato, legato a un’immagine falsamente neutrale del museo stesso e al suo essere un dispositivo autoritario di potere-sapere, di controllo sociale e di costruzione di una cultura egemonica (spesso ancorata alla centralità del discorso nazionale)1.
Entrando, la mia percezione è completamente cambiata. Nella sala un centinaio di tavoli di legno, di un marrone quasi grigio, accoppiati e sovrapposti, l’uno rovesciato con le zampe all’insù sull’altro, come tartarughe poggiate dorso su dorso; tra le due superfici una zolla di terra scura e odorosa; tra le fessure del legno, incredibilmente e ostinatamente, spuntavano dei fili d’erba verdissimi.
“Ogni unità consta approssimativamente della lunghezza e della larghezza standard di una bara”, così Doris Salcedo descrive Plegaria Muda, come il risultato di un lungo processo di ricerca e di riflessione, che ha attraversato diversi luoghi e diversi periodi (dai ghetti di Los Angeles alle aree depresse delle città colombiane alle aree conflittuali o alle guerre civili in altre zone del mondo), intorno a uno stesso tema: la cosiddetta “morte sociale” o “morte nella vita” che caratterizza coloro che, pur in condizioni differenti, vivono una simile situazione di violenza quotidiana e anonima, di morte invisibile, che alimenta a sua volta “una spirale inarrestabile di violenza emulativa e fratricida” (Salcedo, 2012), in un continuo e insensato scambio di ruoli tra vittima e omicida. In particolare, l’artista fa riferimento a un episodio della recente storia colombiana, quando (tra il 2003 e il 2009) circa 1500 giovani colombiani provenienti da zone depresse del Paese sono stati uccisi dall’esercito, apparentemente senza motivo. Di fronte agli incentivi promessi dal governo ai soldati che avessero ucciso un grande numero di guerriglieri, l’esercito ha iniziato a pagare questi giovani, promettendo loro un lavoro, per poi portarli in luoghi isolati e ucciderli, classificandoli come “guerriglieri non identificati: morti in combattimento con arma da fuoco”. Una morte insensata e anonima, della quale un gruppo di madri provano a farsi una ragione, cercando quantomeno di recuperare i corpi dei loro figli scomparsi, o di identificarli nelle fosse comuni indicate dagli assassini. Doris Salcedo ha seguito per diversi mesi questa ricerca, accompagnando le donne nel difficile percorso di elaborazione di un lutto incomprensibile, e questa installazione vuole essere un tentativo di affiancare questo percorso: “Plegaria Muda ci pone di fronte al dolore insondato e represso e alla morte violenta, quando essa si riduce alla totale mancanza di significato e fa parte di una realtà taciuta come una strategia di guerra” (ib).

Le coppie di tavoli sono disposte per tutta la lunghezza e la larghezza della sala, in modo apparentemente ordinato – o almeno così sembra a un primo sguardo. Un ordine che dà l’idea di uno spazio cimiteriale, “uno spazio delimitato dal confine radicale imposto dalla morte” (ib). Uno spazio “prestato”, affinché sia metafora delle morti anonime, private dell’identità e della sepoltura, della cura che è negata ai corpi dei morti (e ai vivi che li piangono) nelle fosse comuni. Per questo Doris Salcedo insiste sull’importanza di ogni singola “tomba”, in questa stanza, “per articolare una strategia estetica che ci consenta di riconoscere il valore di ogni vita perduta e l’irriducibile unicità di ogni sepoltura”. Una sorta di doppia contro-strategia, contro chi rifiuta di riconoscere i crimini collettivi spesso compiuti in nome dello Stato stesso, ma anche contro il rischio di perdere il senso dell’uccisione come atto individuale, il rischio di dimenticare i singoli nella molteplicità anonima di queste morti, il rischio di percepire la morte di questi soggetti marginali o marginalizzati come poco rilevante. Questa è la ragione della ripetizione ossessiva delle coppie di tavoli e dei tavoli rovesciati, come a dare un senso di schiacciamento e insieme di scoperchiamento, di qualcosa di volutamente non terminato, di un processo aperto e di un ordine disintegrato, un gesto infranto (una legge, un affetto), da restaurare.
Centinaia di tavoli che formano la sintassi di una “preghiera muta”, priva di parole, inudibile. Una sintassi solo apparentemente ordinata, che ad attraversarla sembra invece spezzarsi, esporsi alle vertigini, agli inciampi, ai singhiozzi di quando si cerca di raccontare qualcosa di irraccontabile; che chiede – quasi impone – di essere praticata. Solo attraversando la stanza ci si accorge che le coppie di tavoli sono in qualche modo “fuori luogo”, che costituiscono un ostacolo: non permettono un cammino lineare, ma costringono chi le attraversa a continui spostamenti, aggiustamenti di percorso, a tentare passaggi alternativi perché alcune vie sono troppo strette, altre sono impedite dall’accostamento tra i tavoli. Una disposizione labirintica, che forza il gesto dell’attraversante, lo spinge a non essere solo “osservatore”, ma a perdersi nel percorso, ad avvicinarsi anche molto ai tavoli, a sfiorarli perfino, soffermandosi sul particolare senza potersi sottrarre alla vertigine dell’insieme.

Allora diventa più chiaro il senso del silenzio richiesto, non solo perché è evidentemente una sorta di replica di quell’altro silenzio, che ha marchiato i contorni di una invisibilità violenta e insistente. Ci sono silenzi che non si annunciano, talmente silenziosi da non poter essere percepiti come tali. Che sfuggono al riconoscimento e dunque impediscono qualunque possibilità di azione o reazione. Questi sono i silenzi peggiori, quelli che si rendono invisibili, quelli violenti, affermati come legge, che tacciono del loro oggetto, che volutamente lo ignorano, che letteralmente lo mettono a tacere. Ma anche i silenzi rinunciatari, rassegnati, chiusi in se stessi o in un dolore troppo grande, che contemplano il loro oggetto come quando si pensa con una nostalgia priva di vitalità all’immagine di qualcosa che si è perso irrimediabilmente e per sempre. Questo invece è un silenzio che si fa spessore, materia densa e volatile, che occupa lo spazio, lo colma, e che si cura del suo oggetto. Silenzio come creazione di uno spazio da attraversare e di una temporalità in cui sostare. Silenzio non come vuoto o assenza o contemplazione, ma come presenza attiva, vigile. Silenzio come trama intricata e mobile, che connette molti silenzi in una inudibile conversazione, con l’unico scopo di farsi sentire – nel duplice senso di rendersi percepibile, e di trasformarsi riflessivamente in atto ricettivo, accogliente, materia sensibile, o meglio senziente.
Silenzio come attenzione: quella particolare forma di “preghiera naturale dell’anima” (Benjamin, 1955: 299), nella quale per Benjamin è possibile comprendere ogni creatura.

Doris Salcedo dunque non è interessata all’idea di museo come tempio, nel suo senso classico2. Qui non è in gioco il costruire una distanza che collochi l’oggetto in un altro spazio, una sfera separata (quella del sacro) che lo istituzionalizzi, monumentalizzandolo, accerchiandolo con un silenzio rarefatto, rendendolo intoccabile (Agamben, 2005). Qui, al contrario, c’è un recupero profano della carnalità che lega il soggetto all’oggetto sacro – la reliquia che deve essere accarezzata, baciata, in un corpo a corpo tra il vivo e il cadavere, o quel che ne resta –  che recupera una dimensione di ritualità corporea e condivisa, che lavora in qualche modo sull’idea di costruire una comunità di affetti nell’atto del ricordare (una comunità fortemente politica), perché “il dimenticato non è mai puramente individuale” (Benjamin, 1955: 296).
Plegaria Muda mi sembra così un impegno a (e una richiesta di) ri-membrare, rivivere la memoria nelle membra, attraversarla con tutto il corpo (se la memoria è sempre innanzitutto una memoria del corpo, una memoria incarnata), ricostruendola non in una sua impossibile integrità, ma attraverso le fratture e il suo essere stata letteralmente fatta in pezzi (smembrare).
Il silenzio è dunque la trama della durata, funzionale all’individuazione di una temporalità lenta, che porti all’elaborazione della sofferenza vuota e priva di senso legata a un lutto inspiegabile: “the point is that looking at the sculptures requires surrender not to a shape of grief but to its temporality” (Bal, 2010: 20). In questo slittamento temporale nella percezione affettiva di Plegaria Muda, nell’allargarsi del momento nella durata, risiede per Mieke Bal il potenziale politico di questa installazione. Il visitatore è prima spinto a rendersi vulnerabile, ad entrare empaticamente in contatto con il sentimento di pena e di dolore (grief) legato a queste morti prive di senso, aprendosi all’impatto affettivo dell’installazione; poi è esortato a trasformare quel sentimento in un affetto diverso, più attivo e politicamente produttivo, come può essere quella particolare forma di risentimento (grievance) che l’antropologo Renato Rosaldo descrive come la rabbia contenuta nel dolore della perdita (Rosaldo, 2001). In questo senso Plegaria Muda è una preghiera che non commemora, né ricorda, ma spinge all’azione, alla trasformazione del dolore e di ciò che può essere esperito attraverso i sensi in qualcosa di politicamente dirompente, in un affetto “socialmente esigente” – così Benjamin definisce il sentimento della vergogna (Benjamin, 1955: 294). Si tratta di riportare i sensi su un piano politico: “its aesthetic project is to transform both what can be experienced through the senses and that which politics has rendered insensible. This is what Rancière (2004) has termed a redistribution of the sensible: le partage du sensible” (Bal, 2010: 21).

“L’opera presuppone un processo di deterioramento. Mi è sempre piaciuto utilizzare il termine ‘creature’ per descrivere le mie sculture – l’ho imparato da Paul Celan. In quanto creature, tutti noi ci deterioriamo e andiamo in declino. Non costruisco monumenti in bronzo o in marmo ma produco opere che alludono a una dimensione estremamente privata, e che ci sfidano continuamente in virtù della loro fragilità. Tale fragilità è un aspetto essenziale delle mie sculture. Una persona è in grado di modificarle anche solo avvicinandosi troppo; esse ci rivelano quanto può essere fragile un altro essere umano. Mi riferisco alla fragilità di una carezza fugace.” (Doris Salcedo)

Eppure, qui il punto è che non ci sono corpi. Come in molte altre installazioni di Doris Salcedo, dove il corpo è sistematicamente assente, eppure è sempre pressante nel suo esserci, tutt’intorno, in altre forme, nella sua stessa assenza, nel reclamare riconoscimento e visibilità: qui è nell’odore della terra, nella temperatura della stanza, nell’ostacolo che impedisce un passo e un pensiero lineari, nelle sculture che si fanno materia organica, esposte alla loro stessa vulnerabilità. Si tratta in questo caso di una doppia vulnerabilità, dell’opera e dello spettatore (Carlos, 2012), entrambi esposti specularmente alle proprie fragilità. Le sculture stesse del resto sono dei corpi – delle “creature”, nelle parole dell’artista – che hanno bisogno di essere accuditi, perché possano restare integri nella loro funzione, e produrre una forma di vita. Mieke Bal nota come non sia possibile guardare quei fili d’erba, che nonostante tutto nascono dalle fessure delle travi di legno, senza pensare che sono presi in una profonda contraddizione: l’erba nasconde, fino a rendere invisibile, la fossa comune e l’atto di violenza che l’ha creata, peccando di omissione e di complicità, eppure è anche segno di una forma di ostinata vitalità, che resiste nonostante tutto e sopravvive (Bal, 2012).

La relazione di Plegaria Muda con lo spazio che la ospita è cruciale, così come per tutte le installazioni di Doris Salcedo. L’apparente geometria delle sculture contrasta con la fluidità dello spazio del Maxxi, la rigidità dei tavoli contro la morbidezza delle pareti curve, il grigio-marrone spento del legno contro la luce bianca, diffusa e indiretta, che avvolge la galleria più alta del museo: “penso allo spazio in termini di luogo, di un luogo per mangiare e un luogo per scrivere, un luogo per affrontare la vita. Non esiste la possibilità di isolare l’esperienza della vita dall’esperienza dello spazio: sono esattamente la stessa cosa. Alcuni tipi di opere contemporanee mettono in evidenza questo aspetto della scultura in quanto topografia della vita” (Princenthal, Basualdo, Huyssen, 2000).
Le installazioni di Doris Salcedo spiazzano letteralmente lo spazio museale, lo rendono profano, carnale, tattile, vitale. Uno spazio cavo, accogliente, materno, come nel caso del Maxxi per Plegaria Muda, una sorta di incubatrice di affetti molteplici e contraddittori, che lo trasformano in uno spazio politico. Uno spazio disturbato, ferito, pericoloso nel caso di Shibboleth3, il taglio lungo tutto il pavimento della Turbine Hall alla Tate Modern di Londra, che Doris Salcedo ha realizzato nel 2007, letteralmente aprendo una frattura profonda nel pavimento del museo. Un atto di violenza compiuto dall’artista stessa, per costruire uno spazio negativo, non pacificato, un’irruzione irrazionale nell’omogeneità dello spazio museale, rendendolo visibile nella sua vulnerabilità. Una rottura delle aspettative dei visitatori, per i quali non è possibile nessuna comprensione meramente intellettuale: Shibboleth (che più che una installazione è un intervento, quasi chirurgico, sulla pelle del museo) impone una percezione emozionale, che muova letteralmente il corpo. I visitatori hanno una relazione complessa con questa installazione, che modifica radicalmente la loro percezione dello spazio museale. Percorrono la frattura in tutta la sua lunghezza, come se sentissero il bisogno di seguirla, di suturarla o riempirla, o semplicemente di camminare sul bordo, di esporre se stessi al pericolo, alla paura, allo spiazzamento, alla vulnerabilità. La comprensione qui passa per l’e-mozione, il movimento del corpo nello spazio e nella temporalità allargata che l’installazione apre. L’azione dei corpi nello spazio lo trasforma in un luogo di riconoscimento, assolutamente politico, di quanto “the history of racism runs parallel to the history of modernity, and is its untold dark side”4. Ferire il pavimento della Turbine Hall alla Tate Modern non implica solo una rottura della monumentalità del luogo, ma l’emersione di quelle violente fratture sulle quali la modernità europea (con la complicità di dispositivi come il museo) ha costruito le proprie narrazioni, basate su relazioni di inclusione ed esclusione, su potenti amnesie e volontarie omissioni. Si tratta inoltre di connettere quel passato (legato al colonialismo, ma anche alla storia dell’arte, e al ruolo dei musei nella costruzione di quella modernità) al presente, alle ferite aperte della nostra contemporaneità, mettendole al centro del discorso estetico, etico e politico. Resta la cicatrice sul pavimento della Turbine Hall, una volta richiusa con il cemento la frattura per dare spazio alle installazioni di altri artisti, per continuare a ricordare e rendere visibili le fratture della storia: “history in its guise as willful amnesia and its aftermath – the history of the present in which history vanishes – leaves its scars only for those who care to see them” (Bal, 2010: 237).
Ferire il pavimento della Tate Modern dunque vuol dire ferire le fondamenta stesse della Modernità. Durante un intervento al Festival del Contemporaneo di Faenza nel 2010, Doris Salcedo, intervistata da Carlos Basualdo, faceva notare: “io presto attenzione alle fratture (“cracks”) che già esistono in un luogo, le seguo e le apro”. Qui dunque si tratta anche di rovesciare una prospettiva rispetto alla monumentalità delle architetture post-industriali, nelle quali “people like to look up”, una forma narcisistica che alimenta una sensazione di potenza. Lo scopo di Shibboleth è quello di rovesciare lo sguardo verso il basso, verso un abisso del quale non si riesce a percepire la fine, ma attraverso il quale è possibile far emergere e rendere percepibile quanto lo spazio possa giocare un ruolo fondamentale nella costruzione della coscienza.

“The space of Tate Modern emphatically belongs to modernism (…). Salcedo plays with this monumentality, taking it at its world – with the scar tissue of its divisions, histories, differences, and repressions. The negative space (…) remained open. One could enter and exit the hall at will. But once within visual reach, the earth tore open as if severed by an earthquake. There is no comfort, no consolation for the destruction of the ground on which we stand. This time, no escape into particularity is even remotely possible. The viewer is addressed directly, relentlessly, and violently. History is brought into the present with renewed forcefulness” (Bal, 2010: 238).

Nella già citata intervista di Basualdo a Doris Salcedo, l’artista sottolineava a proposito dei suoi lavori nello spazio come non le interessi costruire dei monumenti, ma dei memoriali, essendo il monumento tradizionale “the very failure of memory”:

“la cosa che colpisce di più dei monumenti è, paradossalmente, che non li si nota. Nulla al mondo è più invisibile di un monumento. Non c’è dubbio che siano stati costruiti per essere visti, persino per attrarre l’attenzione; eppure essi sono allo stesso tempo, per così dire, refrattari e l’attenzione vi scivola sopra come una goccia d’acqua su un indumento impermeabile, senza arrestarvisi un istante” (Robert Musil, 1936).

In questo senso un’installazione vicina all’idea del memoriale può attivare processi di memoria che comprendano in loro stessi anche le fratture, i conflitti di punti di vista non conformi sul passato, o sul modo di raccontarlo, soprattutto se il passato di cui si parla costituisce per una comunità un ricordo difficile da trattare. La qualità performativa delle installazioni di Doris Salcedo, anche di quelle più strettamente legate agli spazi museali, risiede precisamente nel muovere quella che Mieke Bal definisce la funzione memoriale dell’arte come strumento politico (Bal, 2010), che non intende consolare, ma provocare. Così si rende possibile recuperare una pratica dello spazio pubblico (compreso il Museo) che possa tradurlo in una immagine di affezione (“affection image”), o in quello che l’antropologo Michael Taussig definisce un “public dream-space”: un luogo che recuperi la forza affettiva delle strategie di memorializzazione veicolate dal monumento (nella sua forma positiva e non autoritaria di oggetto culturale), che può determinare la creazione di uno spazio autenticamente politico5.

“Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è presente solo in quello storico che è compenetrato dall’idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.”(Benjamin, 1997: 27)

Doris Salcedo affida alla sua Plegaria Muda il difficile compito di riattizzare la scintilla della speranza, nonostante – o proprio perché – il nemico non ha smesso di vincere. L’erba che cresce tra le travi di legno, o la cicatrice sul pavimento della Tate Modern, segnano precisamente la volontà di ricondurre nella sfera dell’umano esperienze traumatiche impossibili da elaborare singolarmente, attribuendo loro un valore affettivo e politico, e cercando di tenere aperta la ferita della memoria.

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This Article ensued from the Research Project MeLa – European museums in an age of migrations, funded within theEuropean Union’s Seventh Framework Programme (SSH-2010-5.2.2) under Grant Agreement n° 266757.

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Per un approfondimento sulla critica del museo come tempio si veda il saggio di Carol Duncan “Il museo: tempio o forum”, pubblicato nel volume Il nuovo museo, a cura di Cecilia Ribaldi, Il Saggiatore, 2005.
2 “L’impossibilità di usare ha il suo luogo topico nel Museo (…). Il Museo occupa esattamente lo spazio e la funzione che un tempo erano riservati al Tempio come luogo del sacrificio” (Agamben, 2005: 96).
3 “A ‘shibboleth’ is a custom, phrase or use of language that acts as a test of belonging to a particular social group or class. By definition, it is used to exclude those deemed unsuitable to join this group” (in http://www.tate.org.uk/whats-on/tate-modern/exhibition/unilever-series-doris-salcedo-shibboleth).
4 Doris Salcedo in http://www.tate.org.uk/whats-on/tate-modern/exhibition/unilever-series-doris-salcedo-shibboleth.
5 Ho recentemente affrontato la questione del monumento nell’opera di alcuni artisti contemporanei in un saggio di prossima pubblicazione: “Contro-monumento e anti-monumento. L’impazienza assoluta di un desiderio di memoria”, in Re-enacting the Past. Museography for Conflict Archaeology, a cura di V. Postiglione, LetteraVentidue Editore, Siracusa (volume in italiano e inglese, in uscita a novembre 2012).

 

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Riferimenti Bibliografici

Agamben, G. (1998) Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Torino: Bollati Boringhieri.
Agamben, G. (2005) Profanazioni, Roma: Nottetempo.
Bal, M. (2012) “In attesa del momento politico”, in Salcedo, D., Plegaria Muda, Roma: Electa.
Bal, M. (2010) Of What One Cannot Speak. Doris Salcedo’s Political Art, Chicago and London: The University of Chicago Press.
Benjamin, W. (1997) Sul concetto di storia, Torino: Einaudi (Ed. or. 1950, Uber den Begriff der Geschichte, «Neue Rundschau», rist. in Illuminationen. Ausgewablte Schriften 1, Frankfurt: Suhrkamp).
Benjamin, W. (1962) Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino: Einaudi (Ed. or. 1955, Scriften, Frankfurt: Suhrkamp Verlag).
Carlos, I. (2012), “Doppia vulnerabilità”, in Salcedo, D., Plegaria Muda, Roma: Electa.
Didi-Huberman, G. (2005) Immagini malgrado tutto, Milano: Raffaello Cortina. (Ed. or.  2003, Images malgré tout, Les Editions de Minuit, Paris)
Grechi, G. (2012) “Contro-monumento e anti-monumento. L’impazienza assoluta di un desiderio di memoria”, in Re-enacting the Past. Museography for Conflict Archaeology, a cura di V. Postiglione, Siracusa: LetteraVentidue Editore (volume in italiano e inglese, in uscita a novembre 2012).
Musil, R. (2004) Pagine postume pubblicate in vita, Torino: Einaudi (Ed. or. 1936).
Princenthal, N., Basualdo, C. and Huyssen, A. (a cura di) (2000), Doris Salcedo, Londra: Phaidon.
Ribaldi, C. (2005) Il nuovo museo, Milano: Il Saggiatore.
Rosaldo, R. (2001) Cultura e verità, Roma: Meltemi (Ed. or. 1989, Culture and Truth, Beacon Press, Boston).
Salcedo, D. (2012) Plegaria Muda, Roma: Electa.
Taussig, M. (1992) The Nervous System, New York: Routledge.
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