Questo contributo intende sovrapporre alla mobilità negata dello spazio politico quella inarrestabile dei suoni, proponendo l’idea di dub come territorio di transito dentro ed oltre i confini di un’Europa sempre più chiusa ed ostile. All’indomani degli attacchi di Parigi la sospensione degli accordi di Schengen e la conseguente chiusura dello spazio comunitario si annunciano quali possibilità concrete per un futuro non troppo distante; contemporaneamente, un gran numero di persone in fuga da scenari di guerra o semplicemente in cerca di migliori condizioni di vita continua a premere con rinnovata energia sui confini esterni dell’Europa, con esiti spesso deludenti ed a volte particolarmente drammatici. La sovrapposizione dei due scenari ci aiuta a visualizzare una sorta di immagine in negativo dell’Europa, ed a mettere a fuoco la doppia natura di uno spazio aperto che si fa allo stesso tempo blocco solido ed inviolabile in base alle circostanze ed alla posizione occupata dall’osservatore. Questo duplice meccanismo di inclusione/esclusione prende le forme di un confine più o meno visibile, tracciato a seconda della necessità all’esterno come all’interno dello spazio comunitario e declinato di volta in volta nella sua componente politica, giuridica o razziale. L’urgenza della necessità indotta dall’attuale crisi umanitaria si è recentemente manifestata nella dolorosa concretezza di nuovi muri eretti frettolosamente, come quello tra Ungheria e Serbia, che si aggiungono ad altri, pluridecennali, come la recinzione che delimita l’avamposto in terra d’Africa di Ceuta e Melilla, costruita nel 1999 e rinforzata l’anno successivo con fondi Europei. Anche all’interno dello stesso spazio comunitario il diritto alla mobilità è nei fatti già negato per molti, mediante una sorta di “piegatura” nel piano dello stato di diritto nella quale vengono occultati migranti irregolari e stranieri indesiderati; la pratica di antica memoria che Paul Gilroy (2004) ha definito come una istituzionalizzazione di deviazioni dalle regole legali e morali trova più di una declinazione nell’orizzonte allargato delle democrazie europee o che guardano all’Europa, con un’ampia varietà di definizioni che spaziano dai nostrani “Centri di Identificazione ed Espulsione” alle più fantasiose “Guest House for Foreigners” in Turchia1. Ad una geografia ufficiale fatta di confini più o meno visibili vogliamo pertanto opporre quella fluida e mutevole della dub diaspora2, la cui eco risuona oltre l’Atlantico Nero fino alle metropoli europee contemporanee, dilatandone i confini attraverso le pratiche di una radicale ricerca sonora; contro lo stato di immobilità imposta per mezzo del dispositivo legislativo intendiamo celebrare la mobilità gioiosamente riappropriata dai corpi che danzano in prossimità di un sound system o vibrano solitari in uno studio di missaggio insonorizzato. Ci rivolgiamo ai suoni partendo dal presupposto che in essi non ci può essere immobilità; il suono è la percezione di una oscillazione e dunque di un movimento, è vibrazione molecolare che si propaga attraverso lo spazio ed il tempo. Senza movimento, semplicemente non c’è suono. Tendiamo allora l’orecchio verso le macchine sonore attraverso cui la diaspora del dub dispiega le sue rotte, ed al modo in cui esse sono in grado di creare pieghe, aperture ed interruzioni nella continuità epistemologica della modernità occidentale, per restituirci una geografia riterritorializzata in cui le distinzioni tra interno ed esterno, centro e periferia, e gli stessi confini concettuali dell’Europa sembrano perdere consistenza. Prenderemo in esame il dub nella sua doppia accezione di genere musicale e processo formale, identificandone la cifra estetica nella creazione di uno spazio all’interno della composizione musicale, al fine di individuare una attitudine concettuale sottesa nelle tecniche di manipolazione del suono in grado di guidare e stimolare il pensiero critico; successivamente cercheremo di ripensare lo spazio dell’Europa lungo la dimensione offerta dai suoni, la cui vibrante e situata materialità si virtualizza nel confronto con la componente personale e culturale insita nel processo soggettivo dell’ascolto. Seguiremo il flusso sonoro della dub diaspora partendo dalla sponda orientale dell’Oceano Atlantico per approdare infine in una Europa “dubbata”, nella cui dimensione sonora trovano concretezza una serie di attraversamenti in grado di contestare attivamente la chiusura giuridicamente determinata dello spazio politico.
.
Cartoline sonore da un antico futuro. Giamaica, anni settanta3.
Lo studio di missaggio di King Tubby, al numero 18 di Drummilly Avenue, nel distretto di Waterhouse, Kingston, può essere assunto simbolicamente come punto di partenza della rivoluzione formale del dub. Nello spazio ristretto di una camera da letto riadattata a sala di regia, a cui verrà aggiunta in seguito una sala di ripresa per le voci ricavata nel bagno, vengono definiti e perfezionati durante il corso di un decennio i canoni di un genere musicale che reinventa l’idea del ‘fare musica’: al King Tubby’s Studio per la prima volta si fa musica in assenza di musicisti. Un utilizzo non convenzionale di una attrezzatura estremamente ridotta (un registratore a bobine TEAC, un mixer a quattro piste MCI, una unita’ di reverbero valvolare Fisher ed un delay a nastro) è ciò che consente di rielaborare un brano musicale preesistente in un numero potenzialmente infinito di versioni; ‘dub’ secondo alcuni viene da ‘double’, doppione o copia. Osbourne Ruddock, in arte King Tubby, eleva il banco di missaggio al rango di strumento musicale, anzi ne fa lo strumento principe perché in grado di contenere al suo interno tutti gli altri. Attraverso il banco di missaggio le parti melodiche e vocali vengono rimosse, ed il brano originale è ridotto alle sue componenti ritmiche essenziali; porzioni delle tracce scomparse riappaiono in maniera repentina e casuale sulla superficie della nuova composizione, irrimediabilmente alterate dall’uso di eco e riverbero. E’ una pratica sonora radicale che si fa logica: essa trova un modus operandi nella sottrazione ed una cifra formale nell’assenza. Il processo di riconfigurazione di un brano preesistente investe l’oggetto canzone nella sua dimensione più intima, la sottrazione di elementi apre uno spazio all’interno della composizione musicale che si fa taglio epistemologico; una narrazione in apparenza finita e coerente viene ri-orientata verso il rifiuto di ogni nozione di completezza, e si apre alla possibilità di essere abitata da parte di voci altre. L’impiego distintivo del riverbero interviene sulla dimensione spaziale dei suoni, evocando ambienti ben più vasti della piccola sala di regia; l’uso dell’eco coinvolge il senso della memoria alterando il meccanismo di produzione del ricordo tramite l’induzione di anamnesi e fonomnesi4. Il dub è pertanto dagli inizi la produzione sonora di una dimensione alterata, in grado di stimolare una interruzione critica nel continuum della modernità. Quella offerta dal suono è una quarta dimensione, che si fa linea di fuga da un piano cartesiano costretto tra gli assi del tempo e dello spazio. Al 18 di Drummilly Avenue lo stesso limite fisico delle mura sembra cedere alla forza del suono che disegna uno territorio di attraversamento; ciò che è all’esterno si materializza nello studio e vi lascia la propria impronta sonora. E’ il suono della downtown di Kingston che si può ascoltare in alcuni dubs, materializzato nei solchi degli acetati del King Tubby’s studio attraverso l’inserimento di effetti sonori quali sirene della polizia, spari o versi di animali; è l’Africa mitica evocata dal reggae di quegli anni che trova una concreta materialità nei suoni aspri e ruvidi di batterie equalizzate come mai prima d’ora. Allo stesso modo il King Tubby’s Studio agisce su un piano temporale che non e’ piu’ un vettore, ma piuttosto un campo di collisione. I nastri con le incisioni che qui vengono rimaneggiati provengono effettivamente da un altro tempo e da un altro spazio; registrati in altri studi della citta’, settimane o mesi prima. Sono tracce sonore di un passato più o meno recente che vengono riconfigurate ed incise in copia unica direttamente su dischi acetati, i celebri dubplates: brani non ancora in commercio, porzioni sonore strappate al futuro, pronte per diventare munizioni nella guerra sonica dei sound system. Lo studio di King Tubby, il primo dub studio, non va compreso nei termini di un edificio; esso e’ da intendersi piuttosto come un microcosmo in perpetuo movimento, vascello sulle rotte dell’Atlantico Nero o astronave in viaggio nello spazio sonico, vedetta di prua nell’esplorazione delle tante versioni di futuro possibile..
.
Città di suoni e spettri. Londra, anni ottanta5.
Immancabile nelle selezioni dei sound system locali, inciso e commercializzato in migliaia di copie su LP e singoli appositamente compilati per il mercato britannico durante tutti gli anni settanta, all’inizio del decennio successivo il dub repetinamente scompare, sostituito dalle più recenti tendenze provenienti dalla Giamaica, riadattate con successo da una nuova generazione di sound system. Nella Londra post-punk, alle prese con il Thatcherismo e la fine della modernità industriale così come era stata conosciuta, il dub è uno spettro che, scacciato dalle dancehall, si aggira inquieto nelle strade della capitale. Questa presenza evanescente porta con sé il segreto per la produzione di una pura fiction sonica, per la materializzazione di una dimensione alternativa che, al momento, resta ancora in cerca di un corpo sonoro attraverso cui manifestarsi. Adrian Sherwood viene posseduto da questo fantasma in giovane età. Lo spettro del dub ne influenza la modalità di produzione musicale, infesta il suo studio, trova dimora nel suo banco di missaggio. L’intenzione di evocare ed esplorare questa dimensione alternativa è espressa a chiare lettere nel nome stesso della sua prima etichetta discografica della fine degli anni settanta, la 4D Rhythms. Con essa pubblica i primissimi esperimenti, che lo vedono in veste di dubmaster lavorare su materiale registrato in Giamaica: sono ancora un altro tempo ed un altro spazio che giungono a complicare, problematizzare, riconfigurare il tempo e lo spazio della narrazione corrente. E’ tuttavia con la fondazione dell’etichetta On-U Sound nel 1980 che la musica prodotta e missata da Sherwood guadagna una dimensione più matura e personale. Il dub adesso non è più un genere musicale bensì un insieme di tecniche, un ethos formale, una attitudine concettuale giunta fino al vecchio cuore dell’impero da un altrove geografico e culturale. E’ una scienza occulta dei suoni che permette di utilizzare a piacimento significanti musicali e culturali eterogenei, secondo la migliore tradizione del bricolage culturale di ascendenza punk con cui Adrian si è formato; è la tecnica di missaggio che organizza in maniera coerente frammenti eterogenei ricavati dalla sovrapposizione di registrazioni analogiche, suoni di sintesi ed effetti digitali; è la logica sottostante un catalogo musicale eclettico che include reggae e rock, funk ed elettronica, puri suoni sommati e sovrapposti in un banco di missaggio che è ormai tutt’uno con il corpo dell’uomo ai controlli. Se ne troverà una ironica rappresentazione anni dopo nella copertina dell’album “Becoming a Cliche’”, dove il corpo del dubmaster appare sezionato e ricomposto dalle voci dei cantanti che partecipano al progetto. Lo stesso Sherwood è ormai un fantasma la cui presenza si ritrova in formazioni sempre nuove, molte delle quali non vedranno mai le luci di un palcoscenico, votate ad una esistenza interamente compresa tra lo studio di registrazione ed i solchi del vinile. Quello di Sherwood è ‘designer dub’, secondo la sua stessa definizione: è musica concepita e registrata per estendere e sondare le possibilità del dubbing, per ospitare la presenza di voci altre all’interno di uno spazio sonoro non più strappato ad una composizione precedente bensì creato ad arte, e che sembra riflettere la polifonia di una città dall’identità incontenibile, perseguitata dal fantasma di un passato coloniale mai risolto e capitale di una Europa costretta ad interrogarsi circa la propria identità. Il designer dub vira ormai verso una condizione di decisa schizofonia, in cui non è più possibile associare ad un suono la propria fonte originaria6; allo stesso modo, della molteplicità delle voci che partecipano alla composizione sfugge ormai la provenienza, come di ricordi privi di una collocazione precisa e che tuttavia si materializzano ugualmente, nel qui e adesso del suono, fantasmi trattenuti e liberati tramite il tasto mute del banco di missaggio.
E risuona il mare – Napoli, anni novanta7.
All’inizo del decennio un vissuto fermento culturale e politico spinge la città di Napoli verso la ricerca di nuove modalità espressive, che trovano una dimensione artistica privilegiata nella creolizzazione di forme e linguaggi a cui la città ha sempre offerto il corpo. La musica è inevitabilmente uno spazio privilegiato in cui attualizzare questa necessità. Nella creazione di una dimensione sonora nuova Napoli riafferma la sua natura di città porosa, territorio aperto al transito ed all’attraversamento. Mediante pratiche di stratificazione ed assemblaggio dei suoni la città sembra riuscire a scrollarsi di dosso una narrazione che la vuole simbolo di un meridione irrimediabilmente in ritardo rispetto al presente, e riorientare se stessa verso un futuro ancora tutto da scrivere. Molto è stato scritto degli Almamegretta, il gruppo che più di tutti ha reso tangibile la possibilità di una declinazione del dub in senso mediterraneo, sulla cui rotta pure si erano già avventurati i baresi Different Stylee qualche anno prima. Vogliamo però mettere da parte per un attimo il ruolo pur fondamentale del cantante Rino della Volpe, per concentrarci su una figura spesso rimasta in ombra. Stefano Facchinelli, in arte D. Rad, entra a far parte degli Almamegretta in qualità di fonico durante le registrazioni del primo album del 1993, Anima Migrante, per diventare dopo poco membro effettivo della band in qualità di dubmaster. Come altri dubmaster prima di lui, D. Rad è prima di tutto un tecnico, e dunque un uomo di scienza e di macchine; scienza dei suoni, macchine sonore. Il suo dub è l’invenzione di un collegamento, la soluzione inaspettata ad un problema, un approccio differente alla registrazione: è la padronanza della tecnica che spinge la logica in avanti. Nelle note di copertina dei primi album a cui collabora il suo nome figura come addetto al programming: nell’era digitale le macchine sonore vanno istruite e programmate affinché facciano ciò che devono quando devono, e D. Rad lavora in qualità di intelligenza umana votata al controllo di quella tecnologica. Il suo progetto solista, che rimarrà incompiuto, si chiama Modulamanopola; unico componente del progetto, D. Rad a partire dalla scelta del nome sembra quasi voler nascondere la propria presenza dietro quella della macchina, fare corpo con essa, diventare solo quella mano invisibile che permette alla macchina di funzionare. Con D. Rad il progetto delle anime migranti acquisisce una solidità sonora irripetibile. Mentre la ricerca musicale della band guarda decisa verso sud e verso oriente, egli si affaccia verso nord ed occidente, verso la tradizione senza canone di un dub che è ormai pura matrice da utilizzare liberamente, e tuttavia porta ancora in sé il peso di una serie di attraversamenti. Il suo sound freddo ed urbano problematizza ed arricchisce una volta in più la nuova collocazione di Napoli sulla mappa della modernità. Il Mediteraneo antico, arabo ed africano evocato nelle melodie dei musicisti e nella vocalità del cantante Raiz trova uno sbocco ulteriore nelle tecniche sonore impiegate da D. Rad, si apre ai suoni ed alle tecnologie dell’Atlantico Nero reclamando il proprio spazio in un presente affamato di futuro. Di D. Rad, uomo di suono, scomparso troppo presto, non restano molte immagini: tra di esse un breve video, frammenti e spezzoni girati durante le registrazioni di un indimenticabile Sanacore, nel 1994. Qui lo possiamo ritrovare ai controlli del suo banco mixer A&H, per l’occasione smontato e riassemblato, assieme a tutto il suo studio, sull’isola di Procida. Ci piace ricordarlo così, una manciata di chilometri ancora più addentro in quel Mediterraneo che ha contribuito a disegnare, nel quale ci si può infine muovere liberamente tra Napoli, Londra e Kingston, sospinti da correnti elettriche, trasportati da onde sonore.
.
Di suono, carne ed ossa. Ovunque, anni duemila ed oltre8.
Nel corso degli ultimi quindici anni il dub è inaspettatamente ritornato ad essere un genere musicale a sé stante, seppur dai confini dilatati da tre decenni di adattamenti culturali e contaminazioni musicali e tecnologiche. Lo ritroviamo là dove era nato e cresciuto, nelle vibrazioni prodotte dagli altoparlanti dei sound system che risuonano nei club e nelle strade della metropoli globale, alimentando dancehall, carnevali e street parade. L’importanza dello spazio della dancehall nel definire le caratteristiche soniche del dub è fin dalle origini un dato imprescindibile; la necessità di coinvolgere e stupire i partecipanti ai balli è il vero catalizzatore della sperimentazione formale messa in atto in Giamaica. Solo nella riproduzione a volumi fuori misura operata dai sound system il dub sembra trovare una completa realizzazione; è una esperienza che dal piano acustico di sposta a quello fisico, ribaltando la tradizionale gerarchia sensoriale e stimolando alla condivisione di un’altra forma di conoscenza, non razionale, corporea e collettiva. La molteplici rotte della diaspora del dub sembrano rivelare così un percorso circolare, facendo ritorno al medesimo punto da cui erano partite; è il corpo dei ballerini, dei cantanti, dei dj, che abitano lo spazio temporaneamente disegnato dal suono. E’ un corpo fisico, fatto di organi ed ossa che vibrano sotto la pressione sonora sprigionata dai subwoofer, che si abbandona alla danza come risultato di un movimento indotto a livello molecolare, che si sposta lungo le traiettorie ed il tempo ciclico delle dancehall cittadine e dei festival internazionali. E’ il corpo ipersessualizzato dalle sollecitazioni dalle basse frequenze che si concentrano a livello dello stomaco e del basso ventre, attraversato dalla potenza penetrativa e mascolina delle vibrazioni subsoniche ed allo stesso tempo avvolto da esse in una dimensione amniotica che rimanda allo stadio pre-individuale del grembo materno. E’ il corpo virtuale e superumano, che vede le proprie possibilità estese infinitamente dalle tecnologie di produzione e riproduzione sonora, corpo narrato dai suoni campionati e riassemblati che eccede così i suoi stessi limiti, e si fa corpo narrante per storie altrimenti non raccontabili. E’ infine il corpo individuale, che si fa corpo di risonanza e corpo collettivo, parte di un auditorium e dunque di una comunità che si riscopre tale nell’atto della percezione del suono; è il corpo immerso e travolto da una esperienza fisica multisensoriale che dischiude una dimensione politica fondata sulla propagazione di pratiche di mobilità e di condivisione.
.
foto di Davide Adamo
.
.
1 Una mappa dei centri europei di detenzione per migranti e’ disponibile su http://en.closethecamps.org; per quella dei muri di contenimento anti-immigrazione si veda http://www.express.co.uk/news/world/601881/European-fences-Map-shows-continent-s-desperate-bid-to-stem-migrant-flow.
2 Il concetto di dub diaspora, che fornisce il titolo al recente volume di Sullivan (2014), trova delle affinità concettuali con la nozione di dub virus utilizzata da Goodman (2010) e Penman (2001).
3Per una discussione completa del dub giamaicano si rimanda a Veal (2007); il paragrafo si rifà chiaramente all’idea di Atlantico Nero di Gilroy (1993), e lavora altresì su alcune implicazioni del concetto di “mixologia” di Eshun (1999).
4 “Anamnesis, a semiotic effect, is the often involuntary revival of memory caused by listening and the evocative power of sounds”; Fonomnesi “refers to a sound that is imagined but not actually heard (…) is a mental activity that involves internal listening.” Cfr. Augoyard & Torgue (2005).
5 Il paragrafo si ispira al concetto derridariano di hauntology come rielaborato da Fisher (2013) in relazione alla musica elettronica. Per una analisi dei legami tra dub inglese e postpunk si rimanda a Partridge (2010).
6 Il concetto di schizofonia è stato proposto per primo da Schafer (1977/1994) per indicare “the split between an original sound and its electroacoustic reproduction” ma anche “to convey the same sense of aberration and drama”.
7 Il paragrafo è debitore delle suggestioni del pensiero Mediterraneo di Chambers (2008, 2011), e trae alcune informazioni dal volume postumo “Appunti per una storia del Dub” (2006) edito dalla famiglia di D. Rad che raccoglie alcuni dei suoi scritti.
8 Il paragrafo fa riferimento al “corpo sonico” di Henriques (2011) ed al corpo “hyper-embodied” di Eshun (1999); per il corpo ipersessualizzato della dancehall si rimanda a Cooper (1993).
.
.
Bibliografia
Augoyard, J. F. & Torgue, H. (2005) Sonic Experience. A Guide to Everyday Sounds. Montreal: McGill – Queen’s University Press.
Chambers, I. (2008) Le Molte Voci del Mediterraneo. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Chambers, I. (2012) Mediterraneo Blues. Musiche, malinconia postcoloniale, pensieri marittimi. Torino: Bollati Berlinghieri.
Cooper, C. (1993) Noises in the Blood. Orality, Gender and the ‘Vulgar’ Body of Jamaican Popular Culture. London and Basingstoke: Macmillan Press Ltd.
Eshun, K. (1998) More Brilliant Than the Sun. Adventures in Sonic Fiction. London: Quartet Books.
Fisher, Mark (2013) “The Metaphysics of Crackle: Afrofuturism and Hauntology”. Dancecult: Journal of Electronic Dance Music Culture 5(2): 42–55.
Gilroy, P. (1993) The Black Atlantic. Modernity and Double Consciousness. London: Verso.
Gilroy, P. (2004) After Empire. Melancholia or Convivial Culture? London-New York: Routledge.
Goodman, S. (2010) Sonic Warfare. Sound, Affect and the Ecology of Fear. Cambridge-London: MIT Press.
Henriques, J. (2011) Sonic Bodies. Reggae Sound System, Peformance Techniques and Ways of Knowing. New York: Continuum.
Palustross (2006) Appunti per una storia del dub. Dalle origini al 2005. Napoli: Palustross.
Partridge, C. (2010) Dub in Babylon. Understanding the Evolution and Significance of Dub Reggae in Jamaica and Britain from King Tubby to Post-Punk. Sheffield: Equinox Publishing.
Penman, I. (2001) “KLANG! Garvey’s Ghost Meets Heidegger’s Geist” in P. Brophy (ed.) Experiencing the Soundtrack: Cinesonic 3. Sydney: Allen and Unwin.
Schafer, R. M. (1994). The Soundscape: Our Sonic Environment and the Tuning of the World. Rochester, VT: Destiny Books.
Zielinski, S. (2007) Deep Time of the Media: Toward an Archaeology of Hearing and Seeing by Technical Means. Cambridge-London : MIT Press.
.
.
Discografia
Almamegretta, Sanacore (1995) Anagrumba.
King Tubby & Friends, Dub Like Dirt 1975-77 (1999) Blood & Fire.
Various, On-U Sound Celebration (1988) Trance Records.
.
.
Brian D’Aquino è dottorando in Studi Internazionali all’Università Orientale di Napoli, e si occupa di culture musicali dell’Atlantico Nero e tecnologie di riproduzione sonora. Attualmente collabora con la Continuum Encyclopedia of Popular Music of the World, edita da Bloomsbury; è membro di un sound system e co-fondatore di una etichetta discografica che produce reggae e dub in vinile.