Il 19 aprile 1999 il quotidiano La Repubblica pubblica un articolo della saggista e giornalista statunitense Susan Sontag che s’intitola Ricordando Sarajevo è una guerra giusta. L’articolo inizia così1:
L’altro giorno, un’amica di New York mi ha telefonato a Bari, dove mi trovo per un soggiorno di alcuni mesi; desiderava notizie della mia salute, e mi ha chiesto tra l’altro se da qui sentivo esplodere le bombe. L’ho rassicurata spiegandole che il rumore dei bombardamenti su Belgrado, Novi Sad o Pristina non arriva fino al centro di Bari; anzi, da qui non si sentono neppure decollare gli aerei dalla vicina base Nato di Gioia del Colle.
Durante gli anni della guerra in Jugoslavia io insegnavo a Bari e arrivavo all’alba con un treno che, per chi come me faceva la pendolare da Roma gli permetteva di essere a lezione all’Università in tempo. Si arrivava all’alba e si passava un’ora buona nel bar della stazione già aperto alle 6.30. La Sontag dice che non si sentiva il rumore delle bombe, ma in realtà, non so se era suggestione, ma io sentivo a tratti il rumore dell’artiglieria come un leggero rumore di fondo, e la stazione di Bari era sempre piena di giovani soldati. Non potevo andare in aereo perché i cieli sul lato dell’Adriatico erano interdetti ai voli civili per problemi militari. La guerra era lì alle porte, ma non ci riguardava molto. Non ci riguardava perché ci separava un mare che allora era un “confine naturale”, un muro d’acqua. Noi bevevamo caffè al bar e sull’altra sponda si moriva.
Il panico in Italia è comunque comprensibile. Da qui non si assiste solo alle scene strazianti trasmesse dai Tg, ma anche allo spettacolo dell’esodo di massa. E per l’Italia gli albanesi sono innanzitutto futuri immigrati.
Sarajevo. Una donna all’uscita del mercato. © Christian Piana
La Sontag ci vedeva, vedeva gli italiani, prima di tutto preoccupati che quella gente travolta da una guerra lunga e terribile,– potessero diventare migranti. E tutto questo accadeva nel cuore dell’Europa di soli 20 anni fa. La “nostra” paura di allora è la nostra paura di oggi. La stessa iconografia, le stesse immagini mediali, la stessa protervia nel dire sempre le parole “paura, invasione, pericolo, difesa”.
Sia nella cosiddetta sinistra che nella cosiddetta destra emerge sempre più la questione dell’identità. L’antiamericanismo che sta alimentando la protesta contro la guerra è cresciuto in questi ultimi anni in molte nazioni dell’attuale Unione Europea. Forse il miglior modo per comprenderlo è vedere in esso una proiezione delle ansie suscitate da questa nuova Europa, presentata a tutti come cosa buona, tanto che pochi osano metterla in discussione. Le nazioni sono comunità da sempre immaginate, riconcepite, riaffermate contro la pressione dell’Altro che le definisce. Lo spettro di una nazione senza confini, infinitamente permeabile, non può che suscitare ansia. L’Europa ha bisogno di un’America soverchiante.
Sarajevo. Durante i funerali del presidente Izetbegovic. © Christian Piana
Non so oggi se l’antiamericanismo di allora, come lo chiama Susan Sontag, fosse solo una proiezione, ma certo è che quell’idea di costruire una propria identità nazionale continuando a disegnarla sempre e solo in opposizione a “gli altri” sembra un commento sull’Europa di oggi, e non degli anni Novanta. La paura che possa esistere un continente senza confini, che la mobilità permetta di rendere tutti i territori permeabili all’attraversamento, al viaggio, alla disseminazione resta per tutta la cultura occidentale, autoctona o importata altrove, come il tabù insuperabile. La paura costruisce muri si dice. In realtà la paura costruisce nazioni, che inventano identità nazionali che poi giustificano e chiedono la costruzione di muri.
Un’Europa nata per lo spettacolo, il consumismo e le grandi strette di mano… ma ossessionata dal timore di vedere le identità nazionali sommerse da un mercantilismo multinazionale senza volto, o dalle ondate di immigrati provenienti dai paesi più poveri.
Un’Europa che ha costruito prima di tutto una sua geografia nella quale non si disegna un continente ma una sagoma mobile, che esclude e include, che lentamente ha inglobato l’ex-est solo su base economica, e che accetta la dittatura di Erdogan in Turchia senza chiedere nulle sulle costanti violazioni dei diritti umani, che non si oppone alle politiche neo-naziste in Ungheria che hanno già abolito la libertà di stampa e imprigionato molta opposizione. Quell’Europa, che come diceva la Sontag giustamente ha creato prima di tutto un’iconografia di sé stessa, ha una sola certezza: essere uniti al proprio “interno” per poter respingere l’invasione degli “altri”. Che lo si faccia per mare dalla manica al Mediterraneo o che lo si faccia via terra, non importa. La sola cosa che unisce questo strano territorio, diviso per quasi mezzo secolo a metà tra Est e Ovest, con un muro al suo centro che passava per Berlino ma divideva in due l’intero continente, è la paura e la necessità di impedire a chiunque non sia riconosciuto come “Comunitario” di attraversarla. L’Europa ha sempre alzato muri, ha combattuto una guerra mondiale proprio per le battaglie di confine e poi, appena uscita dall’orribile Nazismo, ha costruito un altro muro Est/Ovest. Ora l’Europa di Schengen costruisce un nuovo muro perimetrale per la sua nuova geografia con la quale ha deciso, oggi, che l’Europa è una sola, che comprende anche l’Est, e che tutta unita, si oppone all’invasione degli altri (come recita chiaramente l’articolo 7 del trattato di Schengen).
Con il Trattato di Nizza del 2001 l’Europa si è data una Costituzione condivisa. In quasi ogni paragrafo della Costituzione si legge che il continente deve mantenere le proprio differenze nazionali ma mirare a una unità d’insieme, prima di tutto che garantisca la difesa dei proprio confini verso l’esterno.
Sì, è questa l’Europa. L’Europa che non ha reagito alle bombe serbe su Dubrovnik. Né ai tre anni di assedio di Sarajevo. L’Europa che ha lasciato morire la Bosnia. Una nuova definizione dell’Europa: il luogo in cui le tragedie non avvengono. Le guerre, i genocidi… cose che accadevano qui un tempo, ma oggi non esistono più. Possono capitare in Africa o in qualche parte dell’Europa che non è “realmente” Europa – cioè nei Balcani. Anche qui, forse sto esagerando. Ma dopo aver trascorso lunghi periodi a Sarajevo, tra il 1993 e il 1996, non mi sembra affatto di esagerare..
Srebrenica, il funerale collettivo di 107 vittime di cui sono stati riconosciuti i resti. Le stime ufficiali contano 7000 caduti durante la conquista di Srebrenica ma sono circa 20000 le persone che risultano scomparse. © Christian Piana
La Sontag definisce l’Europa come il luogo in cui le tragedie non avvengono. Una definizione perfetta per oggi. Migliaia di persone annegano nei suoi mari, migliaia muoiono schiacciate ai suoi confini esterni, ma la tragedia non ci riguarda, sono altri che cercano di entrare in questa Europa che non conosce tragedie al suo interno.
Ora mi trovo ai margini dell’Europa della Nato, a poche centinaia di chilometri dai campi profughi di Durazzo, di Kukes e di Blace, dalla più grande somma di sofferenze che l’Europa abbia conosciuto dalla Seconda guerra mondiale. È vero che qui non si sentono decollare gli aerei della Nato dalla loro base pugliese; ma si può andare a piedi al molo dei traghetti di Bari, dove si assiste al quotidiano affluire di fiumane di albanesi e kosovari: famiglie che arrivano con le navi provenienti da Durazzo. Di notte, a un centinaio di chilometri da Bari si può vedere la Guardia costiera dare la caccia ai gommoni stipati di profughi illegali che salpano di notte da Valona, affrontando la perigliosa traversata dell’Adriatico. Ma se uscissi di casa soltanto per vedere gli amici, mangiare una pizza, andare al cinema o a sedermi al tavolo di un caffè, qui a Bari non sarei più vicina alla guerra di quanto lo siano i telegiornali e i quotidiani che trovo ogni mattina davanti alla mia porta. Come se fossi già tornata a New York.
Ora siamo a due ore di volo dall’Ungheria, a un’ora e mezzo di volo dalla Serbia, a un notte di nave dall’Egeo, e a poche ora di treno dalla Sicilia e a un’ora di volo da Lampedusa, e tutti seduti ai bar beviamo caffè. Gli italiani è come se vivessero sempre a New York, si sentono sempre lontani un oceano dalle tragedie degli “altri”.
Nel 1996 tornavo dalla Slovenia e passando il confine che durante la guerra avevo passato più volte per andare in Croazia, vedo schierati dalla parte italiana carri armati e militari in assetto di guerra. Chiedo al doganiere che succede e lui, come gli avevano evidentemente detto di dire, mi risponde: “C’è pericolo che si allarghi il fronte della guerra in Jugoslavia. E poi aspettiamo gradi masse di profughi da lì”. L’Italia aspettava i profughi dalla Jugoslavia con carri armati e militari. Fuggiaschi da una guerra che oltre il confine non distava più di 300 km, gente che aveva vissuto e abitato nel mare di fronte a noi, erano accolti da carri armati e artiglieria. Non dovemmo mai usare quel ridicolo spiegamento di forze, ma quell’attitudine è rimasta uguale oggi in chi propone si sparare sulle barche dei migranti nel Mediterraneo, non è cambiato per nulla.
Certo, è facile distogliere gli occhi da ciò che sta accadendo, quando non accade a noi. A meno di aver voluto recarsi sul posto. Ricordo con quale rammarico, nel 1993 a Sarajevo, un’amica bosniaca mi disse che due anni prima, davanti alle immagini televisive di Vukovar totalmente rasa al suolo dai serbi, aveva pensato: “È terribile. Ma è successo in Croazia. Qui in Bosnia non accadrà mai…”. E cambiò canale. Ma l’anno dopo, quando la guerra raggiunse la Bosnia, sperimentò la cosa da una prospettiva diversa: era lei a vivere una vicenda che altri vedevano sullo schermo dicendo: “È terribile”… e cambiavano canale.
Quanto si sente impotente la “nostra” Europa, confortevole e pacificata, davanti a tutti questi irrazionali massacri, a queste sofferenze nell’altra Europa. Ma le immagini non si possono esorcizzare… Quei profughi, cacciati dalle proprie case, dai propri villaggi incendiati a centinaia di migliaia, tanto simili a noi.
Srebrenica, una ragazza cerca la tomba dei cari. © Christian Piana
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Nelle trasmissioni televisive i Siriani, i ragazzi che fuggono dalle varie guerre in diversi paesi dell’Africa, sono sempre più simili a “noi”. Su FB si è scatenata la guerra dei commenti sui profughi arrivati dalla Siria in Ungheria che avevano i cellulari. L’iconografia del rifugiato, dell’immigrato, deve essere diversa da “noi”. Come possiamo accettare che quelle persone potremmo essere noi, come possiamo accettare che siamo state noi quando dalla Sicilia dove ora si sbarca ci si imbarcava per l’America? Come possiamo identificarci con chi arriva senza pensare a quando noi partivamo? Ma forse dovremmo dire: partiamo e non partivamo. Mentre altre persone bussano ai nostri confini del blocco solido e sicuro di Schengen, migliaia di giovani europei, compresi gli ungheresi, i polacchi, i serbi emigrano liberamente in treno, in macchina, in aereo, verso l’Inghilterra, la Germania, il Belgio, la Francia. Ma quelli non sono più migranti, sono cittadini europei che cambiano nazione. Secondo i dati raccolti da Migrantes (sulla base dei dati dell’Anagrafe italiani residenti all’estero, Aire) nel 2014 sono emigrate 90mila persone dall’Italia. Ma nessuna di loro è chiamata “migrante”2.
On line si possono trovare siti che spiegano agli italiani come “migrare” in maniera facile e sicura, come ad esempio Italians in fuga (http://www.italiansinfuga.com/) creato da Aldo Mencaraglia che ha anche scritto una guida È facile cambiare vita se sai come farlo. Francesca Prandstraller docente nel Dipartimento di Management e Tecnologia della Bocconi, nel suo libro Vivere all’estero parlando dei giovani “migranti” italiani cita la “relocation di successo” per “un’emigrazione di qualità”. La differenza di linguaggio corrisponde alla realtà dei fatti. Mentre gli europei si spostano liberamente all’interno del “loro” continente e quindi non sono più bollati come un’etichetta identitaria pubblica come migranti, o rifugiati o simili, chi arriva da fuori Europa non è più un cittadino che si sposta da un paese all’altro del mondo, ma è un rifugiato, migrante o altro, quindi un “invasore”. Il disegno del cittadino “extra comunitario”, che già in partenza merita un’etichetta unica da qualsiasi paese venga, serve a identificare il nemico, colui che non deve varcare il confine perché potenzialmente pericoloso per definizione. Ma anche qui la differenza di rappresentazione è interessante: per Schengen uno statunitense o un canadese sarebbe come un siriano o un somalo, tutti “extra-comunitari”. Basta guardarsi intorno e leggere i giornali per capire che non sono affatto la stessa “cosa” nei nostri immaginari collettivi.
Nell’ultima competizione elettorale in Inghilterra il conservatore Cameron ha dichiarato che o si mette un freno all’immigrazione europea, e a quella italiana in particolare, verso il suo paese o l’Inghilterra uscirà dall’UE. Una posizione interessante, che pur nella sua follia e antidemocraticità, solleva la questione della mobilità anche all’interno del continente e ne discute il principio assurdo di totale libertà ma solo entro i suoi confini. Gli italiani potrebbero tornare a essere emigranti? Magari regolati nei loro accessi da quote imposte da paesi più ricchi? Vedremo i nostri figli tentare di passare la Manica con i ragazzi provenienti da vari paesi dell’Africa, li vedremo pagare scafisti per poter sbracare in Inghilterra. Uno scenario surreale? Forse non molto.
Ma questi confini nazionali, modificati tante volte da un secolo a questa parte, devono essere veramente il criterio ultimo? Come dire che si può uccidere la propria moglie tra le mura di casa, ma non fuori dalla porta o per strada. Immaginiamo che la Germania nazista non avesse ambizioni espansioniste, che si fosse limitata, tra la fine degli Anni 30 e gli Anni 40, a inserire nel proprio programma politico la strage di tutti gli ebrei tedeschi. Pensiamo forse che un governo abbia il diritto di fare sul proprio territorio tutto ciò che vuole? Può darsi che sessant’anni fa la posizione dei governi europei sarebbe stata questa. Ma oggi potremmo approvare una decisione del genere?
Proviamo a trasferire quest’ipotesi nel presente. Cosa accadrebbe se in Corsica il governo francese incominciasse a massacrare parte degli abitanti e a cacciare gli altri dall’isola? O se il governo italiano si disponesse a svuotare dei suoi abitanti la Sicilia o la Sardegna, provocando l’esodo di milioni di persone? O se la Spagna decidesse una soluzione finale per la popolazione ribelle del Paese Basco? Non accetteremmo forse l’idea che sul continente un consorzio di potenze abbia il diritto di usare la forza militare per costringere il governo francese (o italiano, o spagnolo) a invertire la rotta – il che comporterebbe probabilmente il rovesciamento di quel governo?
Ma ovviamente questo non sarebbe potuto accadere, vero? Non in Europa. Durante l’assedio, i miei amici di Sarajevo dicevano: “Come può “l’Occidente” permettere che tutto questo succeda a noi? Siamo anche noi europei, siamo in Europa. “Loro” non permetteranno che si vada avanti così”. Ma “loro” – gli europei – lo hanno permesso. Ciò che è accaduto in Bosnia è veramente terribile: dai campi di sterminio serbi, nel nord della Bosnia, nel 1992 – i primi campi di sterminio sul suolo europeo dal 1940 – alle esecuzioni di massa di molte migliaia di civili a Srebrenica e altrove, nell’estate del 1995.
E tutto questo, l’Europa lo ha tollerato.
Srebrenica, un anziano in cerca della tomba dei cari. Il 12 luglio ’95 le forze serbe comandate dal generale Ratko Mladic conquistano la città sterminando la popolazione civile. © Christian Piana
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1 Tutte le parti in corsivo in questo testo sono tratte dall’articolo di Susan Sontag, Ricordando Sarajevo è una guerra giusta, La Repubblica, 19 aprile 1999 (http://www.repubblica.it/online/dossier/scrittori/sontag/sontag.html)
2 Cfr articolo di Valentina Pigmei, Perché gli italiani ricominciano a emigrare, L’Internazionale, 24 maggio 2015 (http://www.internazionale.it/reportage/2015/05/24/perche-gli-italiani-ricominciano-a-emigrare).