(IM)MOBILITY
Movimenti che disturbano lo spazio della narrazione
micro-diario di un viaggio (im)possibile
di Laura Lo Presti

 «L’im- dell’im-possibile è senz’altro radicale,
implacabile, innegabile, ma non è semplicemente
negativo o dialettico, esso introduce al possibile,
né è l’usciere»

(Derrida, J. 1997: 13)
Figura 1

The Right of Passage (2013), still da video © Zanny Begg & Oliver Ressler.

Metriche del movimento

“Il movimento converte lo spazio in narrazione”, scrive Giuliana Bruno nel suo Atlante delle Emozioni (Bruno 2006: 78). La cinetica coincide con l’impulso alla vita: anima e produce le geografie del quotidiano. Ma seguendo questo ragionamento, come si inventa lo spazio narrativo di corpi continuamente controllati, bloccati e anestetizzati nel loro movimento? I corpi immobilizzati sono s-oggetti incapaci di produrre storie? O il movimento è altro e dovremmo cominciare a distinguerlo dalla mobilità (Cresswell 2006)? 

Sosteniamo, infatti, che capitale, informazioni, merci, persone si muovano tra turbolenze e viscosità senza considerare che tali flussi sono canalizzati e normalizzati, così come le migrazioni sono prodotte e pianificate: rientrano nella sfera della mobilità piuttosto che del movimento e tale (im)mobilità necessita di società di controllo, di bio-metriche di potere e di diversificati meccanismi di presa per esercitarsi. 

Potremmo, a ragione, ammettere che la mobilità sia una declinazione del movimento ma tradotta e strutturata nella lingua dei regimi territoriali. È, infatti, nel territorio che il capitale ha bisogno di viaggiare, cioè di essere distrutto per uscire fuori dal mercato, riprodursi e accrescersi (Dematteis 1985) mentre, paradossalmente, il suddetto territorio risulta sempre più ostile alla circolazione delle persone. La membrana della circolazione diventa osmotica e filtra l’ingresso e l’espulsione degli individui sulla base della loro disponibilità economica, sociale e cognitiva.

La mia convinzione è che movimento e mobilità non siano sinonimi, soprattutto se guardiamo alla genealogia dei loro usi. Difatti, parlare la lingua della mobilità significa aver acquisito il privilegio della motilità, ovvero essersi garantiti il diritto a sfruttare le potenti linee del movimento materiale. In una politica che si nutre del dualismo confinamento/sconfinamento, il controllo sulla mobilità riflette e rafforza il potere, diventando una “risorsa”, una pratica sociale con la quale non tutti hanno una relazione eguale (Skeggs 2004). Non a caso, la mobilità è un termine che richiama semanticamente l’abilità e la capacità fattuale di muoversi.

Che ne resta, dunque, del movimento tout court?
Come suggerisce il geografo Cresswell, “il movimento può essere pensato come mobilità astratta, una mobilità sottratta al contesto del potere” (2006:2, trad. mia). In quanto ab-stractum, cioè trascinato fuori, il movimento si situa su un piano altro, uno spazio impossibile sempre da ricercare o da inventare.
Pertanto, se la mobilità giunge ad occupare il campo della possibilità del muoversi, il movimento in sé deve costituire il rifiuto ontologico della mobilità come unica possibilità, finita e compiuta, di muoversi. Esso è il supplemento pericoloso che intacca la dialettica necrofila tra mobilità e immobilità creando, senza sosta, nuovi orizzonti di significato. Tratteggiato sotto questa luce, il movimento impedisce di chiudere il cerchio, di fornire un quadro conchiuso. Esso è im-possibile nella misura in cui va dietro e oltre ciò che si dice possibile, cioè producibile, programmabile e anticipabile. Diventa il fare luogo a idee, pensieri, progetti che ripensino criticamente, nel nostro caso, la grammatica della mobilità.

Ecco che, nell’allontanare strategicamente i due termini a prima vista vicini, ci rendiamo conto che essi non giungono più a coincidere una volta messi in tensione, ma si sovra-iscrivono, lasciando sgocciolare, ai margini, degli orli di significato da esplorare, piccole resistenze da attivare.
Una volta visualizzate queste sovrapposizioni non collimanti, bisogna sforzarsi di non darle per scontate ma di riflettere a fondo sull’effetto che hanno su di noi, spingendole oltre. 

Se quella del flusso è una metafora fuori moda alla luce degli ostacoli e delle costrizioni che falsificano il movimento, non bisogna dimenticare che, a ben vedere, nei flussi vi sono sempre delle correnti che si incontrano, si toccano, si scontrano per poi riprendere il loro corso. Anche il flusso più liscio e trasparente prevede che vi sia uno scambio corpuscolare, una relazione. Lo spazio del movimento è allo stesso modo il prodotto della relazione tra corpi e i corpi sono in sé degli spazi di carne in cui qualcosa accade, in cui l’evento si scatena. E sono i movimenti centrifughi, che nascono fuori dallo spazio del potere e che non si lasciano catturare, a dover essere resi visibili, salvaguardati e protetti affinché sprigionino eventi, mutamenti della cornice.

Per tale ragione, non basta riconoscere e svelare la dialettica (o l’ambivalenza) tra mobilità e immobilità, inclinandole l’una sull’altra ed enumerando all’infinito la lista dei dispositivi di controllo che ne definiscono l’ontologia e l’orizzonte fenomenico. Bisogna, piuttosto, triangolarle con il pensiero-immagine del movimento, suggerendo una terza modalità di accostamento teorico, quella in cui lo spazio possa essere coniugato come un verbo.
Lo spazio che si fa verbo, azione, processo e non mero contenitore-prigione richiede una disposizione e una disponibilità teorico-pratica che sia capace, da un lato, di mettere sì in luce la dimensione materiale e conflittuale su cui si vanno costruendo le mobilità contemporanee; dall’altro, però, deve proporsi di invertire la meta-forizzazione del vissuto, cioè di portare il movimento che è radicalmente fuori – astratto– in quello che Stuart Hall definirebbe “il mondo sporco di quaggiù”. In questa conflagrazione scaturiscono le narr-azioni.

Ma come è possibile produrre movimento dentro i territori attivati dalla mobilità? Bisogna ricercare quei movimenti sporchi, contaminati, mondani che creano delle storie spaziali, degli intermezzi narrativi anche se temporanei, provvisori e incerti. Insomma, per fare ciò, lo spazio delle pratiche deve produttivamente collidere con quello delle teorie. Perché se è vero che le rappresentazioni hanno bisogno di una buona dose di immagini empiriche per attivarsi in senso politico, le parole e le immagini sanno anche essere performative e ri-configurare esperienze altrettanto reali.

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Aritmie del vedere.

Figura 2

Stazione Keleti di Budapest, circondata dagli agenti di polizia © Laura Lo Presti.

I movimenti del pensiero e i pensieri sul movimento avviluppano le esperienze del vissuto, dunque. La barcollante impalcatura teorica abbozzata in apertura cede ora spazio ai toni di un micro-diario: annotazioni distratte, piccoli abbagli teorici e contrappunti visuali di una convulsa giornata in cui la barbara certezza che il movimento che dovremmo vivere come un diritto è in realtà confuso con un privilegio, quello della mobilità, si è depositata, come un residuo, sulla pelle di migliaia di corpi interrotti e ancor più vigliaccamente sulla mia.

Torno indietro nel tempo di una manciata di mesi. È il 2 settembre 2015. Ho un biglietto in mano per un treno fantasma. Il caldo e l’umidità fanno sudare le mie mani che stringono, quasi fosse un tesoro prezioso, quel pezzo di carta stampato pochi giorni prima alla Hauptbahnhof di Vienna. Un cordone di agenti della polizia circonda la maestosa stazione Keleti di Budapest e, amareggiata, penso che sarà impossibile entrare per chiunque. A maggior ragione prendere il mio treno di ritorno per Vienna.

Ricordate il 2 settembre 20151?

Le televisioni d’Europa gracchiavano all’unisono di una grande sollevazione da parte di coloro che vengono chiamati “migranti” o se più fortunati “rifugiati”, perché i flussi dall’Ungheria verso l’Austria e la Germania erano stati interrotti. Intere famiglie siriane, afgane, pakistane avevano investito centinaia di euro per comprare i biglietti di uno di quei treni della speranza, come il mio Budapest-Vienna. La risposta alla sospensione dei collegamenti ferroviari, seguita dalla cacciata dei passeggeri dall’interno della stazione, ha generato, comprensibilmente, una grande mobilitazione. Nel XVIII secolo, con il termine vulgus mobile si soleva indicare proprio la folla in tumulto. Saranno quegli stessi uomini e quelle stesse donne a decidere, nei giorni successivi, di marciare da Budapest verso Vienna, riconfigurando temporaneamente l’atteggiamento di chiusura del ventre dell’Europa. Ecco un movimento “mondano”, sporco, da coltivare.

Eppure, oggi, è ancora il 2 settembre e mentre dirigo il mio corpo fra quei corpi (in piedi, seduti a terra o per le scale), circoscritti e impediti nella loro circolazione, mi chiedo cosa succederà. Dall’altro lato del fiume, ho appena partecipato ad una conferenza di “accademici”: geografi che da diverse parti del mondo si riuniscono per discutere di confini, migrazioni, mobilità, territorio e sovranità. Ed eccomi di fronte ad uno dei tanti imprevisti geografici su cui potrebbero scorrere fiumi di inchiostro. Però, adesso, nella posizione in cui mi trovo, ho la netta sensazione che il piano della teoria possa avere valore solo se ne accetto il suo significato più puro e letterale, quello di (im)possibilità del vedere.

E allora comincio a sgranare gli occhi, a guardare. Vedere immagini significa anche accogliere il loro costante potere spirituale, rammenta la poetessa e scrittrice Adrienne Rich. Una forza che “vive nell’interazione tra ciò che ci fa ricordare un qualcosa, ciò che ci ritorna in mente e le nostre continue azioni nel presente” (Rich 2013 [1984]:39. trad. mia).

Siedo un po’ sulle scale e mi accorgo che una bambina mi sorride. Si affaccia dall’altra parte della ringhiera, mi guarda e accenna un ballo. Ma quando incrocio il suo sguardo si intimidisce e aspetta che io finga di ritrarmi per continuare la sua danza. Volgo la testa e mi accorgo di un particolare.

Figura 3

Stazione Keleti di Budapest. Particolare “1984” © Laura Lo Presti.

Sembra quasi una di quelle sfide lanciate dall’artista concettuale On Kawara. Una semplice data, qui addirittura un anno, scatena il potere spirituale dell’immagine. La coincidenza mi stupisce. Non perché richiami l’anno di pubblicazione del bellissimo manifesto di Rich, appena citato, ma perché rievoca il celebre romanzo di Orwell. Quasi una beffa. Lo scrittore britannico aveva creato un legame distopico tra vista e sorveglianza, l’osservazione mirata al controllo, quella che divide e seleziona per possedere e governare. Il valore del vedere che sto cercando di recuperare ha meno a che fare con il possesso e la sicurezza e più con la frustrazione e la vulnerabilità. È un vedere che ferisce. La teorica visuale Irit Rogoff definirebbe questa condizione con il termine criticality:

La criticità è il riconoscimento che potremmo anche essere pienamente armati di conoscenze teoriche, potremmo pur essere capaci delle più sofisticate analisi ma ciononostante stiamo anche vivendo le condizioni che cerchiamo di analizzare e con le quali cerchiamo di venire a patti. Pertanto, la criticità è uno stato di dualità in cui si è, allo stesso tempo, sia potenti che impotenti, consapevoli e inconsapevoli, dando così un significato leggermente diverso alla nozione di Hannah Arendt di ‘noi, compagni di sventura’ (2006:2, trad. mia).

Perché guardo, teorizzo, cerco di comprendere ma lo sguardo di ritorno mi rende impotente. E mi domando come si possa andare oltre il riconoscimento empatico della sofferenza altrui, se esso rimane un traguardo fine a sé stesso. Stropiccio gli occhi. Non posso sostenere a lungo l’incrocio di sguardi con chi mi sta intorno perché quella collisione cattura una situazione di cui mi sento responsabile pur sapendo di non esserne l’autrice diretta. E mentre osservo quell’insieme di cifre, 1-9-8-4, e penso ad Orwell, rifletto sulla possibilità di applicazione contemporanea del comandamento contenuto ne La fattoria degli animali: “Tutti gli animali sono eguali, ma alcuni animali sono più eguali degli altri” (2005[1945]: 100). 

Mi distraggo di nuovo. Una nuova geometria di sguardi mi irretisce. Una bambina con un pastello rosa colora i contorni dei suoi occhi mentre guarda due uomini sventolare un cartello che recita “We Want Our Freedom”. Loro non guardano lei ma gli agenti di polizia che bloccano l’ingresso alla stazione. E si rivolgono ai giornalisti che li fotografano e li intervistano. Devono stare al gioco di quella Libertà, che assume i toni di una estetica mediatica, nella speranza che qualcosa possa muoversi, che loro possano muoversi.

Cammino. Vedo tanti ragazzi seduti su un muretto con camicia a mezze maniche e cravatta. Sfatano il mito che li vorrebbe qui perché poveri e in cerca di fortuna. Perché non ci soddisfa ‘esclusivamente’ murare il movimento, ne costruiamo una tassonomia per trasformarlo in mobilità, anzi una gerarchia in cui distinguiamo una per una le ragioni che spingono a partire (gli studiosi di migrazioni le chiamerebbero push factors e pull factors) per creare dei fenotipi, delle figure stabili e reticolate su cui costruire delle previsioni e ottimizzare il meccanismo della selezione. 

La gerarchia della mobilità che produciamo non è solo sociale ma anche epidermica e razziale. A questo giro della ruota, i pakistani in fuga diventano gli ultimi tra i corpi non tanto immobili quanto immobilizzati. Se i siriani hanno evidenti difficoltà a proseguire nel loro viaggio, loro ne sono esclusi perché non vanno considerati rifugiati.

Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.

Figura 4

“Syria, we are with you (Pakistanis)”. Scritta su muro. © Laura Lo Presti.

Il telefono vibra, è arrivato un messaggio. La compagnia ferroviaria austriaca mi comunica che i cittadini comunitari possono usufruire delle corse tra l’Austria e l’Ungheria. Il servizio di connessione verrà garantito a patto di mostrare un valido documento di identità. L’ingresso avverrà da una porta laterale della stazione. Quasi in sordina. La cittadinanza diventa un’unità di misura mobile per aprire e chiudere i confini, interni ed esterni. Quella sensazione di orizzontalità, quel destino di immobilità che sembrava legare il mio percorso a quello di centinaia di persone asserragliate davanti la stazione, dura dunque una manciata di ore.

Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.

Layal, la bambina che prima ballava e voleva farsi consumare dai miei occhi ciechi, è ora accanto a me. Mangiamo un gelato sulle scale esterne della stazione. Ma io ora mi alzerò, cara Layal, e potrò prendere, una volta scrutati i volti di centinaia di poliziotti, il mio treno, che potrebbe essere anche il tuo. Grazie al mio passaporto che non è come il tuo (e che probabilmente non puoi avere).
Ecco la mobilità, ecco l’immobilità: faccia a faccia.

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Movimenti che disturbano lo spazio della narrazione

Figura 5

Il treno fantasma, Budapest Keleti © Laura Lo Presti.

Questo treno sta per partire ma non c’è nessun movimento che lo configura. Mancano le storie di quei corpi che creano relazioni, che producono spazialità. I movimenti dello spazio narrativo sono rimasti fuori da questo finestrino e io rimango seduta con un vergognoso marchio di fabbrica: il privilegio della mobilità.

Mentre sfoglio le pagine del mio passaporto, balena alla mente, quasi come contrappeso terapeutico, la video- installazione di Zanny Begg, (australiana) e Oliver Ressler (austriaco) intitolata “The right of Passage” (2013). Gli artisti propongono interviste con rifugiati, migranti, sans papier nonché intellettuali alla Toni Negri, Sandro Mezzadra e Arielle Azoulay. Il flusso del filmato è scandito da alcune parole-chiave: bodies that move, polis, city, cosmopolitanism, world in motion.

L’universo dei corpi involontariamente immobili e quello dei corpi mobili dialogano e collassano l’uno sull’altro nello spazio di un movimento impossibile. Delle figure animate si muovono infatti tra le pagine dei passaporti mostrate dagli interlocutori e negano, demistificano, interrompono attraverso i loro movimenti e le loro fughe nei buchi immaginari creati nelle pagine, la realtà e la validità dell’ordine espresso da quei documenti. Facendo accadere l’impossibile, questi movimenti si fanno evento, così come inteso da Derrida:

“L’evento deve essere possibile come impossibile, non può essere un evento se non a condizione che giunga laddove non è anticipabile, dove sembrava impossibile” (1999: 13).
Questa condizionalità fa del movimento una metafora, un trasporto di significato che rivela l’instabilità che è già propria nelle cose, anche quelle che appaiono ferme. Il sovraccarico metaforico trasforma le “aporie” di quelle silhouette immaginarie dall’essere, letteralmente, strade impraticabili al divenire luoghi di produttività del pensiero. D’altronde come scrive Cresswell: “Il movimento non è mai solo movimento: porta con sé il fardello del significato” (2006:7, trad. mia).

Figura 6

This is not a citizen”, still da video, The Right of Passage (2013) © Zanny Begg & Oliver Ressler

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1 2 September 2015, Budapest migrant stand-off enters second night: http://www.bbc.com/news/world-europe-34128263.

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Opere citate

Begg, Z., Ressler, O. 2013. The Right of Passage, video-installazione (23 min):https://vimeo.com/65239659.
Bruno, G., 2006. Atlante delle emozioni : in viaggio tra arte, architettura e cinema, Milano: B. Mondadori.
Cresswell, T., 2006. On the move : mobility in the modern Western world, New York: Routledge.
Dematteis, G. 1985. Le metafore della Terra, Milano: Feltrinelli.
Derrida, J. 1997. “La scommessa, una prefazione, forse una trappola” in Petrosino, S. (a cura di), Jacques Derrida e la legge del possibile: un’introduzione, Milano: Jaka Book: 9-19.
Derrida, J. 1999. “L’ordine della traccia, intervista a cura di G. Dalmasso”, in Fenomenologia e società, XXII, 2:4-15.
Orwell, G. 2005 (1945), La fattoria degli animali, Milano: Mondadori.
Rich, A. 1984. “Notes Toward a Politics of Location” in Lewis, R. e Mills, S. (a cura di), Feminist Postcolonial Theory: A Reader, 2013: 29-42.
Rogoff, I. 2006. “Smuggling – An Embodied Criticality” in the European Institute for Progressive Cultural Policies, http://eipcp.net/dlfiles/rogoff-smuggling.
Skeggs, B. 2004. Class, Self, Culture. Londra: Routledge.

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Laura Lo Presti è Dottoranda in Studi Culturali Europei/Europäische Kulturstudien presso l’Università degli Studi di Palermo e ha svolto un soggiorno di ricerca presso The Open University.
Geografa culturale con interessi per le cartografie mondane contemporanee, la cultura visuale e il pensiero postcoloniale, ha lavorato presso RISO, Museo d’Arte Contemporanea della Sicilia e collaborato con lo Specchio di Cara. Osservatorio sul Romanzo italiano contemporaneo dell’Università degli Studi di Palermo http://lospecchiodicarta.unipa.it/. Vincitrice, inoltre, del bando Fuori Rotta, patrocinato dal regista Andrea Segre e supportato dalla rivista Internazionale e da Rai Radio 2 per la realizzazione di un viaggio e di un’esperienza di ricerca a Palermo e nello Sri Lanka con la collaborazione della comunità tamil di Palermo. Il progetto, Mettere radici nell’andare, conclusosi di recente, è disponibile al seguente indirizzo:
http://mettereradicinellandare.jimdo.com/project/mettere-radici-nell-andare/.