(IM)mobility è la condizione generale che garantisce una sicurezza generalizzata al cittadino europeo. Il cittadino europeo è libero di muoversi entro i confini di una comunità quasi continentale, sancita dalle barricate alzate contro chi non rientra nella “fortunata” geografia del vecchio continente. La stessa unificazione europea è un processo che fonda la sua ragion d’essere sulla questione della migrazione. Per comprendere, almeno in parte, una serie di dinamiche geopolitiche bisogna riferirsi da una parte alle decisioni a tavolino dei governi e delle istituzioni (il trattato di Schengen per esempio) e dall’altra alle condizioni sociali a cui esse vanno ad aderire. In ogni epoca storica, in maggiore o minore misura, si sono verificati fenomeni di emigrazione, nel mondo antico, infatti, la fondazione di grandi civiltà è dipesa dalle migrazioni. Dal secondo conflitto mondiale, in Europa, si verifica un cambiamento dei luoghi d’esodo e delle aree di dislocazione che a livello politico spinge alla convenzione del trattato di Schengen, una serie di accordi sanciti per favorire la libera circolazione dei cittadini all’interno dell’Unione Europea e la definizione di un sistema di controllo alle frontiere. All’accordo si giunge solo nel 1985, quando vi aderiscono i cinque paesi fondatori (Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi); nel 1990 aderisce anche l’Italia; nel 1997 il trattato è assorbito all’interno delle convenzioni dell’Unione europea, atto ad abolire i confini di frontiera e a garantire benefici economici. La Bulgaria, la Croazia, Cipro, l’Irlanda, la Romania e il Regno Unito sono membri dell’UE, ma non hanno preso parte allo spazio Schengen. E’ possibile tuttavia che i cittadini dell’Unione europea possano circolare liberamente all’interno dell’UE, indipendentemente dall’adesione o meno dei singoli paesi allo spazio Schengen. Al momento dell’ingresso in uno Stato membro dell’UE che non aderisce allo spazio Schengen, i cittadini dell’UE sono oggetto, in linea di massima, di controlli minimi, volti a verificarne l’identità in base ai documenti di viaggio (passaporto o carta d’identità). Le frontiere esterne devono rimanere aperte anche per chi è spinto da ragioni professionali o chi è in fuga da guerre o persecuzioni. Questo accade proprio mentre la più grande paura tra le nazioni è quella della “perdita di controllo” dei propri confini. Una comprensione scomoda e lucida di tali meccanismi è fornita dalle pagine corsare di Pasolini da studi di linguistica applicata e da un’attenta analisi antropologica. Pasolini scrive nel 1975 “Oggi: l’emigrazione ha rotto come un alluvione gli argini che chiudevano il popolo dei poveri nelle antiche riserve. Attraverso quegli argini spazzati via, fiumane di giovani poveri sono andati a popolare altri mondi. Si è creato un nuovo tipo di disadattato, che non ha modelli a cui adattarsi”1. Il nuovo modello di “disadattato” deriva forse dalla commistione dei popoli, da Nord a Sud, da Oriente a Occidente, dalla colonizzazione prima e dalla decolonizzazione poi, dalla globalizzazione e dalla progressiva omologazione dei modelli culturali. Ma cos’è un popolo? Pasolini riferisce: “In genere il popolo è sentito psicologicamente e miticamente: come un’alterità quotidiana, così ontologica da non meritare di essere approfondita”2. Nel frattempo, a distanza di pochi decenni, barconi approdano in Europa; i treni diventano nuovi luoghi di transito per terre “rifugio”. La situazione attuale, infatti, mostra cedimenti. Il moto di persone che negli ultimi mesi raggiunge a piedi o via mare l’Europa è un fenomeno non solo nuovo quantitativamente ma anche in termini di qualità. È chiaro un cortocircuito alimentato dal movimento umano che da diversi orientamenti geografici, da diversi continenti, costumi e orientamenti religiosi diversificati, espone il loro essere corpo, la piaga umana che alimenta un senso: si annuncia la mondialità del corpo. Si manifesta la possibilità di una fisica epicurea, il determinismo stabilito dalle regole politiche si frantuma nel movimento incontrollabile degli atomi umani, una variazione di rotta che manifesta il libero arbitrio dell’individuo, capace di modificare eventi ed azioni, seppur quei tagli indivisibili (atomi) umani sono spinti da altrettante forze incontrollabili e pressioni appartenenti ad un universo sociopolitico. Jean Luc Nancy in Corpus scrive: “EXPERITUR: si va e si viene lungo questi bordi, confini e fini, che senza fini lambiscono altri fini, nuovi inizi per sé e punti d’approdo per altri, toccare ed essere toccati, pesare, soppesare, cadere, levarsi, labbra, pleure, voci, visioni, modi d’essere al limite di sé e degli altri, molto prima di appartenere a sé o a chiunque altro”3. Il popolo per Nancy, come per Pasolini, è una “realtà antropologica (o ontologica) che risponde all’esigenza di dare al senso delle aree di formazione e di circolazione (ciò che chiamiamo “lingue”, “culture”, queste forme di partizione di questo infinito insensibile che ci dà da sentire. La divisione in popoli non è dunque nulla di economico, né di politico nel suo principio. Un popolo, ma anche un gruppo, una rete organizzativa, una “società” […] tutto ciò compone la diversità dei tagli e delle disposizioni secondo le quali del senso ha luogo”4. I tagli sono gli atomi umani che indivisibili generano fessure nel reticolato reale creando delle cose, come quella del popolo e di uno spostamento di popolazione. Una sorta di epifania dell’altro che avviene a partire dallo scontro appartenente alla fisica epicurea e che in Nancy si definisce nel concetto di esposizione. Nella piena consapevolezza del contagio attuale dei corpi, resta l’esposizione: esposizione sul limite tra le differenze spaziali, etniche e linguistiche. Attrazioni, respingimenti, straripamenti, debordamenti, aperture. Nancy, nella sua concezione di mondo come esposizione di corpi, fa riferimento a “un mondo in cui la riva e la rovina rivaleggiano”5. Pasolini, dal suo canto, nella sua celebre e profetica- perfino nel titolo- poesia Profezia, fa riferimento non solo a corpi deboli, timidi, infimi, colpevoli, sudditi, piccoli, ma a quel terzo mondo in generale che mette in guardia l’occidente consolidato nel moderno; lo fa a partire da occhi e da corpicini, da un contatto virale che mette in guardia i porti delle città più malfamate d’Europa (Crotone, Napoli, Barcellona, Marsiglia, Salonicco) e ci presenta una nuova irrazionalità geografica e umana. Nella stessa poesia, come in Nancy, la riva e la rovina rivaleggiano: “distruggeranno Roma/ e sulle sue rovine/ deporranno il germe/ della Storia Antica”, quella storia fatta di emigrazione come fenomeno demografico, di popoli come fondamento ontologico e antropologico umano.
Alcuni artisti contemporanei azzardano a esprimersi su e con questo tema, spesso nell’astrazione dei ricordi o in allegoriche critiche all’ipercapitalismo che sancisce la geografia umana e i suoi movimenti. Francis Alÿs (1959, Antwerp) realizza catene umane con cui superare confini naturali e artificiali, rendendo visibile solo i colori e la tangibilità dei corpi e con essi la natura umana. Con When faith moves mountain (2002) realizza un’allegoria sociale, basata sul principio di massimo sforzo e minimo risultato, che vede 500 volontari realizzare una duna di sabbia nella periferia di Lima, esercizio di scultura legato a un contesto sociopolitico, nel quale suggerisce una possibilità di cambiamento. Il lavoro di Francis Alÿs si basa su un’articolazione di premesse che si augura di realizzare. E’ riluttante all’idea di portare un lavoro a una sua definitiva conclusione. Il nucleo del suo lavoro è nelle prove, un processo molto lungo, che si dipana in video, foto, appunti scritti e dialoghi con le persone. Questo nelle sue performance crea l’interrogativo se sia possibile proporre quello che ha creato in America Latina anche in Europa o negli Stati Uniti, come può funzionare? The leak (1994), per esempio, è una performance che vede l’artista impegnato nella semplice azione del camminare mentre porta con un sé un barattolo di pittura perforato che lascia la sua traccia blu nelle strade brasiliane di San Paolo. Dieci anni dopo, nel 2004, ripropone la stessa performance ma in un contesto diverso, a Gerusalemme, percorrendo il tracciato della cosiddetta linea verde che ha diviso la città pre- 1967 tra est e ovest e utilizzando questa volta come colore che fuoriesce dal barattolo il verde, colore utilizzato inizialmente nel 1948 da Moshe Dayan per disegnare la linea sulla mappa di Gerusalemme. E’ chiaro che Qualcosa di poetico può diventare qualcosa di politico e qualcosa di politico può diventare qualcosa di poetico, titolo utilizzato in seguito dall’artista, il quale prende coscienza della gigantesca ambiguità della metafora poetica. Nel 2008 Francis Alÿs realizza un’altra allegoria umana: Don’t Cross the Bridge Before You Get to the River. La performance coinvolge lo stretto di Gibilterra che separa l’Europa dall’Africa e attraverso catene di bambini e di oggetti genera nell’orizzonte un ponte che connette i due continenti, attraverso una catena umana dal Marocco e una dalla Spagna e svelando, in questo modo, le contraddizioni dei nostri tempi, le decisioni globali e politiche non possono costringere il flusso di persone.
Adrian Paci (1969, Scutari) si misura con poesia su questioni come la migrazione, l’essere straniero, i movimenti umani e i movimenti di merci intercontinentali; come per Alÿs la poesia spesso tocca il sociopolitico e anche in questo caso attraverso opere che si misurano con gesti e rituali pienamente umani, capaci di superare l’artificiosità del contemporaneo. Nei lavori di entrambi gli artisti i bambini sono spesso protagonisti, metafora della spontaneità contro le costruzioni sociali, per creare “real game”. Entrambi gli artisti maturano la loro pratica a partire da uno spostamento geografico, l’artista belga in Messico, dove vive da tempo, e Paci dall’Albania all’Italia. Dall’immagine metaforica di Home to go (2001), dove il corpo dell’artista nudo porta sulla sua spalla un tetto piastrellato di ceramica chiaro simbolo di dislocazione, a The Encounter (2011), realizzato in Sicilia, dove centinaia di persone si incontrano allineate solo per stringere la mano dell’artista, in un contatto simbolico e reale insieme. Nel 2013 realizza il video The Column, il quale racconta le peregrinazioni di un blocco di marmo, che per farsi tale- colonna, viene estratto in Cina, poi lavorato sulla nave durante il suo viaggio verso la sua destinazione. In Albanian Stories la figlia di tre anni racconta in forma di fiaba, in allegorie di animali e personaggi fittizi, le vicende militari e le forze internazionali relative agli ultimi anni dell’Albania.
Apollinaire ha scritto: “Rotaie che incatenate le nazioni/non siamo che due o tre uomini/liberi da ogni legame/diamoci la mano […] Corde/ Corde tessute/Torri di babele in ponti mutate (Apollinaire, da Calligrammi, LEGAMI). Queste parole ricordano le opere di Alÿs, le torri di babele dello Stretto di Gibilterra sono mutate in ponti; Apollinaire evoca anche le rotaie, i treni sono luoghi di transito, di perdita e le parole di Apollinaire ci ricordano come nel contesto attuale si finisce col maneggiare il nostro PC seduti su un treno, mentre affianco, un immigrato è interrogato dai controlli della polizia. Negli ultimi mesi Lampedusa non sembra così lontana da Monaco. Molti immigrati giungono in Italia e utilizzano i treni per giungere in Germania, in Svezia o in altri paesi europei.
Forse ciò che Pasolini chiamava salvezza e libertà avviene nella venuta del mondo dei corpi.
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Immagine home: Francis Alys, When faith moves mountain
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1 P. P. PASOLINI, Scritti Corsari, Garzanti Editore, 1975.
2 Ibidem.
3 J. -L. NANCY, Corpus, Cronopio, Napoli, 2014.
4 J.-L. NANCY, J.L. NANCY, Rive, Bordi, limiti (della singolarità), cit. p. 128.
5 Ibidem.
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Sonia D’Alto, classe 1990, è studentessa del corso magistrale di Storia dell’Arte presso la Federico II di Napoli, laureanda con una tesi di estetica sulla performance live e quella mediata. Durante il mio percorso universitario ho integrato due soggiorni all’estero, il primo tre anni fa in Portogallo, e l’ultimo qualche mese fa a Vienna, dove ho aggiunto ai miei studi teorici anche la partecipazione al corso di Performance Art presso l’Accademia di Belle Arti di Vienna e la mia partecipazione a due mostre. Ho preso parte nel 2014 alla Scuola Conia, due settimane intense di studio e analisi sul problema della rappresentazione artistica organizzate da Claudia Castellucci, in Emilia Romagna, e volte a un ciclo di più anni da proseguire in periodo estivo. Sono stata tirocinante presso istituzioni e gallerie artistiche (Fondazione Morra; Galleria Alfonso Artiaco). Scrivo saltuariamente articoli di report su mostre per il giornale Artribune.
[Sono interessata alle belle arti come luogo di ricerca personale e universale, nell’autentico e l’inautentico, come necessità insufficiente che pure avviene, una scelta tra i numerosi filtri afferenti alla realtà].