L’imminente fine di questo mondo offre agli abitanti della modernità occidentalizzata
un’occasione unica per mentire. Per noi che abitiamo oggi dentro questa cosmologia
ormai agli sgoccioli, il compito di imparare a morire bene inizia con un esercizio di
falsificazione. (Campagna, 2023, pp. 101-102)
Con questo concetto, Federico Campagna propone un’idea radicale di riscrittura storica ed esistenziale per affrontare il declino della modernità occidentalizzata e favorire la nascita di nuove cosmogonie. La “narrazione metafisica” che sostiene l’idea contemporanea di mondo, costituita dall’insieme di valori, credenze e strutture ontologiche che hanno definito la nostra civiltà, ha raggiunto, secondo il filosofo, un punto critico di saturazione. Per immaginare nuovi mondi possibili, Campagna suggerisce di abbandonare questa narrazione dominante in favore di un “falso storico”, ossia una versione redenta del passato che non si fonda sulla fedeltà ai fatti storici, ma sulla capacità di generare nuove possibilità esistenziali.
Questa proposta si configura come un esercizio creativo che il filosofo definisce “fiction esistenziale”, un atto intenzionale e immaginativo che riscrive la cornice metafisica della realtà per creare un passato alternativo capace di nutrire nuovi futuri. In questa “epica metafisica”, il passato non è più concepito come un peso inamovibile, ma come terreno fertile per nuove narrazioni (Campagna, 2023, p. 102).
Questa visione trova una risonanza nella pratica artistica di Pierre Huyghe, che concepisce la realtà come una materia intrinsecamente malleabile: «Le cose non sono mai immutabili, hanno una loro plasticità, hanno passati possibili. Ciò che è stato, sarebbe potuto essere diversamente» (Huyghe, 2024, p. 3). La ricerca di Huyghe non si limita però a una semplice riscrittura del passato, ma aspira a creare quelli che l’artista definisce «mondi fatti di mondi», dove la finzione diventa «uno strumento di decentramento» che permette di «esperire ciò che potrebbe essere ma anche ciò che non potrebbe essere» (Ivi). Per l’artista, questo processo di worlding si manifesta attraverso la creazione di quello che definisce “ambiente-entità”: spazi liminali dove «il soggetto e l’ambiente sono indissociabili» e dove emerge una forma di soggettività post-umana che l’artista, riferendosi al pensiero di Lyotard, definisce come «inumana» (Huyghe, 2024, p. 10). Questa dimensione inumana rappresenta ciò che esiste «prima dell’umanizzazione dell’essere», una condizione pre-categoriale che si manifesta sia nell’intelligenza artificiale sia nelle forme più primitive di vita. La pratica di Huyghe può, quindi, essere interpretata come un radicale esercizio di falsificazione che trascende la proposta di Campagna: non si tratta solo di creare “finzioni esistenziali” alternative, ma di generare veri e propri ecosistemi speculativi dove diverse forme di agency – biologiche, tecnologiche, climatiche – interagiscono, generando proprie logiche temporali ed ecologiche. L’artista stesso, infatti, afferma: «In questa situazione finita c’è un infinito in cui le cose circolano, si spostano, è difficile delimitarle, ci si può smarrire e si può perderne il controllo» (Huyghe, 2024, p. 9). Questa visione implica la riconsiderazione del ruolo dell’artista e della natura stessa dell’opera d’arte. Huyghe, pertanto, abbandona la produzione tradizionale di oggetti artistici in favore della generazione di milieu [1], termine che nella sua pratica assume una valenza concettuale fondamentale, diventando un dispositivo generatore di realtà alternative, dove l’imprevedibilità e l’indeterminazione non rappresentano effetti secondari, ma elementi costitutivi del processo creativo stesso. In questo senso, le installazioni di Huyghe funzionano come laboratori speculativi che non si limitano a rappresentare possibilità alternative, ma le generano attivamente attraverso l’interazione tra diverse forme di intelligenza e sensibilità.
Pierre Huyghe, veduta installazione Untilled, presso documenta 13, Kassel, Germania, 2012 (Courtesy documenta archiv / Foto: Ryszard Kasiewicz).
L’opera Untilled (2012), presentata a Documenta 13, offre un esempio paradigmatico di arte come ecosistema vivente, capace di trascendere le categorie tradizionali dell’arte site-specific. Questo approccio riflette una trasformazione nelle pratiche artistiche contemporanee che Miwon Kwon, nel suo libro Un luogo dopo l’altro. Arte site-specific e identità localizzativa (2020), descrive come un passaggio dal modello tradizionale, basato sull’attivazione di un luogo fisico tramite l’intervento artistico, a una dimensione discorsiva, fluida e relazionale, che implica un’interazione dinamica tra elementi umani e non umani, temporalità eterogenee e materialità molteplici, e che riconfigura il ruolo dell’opera d’arte e del suo contesto. Infatti, la scelta di collocare l’opera nella zona periferica del Karlsaue Park a Kassel, e specificamente nel compost, rivela una profonda comprensione del potenziale trasformativo degli spazi marginali: «Il luogo è chiuso. Elementi e spazi di epoche diverse nella storia si trovano uno accanto all’altro, senza un ordine cronologico né segni di origine. Ciò che è presente sono adattamenti fisici di documenti fittizi e reali, oppure oggetti già esistenti. Nel compost del parco Karlsaue, artefatti, elementi inanimati e organismi viventi… piante, animali, umani, batteri, sono lasciati senza cultura» (Huyghe, 2012, p. 262; traduzione mia).
In questo contesto, la materialità del sito si manifesta attraverso una stratificazione complessa: lastre di cemento emergono dalla terra, mentre cumuli di ciottoli e frammenti di asfalto testimoniano una storia di interventi umani. Il terreno stesso diventa una superficie di registrazione, dove i solchi profondi lasciati da un trattore si intrecciano con le impronte dei visitatori e dei lavoratori, creando una topografia che documenta l’interazione tra actores umani e non umani. Come afferma l’artista, «il compost è un luogo dove le cose si trasformano, cambiano, è un luogo dove le cose sono disorganizzate. È il retro del parco» (Huyghe, 2022; traduzione mia).
Questa visione si inserisce in una più ampia riflessione teorica sulla deterritorializzazione, sviluppata da Gilles Deleuze e Félix Guattari in Mille piani: Capitalismo e Schizofrenia (2003). Secondo i due filosofi, la deterritorializzazione è un processo fluido che dissolve le rigidità del centro per generare nuove periferie, introducendo possibilità trasformative: «Dal livello centrale alla periferia, poi dal nuovo centro alla nuova periferia, passano onde nomadi o flussi di deterritorializzazione che ricadono sull’antico centro e si lanciano verso il nuovo» (Deleuze, Guattari, 2003, p. 99). Kwon, riflettendo su questo concetto nel contesto dell’arte contemporanea, sottolinea che «la deterritorializzazione del sito ha prodotto effetti liberatori, sostituendo alle rigidità delle identità legate al luogo la fluidità di un modello migratorio, introducendo possibilità per la produzione di molteplici identità, appartenenze e significati, basati non su conformità normative ma sulle convergenze non razionali forgiate da incontri e circostanze casuali. La fluidità della soggettività, dell’identità e della spazialità descritta dal nomadismo rizomatico di Deleuze e Guattari è uno strumento teorico capace di smantellare le ortodossie tradizionali che vorrebbero sopprimere, talvolta in modo violento, le differenze» (Kwon, 2020, p. 207).
Tuttavia, l’autrice mette in luce una tensione intrinseca: se da un lato la deterritorializzazione rappresenta un’opportunità emancipatoria, dall’altro evidenzia il persistente attaccamento psichico e abituale ai luoghi fisici. Questa nostalgia non è una semplice regressione, ma una risposta complessa alle frammentazioni del mondo contemporaneo. La memoria e il desiderio dei luoghi reali continuano a modellare il senso di identità, dimostrando le sfide emotive e politiche della deterritorializzazione.
Al centro dell’installazione si trova una scultura in cemento di un nudo femminile reclinato, la cui testa è parzialmente racchiusa in un alveare vivo; il che crea un’interazione tra elementi artificiali e naturali, destabilizzando le tradizionali concezioni del corpo, del materiale e dell’organico (Huyghe, 2012). L’incessante attività dell’alveare trasforma il corpo statico della scultura in quello che Deleuze e Guattari definiscono corpo senza organi (CsO): non più un corpo definito dalla sua organizzazione organica tradizionale, ma un piano di consistenza dove flussi, intensità e affetti si distribuiscono liberamente, indipendentemente dalla forma dell’organismo. Il CsO, nelle parole dei filosofi, rappresenta «un corpo vivente, tanto vivente, tanto formicolante da aver fatto saltare l’organismo e la sua organizzazione» (Deleuze, Guattari, 2003, p. 71).
Intorno alla scultura, l’artista ha disposto una varietà di piante medicinali, afrodisiache e psicoattive, scelte specificamente per i loro effetti sul corpo umano, creando un giardino che è simultaneamente reale e allucinatorio. L’alveare e il giardino insieme incarnano un esempio paradigmatico di ciò che Deleuze e Guattari descrivono come rizoma, una struttura aperta e non gerarchica che supera le dicotomie tradizionali, come quella tra naturale e artificiale o soggetto e oggetto. Questo concetto viene illustrato dagli autori attraverso l’immagine della vespa e dell’orchidea, che esemplifica come due entità apparentemente separate possano formare un assemblaggio [2] in cui le loro identità si deterritorializzano, cioè si spostano dai propri confini abituali, per generare una nuova relazione co-creativa: «L’orchidea si deterritorializza formando un’immagine, un calco di vespa» (Deleuze, Guattari, 2003, p. 43) mentre quest’ultima si riterritorializza sull’immagine prodotta dall’orchidea, diventando parte del suo apparato riproduttivo; allo stesso tempo, la vespa si deterritorializza nel suo ruolo di impollinatrice, trasportando il polline dell’orchidea e contribuendo alla sua riproduzione. Non si tratta, dunque, di imitazione o somiglianza, ma di un divenire reciproco: un processo dinamico in cui ogni elemento si trasforma nell’incontro con l’altro, producendo nuove configurazioni e possibilità di esistenza. Questo scambio continuo genera un ecosistema fluido e interconnesso che esemplifica il principio rizomatico, dove le relazioni non seguono una linearità genealogica, ma operano attraverso connessioni trasversali e imprevedibili. L’opera stessa, con il suo giardino e il suo alveare, non rappresenta una semplice somma di parti, ma un processo di co-evoluzione in cui ogni elemento – umano, vegetale o animale – partecipa a una rete di trasformazioni che sfida le categorizzazioni rigide e statiche, aprendo a nuove modalità di esperienza e interazione [3].
Tra altri elementi significativi dell’installazione emerge la presenza enigmatica di un cane podenco ibicenco albino, chiamato Human, caratterizzato da una gamba anteriore dipinta di rosa. La figura di questo animale stabilisce un intrigante collegamento con il dio egizio Anubi [4], creando un intreccio concettuale dove diverse temporalità si sovrappongono in un dialogo tra presente e passato mitologico. Huyghe stesso stabilisce una connessione evolutiva diretta tra il podenco ibicenco e lo sciacallo del deserto, affermando: «Sì, Anubi è associato alla morte e all’imbalsamazione. Gli sciacalli vivevano nel deserto ed erano noti per aggirarsi intorno ai siti funerari, diventando così un simbolo di morte. La scultura di Anubi rappresenta essa stessa una soglia, non un oggetto fisso ma uno transitorio, un passeur nel presente, situato tra presenza e assenza» (Wagstaff, 2015, p. 27). Questa concezione del cane come passeur suggerisce una comprensione profonda del ruolo di Anubi nella mitologia egizia come psicopompo (figura mitologica o simbolica che ha il ruolo di guidare le anime dei morti nell’aldilà). Tale concetto artistico si allinea con la nozione di atemporalità sviluppata da Federico Campagna, che la descrive come il ritmo di un processo di worlding, ovvero la creazione di mondi che supera il tempo lineare per abbracciare una pluralità di dimensioni temporali, affermando che «il tempo non si presenta più come qualcosa di reale o di irreale, ma piuttosto come un processo che è al contempo completamente fittizio e autentico» (Campagna, 2023, p. 30.). Da ciò emerge una temporalità alternativa, nutrita da passati perduti e futuri immaginati, che sfida le rigidità del tempo cronologico aprendo nuovi spazi di significato e possibilità. In questo contesto, il riferimento ad Anubi può essere interpretato come manifestazione simbolica di una temporalità complessa e stratificata, che riconfigura la relazione tra passato, presente e futuro come momenti simultanei di un processo di significazione continua.
Il percorso artistico di Pierre Huyghe negli anni successivi rivela una significativa trasformazione nel suo approccio verso le tecnologie avanzate. Come osserva il filosofo e antropologo Tobias Rees: «Se il punto di partenza di Untilled era la natura, quello di After ALife Ahead è la tecnologia» (Rees, 2024, p. 268). L’artista transita così da un sistema aperto, dove gli elementi naturali si autoregolano, verso un altro in cui le condizioni ambientali, la crescita degli organismi e le trasformazioni dello spazio vengono orchestrate attraverso sistemi digitali di automazione. Presentata durante il Skulptur Projekte Münster nel 2017 in un’ex-pista di pattinaggio, After ALife Ahead comporta una radicale trasformazione dello spazio attraverso interventi bio-tecnologici e architettonici (Fig. 1). Huyghe crea un terreno stratificato che rivela materiali come cemento, argilla, detriti e sabbia dell’era glaciale, stabilendo un dialogo tra tempi geologici e interventi antropici. Anche in quest’opera lo spazio non si configura come mero palcoscenico, ma come habitat per organismi viventi – alghe, batteri, alveari e pavoni chimera – integrato con sensori che monitorano la crescita di cellule cancerogene e influenzano l’apertura di pannelli nel soffitto, incorporando anche elementi di realtà aumentata. Queste entità, oscillanti tra reale e simbolico, evidenziano la precarietà e la transitorietà della simbiosi creata dall’artista. Rees definisce questo progetto come un “ecosistema autonomo”, un frammento vivente che supera le distinzioni convenzionali tra organismi e macchine, natura e tecnologia, virtuale e reale. Il critico d’arte André Rottmann amplia questa prospettiva, identificando un passaggio verso sistemi governati dalle regole della ricorsività e della loro implementazione fisica e tecnologica. Un aspetto centrale nella sua analisi è come l’opera trascenda la dicotomia tra medium e sito teorizzata da Rosalind Krauss in Voyage on the North Sea: Art in the Age of the Post-medium Condition (1999). Come afferma Rottmann: «In agencements come quelli di Huyghe, medium e sito non formano opposti. Piuttosto, entrambi si trovano nel processo di essere ‘ecologizzati’ – dissolti in ambienti reticolari che comprendono stati e forme d’azione tecnologici e biologici, umani e non umani» (Rottmann, 2019, p. 93; traduzione mia). Questa interpretazione segna un significativo allontanamento dalla teoria di Krauss sulla specificità del medium: se Krauss aveva teorizzato una distinzione fondamentale tra medium e sito nell’arte post-moderna, Rottmann evidenzia come il lavoro di Huyghe dissolva questa separazione attraverso la creazione di ecosistemi ibridi dove tecnologia e biologia, umano e non-umano coesistono in un sistema integrato e autopoietico.
Сon Variants (2021-in corso), Huyghe compie un ulteriore passo, radicalizzando questa prospettiva: se in After ALife Ahead l’ecologizzazione avveniva ancora all’interno di uno spazio fisico definito, in Variants si realizza una completa dissoluzione dei confini tra reale e virtuale, tra sito fisico e spazio simulato. L’opera si configura come un’entità «multipolare» (Huyghe, 2024, p. 411) dove un’isola reale e la sua simulazione digitale coesistono e si influenzano reciprocamente in un continuo processo di trasformazione. Come afferma l’artista stesso: «Ho due milieu. Uno è digitale, costituito da una rete neurale che genera mutazioni degli elementi esistenti sull’isola. […] Simultaneamente, c’è il milieu fisico» (Huyghe, 2022; traduzione mia). Installata presso il Kistefos Museum in Norvegia, l’opera si sviluppa su un’isola periodicamente sommersa dalle acque di una diga sovrastante. Questa condizione di inaccessibilità periodica diventa parte integrante dell’opera, evidenziando uno dei principi fondamentali della pratica di Huyghe: la creazione di sistemi che mantengono la propria autonomia operativa indipendentemente dalla presenza o dall’osservazione umana. L’opera trascende così il tradizionale rapporto tra arte e spettatore, configurandosi come un’entità autosufficiente che continua a evolversi anche quando l’accesso fisico è precluso, manifestando quella che l’artista definisce come l’agency autonoma del milieu (Huyghe, 2024, p. 411; Huyghe, 2022).
Il processo della creazione di Variants inizia con una scansione tridimensionale esaustiva dell’isola che, come descrive l’artista, non si limita a una semplice mappatura topografica: «Ho scansionato l’intera isola… Ogni dettaglio, la pietra, il pezzo di legno, gli alberi, gli umani che erano lì durante la registrazione, alcuni rifiuti della vecchia fabbrica di cellulosa, alcune parti di macchine metalliche, barche, qualsiasi cosa si possa immaginare» (Huyghe, 2022; traduzione mia). Tale mappatura, creando un archivio tridimensionale che cattura non solo la morfologia fisica del sito, ma anche la sua stratificazione storica e materiale, serve come substrato per la generazione di un ambiente simulato attraverso l’implementazione di reti neurali e software di intelligenza artificiale. Gli elementi scansionati subiscono un processo di elaborazione algoritmica che genera mutazioni, successivamente materializzate nell’ambiente fisico dell’isola. La storica dell’arte Amelia Barikin descrive una serie di elementi inquietanti che il visitatore incontra durante l’esplorazione dell’isola: formazioni metalliche che sembrano emergere dal terreno come strani reperti archeologici del futuro, alveari rosa brillante appesi ai rami che introducono un elemento di artificialità straniante nel paesaggio naturale, funghi in silicone trasparente incastonati nei tronchi che creano un’inquietante fusione tra organico e sintetico (Figg. 2, 3) (Barikin, 2022-2023).
Al termine del percorso espositivo si trova un grande schermo che, attraverso immagini spettrali dominate da toni verdi, neri e bagliori rosa, rivela l’isola scansionata (Figg. 4, 5). Tuttavia, questo dispositivo non si limita a mostrare una registrazione statica dell’ambiente, ma funziona come un’interfaccia “viva” che genera una continua rinegoziazione tra reale e virtuale. L’apparizione occasionale di un corpo umano – forse morto, forse addormentato – privo di corrispettivo fisico sull’isola, evidenzia come questa visione non sia una semplice rappresentazione, ma una costruzione autonoma di realtà alternative. La peculiarità di questo sistema risiede nella sua natura dinamica: una rete di sensori mimetizzati sull’isola monitora costantemente l’attività biochimica e climatica – temperatura, luce, umidità, livelli dell’acqua – alimentando in tempo reale la simulazione (Fig. 6, 7). Questi dati non solo influenzano ciò che la “telecamera” osserva e come lo fa, ma determinano anche l’evoluzione delle mutazioni all’interno del sistema stesso. In questo senso, l’opera non rappresenta una semplice fusione tra realtà e finzione, ma piuttosto un confronto della realtà con se stessa, dove la programmazione non è meno fittizia dell’isola, e l’isola non è più reale della simulazione. A differenza di lavori precedenti come A Journey That Wasn’t (2005) o The Host and the Cloud, (2009-2010), dove ancora persisteva una separazione tra evento e rappresentazione allo schermo, qui i due elementi si fondono in un unico ecosistema virale. Come afferma l’artista: «Volevo che il reale ospitasse una possibilità di sé» (Barikin, 2022-2023, p. n.b.; traduzione mia).
Analizzando l’opera attraverso la teoria post-medium di Krauss, emerge come Variants trascenda radicalmente le categorie tradizionali di specificità mediale, proponendo un nuovo paradigma artistico. Se Krauss teorizzava la dispersione del medium in una molteplicità di luoghi specifici (Krauss, 1999, p. 53), Variants introduce una temporalità non lineare che supera questa concezione, trasformando la perdita della specificità mediale in potenziale generativo attraverso un sistema autopoietico che evolve indipendentemente dalle logiche di mercato e dall’intervento umano. L’opera ci induce, inoltre, ad una riformulazione del concetto di worlding proposto da Campagna, ossia non più come un atto puramente umano di riscrittura storica (falso storico), ma come un processo emergente dall’interazione tra diverse forme di intelligenza e sistemi di generazione di realtà. Huyghe sviluppa quello che potremmo definire un “falso algoritmico”, ovvero un sistema dove le mutazioni emergono autonomamente dall’interazione tra intelligenza artificiale, sensori ambientali e processi naturali. L’obiettivo, come sottolinea l’artista, è trovare modi per non controllare il risultato, decentrando l’intenzionalità umana in favore di un processo di co-evoluzione tra milieu fisico e digitale. In altre parole, non si tratta più di costruire mondi attraverso la narrazione umana, ma di permettere l’emergere di mondi possibili attraverso l’interazione autonoma tra agenti umani, non umani e artificiali. Questa prospettiva invita a riconsiderare i fondamenti teorici dell’autorialità e dell’intenzionalità, suggerendo la necessità di sviluppare nuovi strumenti critici per comprendere opere che operano al di là delle tradizionali concezioni di narrazione e agency. Variants dimostra come l’arte possa non solo rappresentare il mondo, ma diventare un mezzo per esplorare la co-creazione di mondi alternativi, rendendo tangibile una visione post-antropocentrica e post-intenzionale del reale.
Note
[1] Il termine milieu affonda le sue radici negli studi biologici e filosofici del XIX secolo sulla relazione tra organismi e habitat. Reso celebre da pensatori come Georges Canguilhem e Auguste Comte, e successivamente sviluppato in biologia da Claude Bernard, il concetto assume particolare rilevanza nell’opera di Canguilhem, che lo utilizza per evidenziare la relazione dinamica tra organismo e ambiente, rifiutando una visione riduzionista dell’organismo come entità isolata. Pierre Huyghe riprende e reinterpreta questo concetto, trasformandolo in un dispositivo artistico che supera le dicotomie tra natura e cultura, umano e non umano. Nelle sue opere, il milieu è un ecosistema attivo in cui elementi viventi e artificiali coesistono in relazioni fluide e imprevedibili (Cfr. Vennen, 2018; Wessely, 2019).
[2] Per approfondire si veda anche DeLanda, 2006
[3] Questo concetto trova ulteriore evoluzione in Colony Collapse (2012), presentata nell’arena di Arles poco dopo l’apertura della Documenta 13 in cui un performer umano cammina lentamente attraverso un paesaggio sabbioso, con una regina d’api posta sul capo. Come osserva Ursula Ströbele, questa performance richiama il lavoro precedente di Mark Thompson, Live-In Hive (1976) e le opere di Timm Ulrichs ed Eileen Hutton, che hanno utilizzato le api come medium artistico. Huyghe porta la sua pratica artistica in una nuova direzione concettuale, incarnando il concetto di relazione simbiotica e di co-esistenza multispecie ed esplorando la connessione tra materiale e organico, statico e vivente (Ströbele, 2024, p. 321).
[4] Anubi, una delle principali divinità egizie associate all’aldilà, è rappresentato come un dio dalla testa di sciacallo o completamente sotto forma di sciacallo. Era strettamente legato ai riti funerari e alla mummificazione, agendo come protettore dei morti e guida nel viaggio nell’aldilà (Taylor, 2000, si veda anche: Teeter, 2011). Una rappresentazione iconica di Anubi è il Recumbent Anubis del Periodo Tardo–Periodo Tolemaico (664–30 a.C.), conservata al Metropolitan Museum of Art di New York. Durante il progetto per il Roof Garden Commission, Pierre Huyghe ha considerato di includere una riproduzione in scala basata su una scansione di questa scultura, esplorandone il simbolismo e il significato (Alteveer et al., 2015, p. 18).
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Elmira Sharipova è dottoranda in Storia dell’arte contemporanea presso il Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna. La sua ricerca si concentra sulla critica dell’Antropocene nelle pratiche artistiche degli ultimi due decenni, con particolare attenzione alle intersezioni tra arte contemporanea e filosofia. Nel suo lavoro indaga l’applicazione di paradigmi teorici quali l’Actor-Network Theory di Bruno Latour, l’Object-Oriented Ontology di Graham Harman e il Realismo agenziale di Karen Barad, esplorando come i concetti del Postumanesimo e del Neomaterialismo informino le pratiche artistiche contemporanee.