«Questa questione non sarà mai determinabile come questione politica tra altre. Essa attraversa infatti la totalità del campo e, in verità, determina interamente il politico come res publica. Nessun potere politico senza il controllo dell’archivio, se non della memoria. La democratizzazione effettiva si misura sempre con questo criterio essenziale: la partecipazione e l’accesso all’archivio, alla sua costituzione e alla sua interpretazione»
(Derrida, 1995)
Così Derrida, durante un simposio a Londra nel giugno del ’94, definisce l’archivio e la sua intuizione come strumento potentissimo di controllo della memoria. È ancora oggi una delle tesi più affermate. Ora, occorre fare un passo indietro per capire perché un piccolo archivio come quello dell’Ente di Sviluppo Agricolo (d’ora in poi ESA) è così oggetto dell’attenzione da parte di studiosi di diverse provenienze disciplinari e geografiche.
Nelle prime culture dell’antico Oriente, attraverso la scrittura si fissavano appunti contabili e amministrativi; più avanti in Egitto si instaurò un complesso metodo per controllare e gestire la distribuzione delle ricchezze; una sorta di primordiale archivio amministrativo ed economico. Già gli egizi avevano capito che attraverso la scrittura era possibile fissare la proprietà e la discendenza, pertanto l’archivio nasce prima come strumento per fissare una memoria del potere e solo dopo per preservare una memoria storica.
Quello dell’ESA, proprio come quello egizio, è fondamentalmente un archivio amministrativo, ma non solo. All’interno dei suoi impolverati e sgualciti faldoni racconta, fin dalla sua nascita, le vicende di diversi borghi rurali dell’entroterra siciliano; una preziosissima lente d’ingrandimento sulla vita di questi luoghi e dei suoi abitanti. Leggendo alcuni documenti è possibile percepire i ritmi, le dinamiche e le condizioni delle piccole popolazioni rurali ed è possibile respirarne il tempo; tempo inesistente nella visione storica e propagandistica data poi dal regime.
L’archivio storico dell’Ente di Sviluppo Agricolo per la Sicilia è un vasto insieme di documenti, inevitabile cartina di tornasole (Valacchi, 2018) utile a delineare le modifiche che hanno condizionato e definito il volto del paesaggio rurale e plasmato una complessa ed articolata realtà economico-sociale. Le sue “carte” sono in grado di raccontare diverse storie, dal particolare al generale, narrando di uomini e di eventi della storia recente dell’isola.
Un archivio del potere dello Stato, nato nel periodo fascista, sulla base di una politica mirata a “sfollare le città” [1], viste come luoghi di corruzione e di vizio per la massa di diseredati (Testa, 2015), possibile bomba ad orologeria in cui il proletariato irrequieto avrebbe potuto contestare il potere centrale. Presupposto fondante una visione littoria del “divide et impera” basata sul distanziamento sociale piuttosto che sull’aggregazione.
Tra i documenti prodotti ed oggi recuperati ci sono tracce di quotidianità e di resistenza: come nel caso di quel «proprietario del tenimento Patrìa che non ha la tessera e non è in odore di santità dal punto di vista del Partito» [2] o di richieste basilari dei coloni e degli stessi impiegati dello Stato che lamentavano la mancanza di acqua, di riscaldamento, di luce negli edifici dei borghi e nelle case in cui si trovavano a vivere la “nuova vita” proposta dal Regime.
Con l’avvio dell’“Assalto al Latifondo Siciliano” (luglio 1939) [3], azione di propaganda volta piuttosto a instaurare nuovi equilibri di potere che a promuovere il reale riscatto per il mondo contadino, furono raccolti i primi documenti attestanti le relazioni tra il Ministero dell’Agricoltura e Foreste, retto da Giuseppe Tassinari, e l’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano (d’ora in poi ECLS), creato ad hoc secondo l’Art.4 della Legge n.1 del 2 gennaio 1940. La grandiosa opera di bonifica e suddivisioni dei latifondi che prevedeva lo stanziamento di 1 miliardo di lire fu ostinatamente perpetuata in epoca repubblicana, attraverso l’Ente di Riforma Agraria (ERAS), da cui oggi deriva l’ESA, rivelandosi però favorevole a pochi e anacronistica in un momento in cui si intravedeva una modernizzazione incalzante e un “boom economico” dilagante.
Nel corso degli anni, l’archivio ha raccolto non solo documenti amministrativi ma anche appunti e/o dattiloscritti, nonché disegni di architetti come Edoardo Caracciolo, Luigi Epifanio, Giuseppe Spatrisano, Pietro Ajroldi, Giuseppe Caronia, che hanno influenzato il modo di intendere l’architettura del Novecento. Nonostante questo immenso valore, l’incuria e la mancanza di consapevolezza hanno relegato questo voluminoso corpus nell’oblio memoriale di alcune stanze in un minuscolo borgo rurale tra i territori di Prizzi e Corleone.
Il 22 marzo 1988, una relazione del Dr. Angelo Pitrolo prendeva in esame le condizioni dei diversi borghi siciliani e tra questi veniva menzionato anche Borgo Portella della Croce. In particolare, si poneva l’accento sulla Caserma dei Carabinieri utilizzata dall’ESA come archivio di vecchie pratiche e come deposito per materiali fuori uso provenienti dalle diverse sedi dell’Ente.
La casualità volle che grazie ad una denuncia dell’11 maggio 1995 faldoni e carte ritornassero all’attenzione dell’Ente. Nell’esposto si dichiarava che «ignoti perpetravano all’interno della palazzina sita in loc. Portella della Croce [4], agro del Comune di Prizzi, di proprietà dell’ESA attraverso una porta metallica priva di serratura, asportando il materiale sopra descritto [alcuni scaffali, n.d.r.] e su cui erano disposti alcuni faldoni della società ente ESA».
Circa un anno dopo, il 21 maggio 1996, l’Ente propone il recupero dei vari documenti rimasti «sia perché urge procedere com’è noto alla consegna definitiva dei locali del Borgo al Comune di Prizzi, in aderenza alle leggi vigenti [5], sia perché esso rappresenta la memoria storica e culturale dell’Ente».
Ad occuparsene furono nel 2003 due funzionari dell’Ente, il Dott. Leone e la Sig.ra Fusco, coadiuvati dall’ex custode Iurato, per incarico ricevuto dal Capo Servizio R.A. Dott. Mastrilli. Nella relazione si legge che i tre incaricati “si sono recati nel Borgo ‘Portella della Croce’ agro di Prizzi” per prelevare i faldoni che “giacciono in sofferenza”; si continua dando un ritratto impietoso delle condizioni in cui furono conservati gli atti: «L’accesso ai locali del piano terra è stato difficile perché la porta d’ingresso era ostruita da materiale cartaceo, carpettoni semi aperti, sparsi dappertutto, tanto da coprire interamente il pavimento. Il tutto era ricoperto totalmente da escrementi di volatili e animali diversi, giacché le finestre divelte e i vetri rotti, hanno permesso un ritrovo ideale per la loro dimora. Meno drammatico si presentava lo scenario del piano superiore, perché la maggior parte delle pratiche era sistemata nelle scaffalature metalliche. Da un sommario esame di distingueva una copiosa documentazione inerente ai vari servizi dell’Ente, specialmente: Servizio Riforma Agraria – Servizio Bonifica – Servizio Espropriazioni – Ricerche Idriche, nonché documenti vari riguardanti il Servizio Personale […].
Per quanto sopra esposto, a parere dei sottoscritti, si ritiene opportuno provvedere con la massima urgenza, al trasloco dell’archivio in altro luogo più idoneo […].
Infine gli scriventi, per una doverosa sensibilità derivante anche dal fatto di prestare la loro opera presso questo Ente di Sviluppo Agricolo, da diversi decenni, ritengono di dover sottolineare l’effettivo stato di abbandono in cui giacciono le pratiche, che dovrebbero avere ben altra collocazione sia per il decoro dell’Ente, sia perché rappresentano la preziosa documentazione degli interventi, operati dal legislatore nel tempo, per lo sviluppo sociale della Sicilia».
In un articolo del 28 maggio 2003 [6], comparso sulle colonne del “Giornale di Sicilia”, Cosimo Gioia — allora Commissario Straordinario dell’ESA — raccontava come l’archivio storico avesse un grande valore, riconosciuto anche da studiosi stranieri, che avrebbe permesso di delineare “l’attività di bonifica delle aree rurali siciliane, la progettazione e la costruzione di case coloniche e borghi rurali”.
Nonostante le parole di Gioia, all’atto pratico la situazione rimase sostanzialmente invariata, tanto da sembrare «piuttosto un insieme disordinato di carte impolverate distribuite negli scaffali che erano rimasti in loco dopo i furti all’interno degli edifici del borgo, o costituenti il pavimento cartaceo di due stanze, in cui i documenti raggiungevano un’altezza di circa cinquanta centimetri; il tutto fortunosamente protetto dal macero a cui sembrano votati secondo norma tutte le pratiche amministrative risalenti a più di 30 anni fa. Macero che alcuni enti in realtà non effettuano affatto votando le carte al deperimento naturale in depositi abbandonati» (La China, 2008).
Ad occuparsi della prima inventariazione fu la Sovrintendenza Archivistica della Regione Siciliana. Per favorire l’intervento di recupero, gli operai addetti alla manutenzione del Borgo provvidero alla pulizia e al condizionamento della documentazione in buono stato di conservazione e al trasporto negli attuali locali di Prizzi, dove oltre 3500 pezzi hanno trovato ricovero tra buste nuove, buste riutilizzate e buste integre. Il compito della Sovrintendenza fu certamente arduo e difficoltoso scontrandosi con una delle problematiche più discusse legate all’archivio: il rischio della sua organizzazione e interpretazione. Ci si muoveva in un campo nuovo, in cui l’oggetto del riordino non si conosceva esattamente e la grande mole di materiali rischiava di creare ancor più confusione.
Nonostante ciò, furono prodotte complessivamente 756 unità archivistiche suddivise in una prima sessione di lavoro nel 2006, quando furono organizzate 350 unità relative all’attività dell’Ufficio Borghi e dell’Ufficio Bevai.
L’anno successivo furono 406 le unità inventariate inerenti l’attività dell’Ufficio Borghi, dell’Ufficio Bevai e dell’Ufficio Statistiche. A questo, va aggiunta la documentazione sulla costruzione delle strade, delle case coloniche e delle grandi opere come dighe, invasi e laghetti collinari.
I lavori di schedatura dei fascicoli principali e dei sotto-fascicoli ha permesso di dare la giusta custodia a relazioni tecniche — che descrivono motivazioni e tipo di interventi, fornendo precise descrizioni dei siti (Adagio, Bombaci, 2007) — corografie, planimetrie, prospetti e sezioni dei fabbricati (talvolta a matite colorate o acquerelli), profili longitudinali e sezioni trasversali delle strade, disegni delle opere d’arte, computi metrici estimativi delle opere o dei movimenti terra, analisi ed elenchi prezzi, stima dei lavori, piani particellari, espropriazioni, elenchi delle ditte, capitolati speciali d’appalto.
Il risultato di questo lavoro è stato organizzato in due inventari principali: “I borghi di Sicilia” (con i relativi servizi) e “I bevai di Sicilia”. Si è tentato di realizzare uno strumento completo, capace di rispondere alle domande del ricercatore che, in questo modo, può agevolmente orientarsi sulla “carta” per poi procedere alla fruizione della documentazione interessata (Adagio-Bombaci, 2007).
Tuttavia, è un “dispositivo” influenzato e prodotto da scelte dettate da diversi fattori: uno di questi è la selezione di quella parte di documentazione che si ritiene meritevole di essere trasmessa alla posterità (Rosiello, 1998). Si generano, a livello di memoria collettiva, inevitabili lacune determinate volontariamente al fine di meglio conservare ciò che si è deciso di tenere (Carassi, 2019). Inoltre, ad affliggere l’archivio storico dell’ESA è quel male diffuso secondo cui le carte d’archivio sono tanto meno importanti quanto più ci si avvicina all’epoca coeva (Rosiello, 1973).
«L’archivio non è però descrivibile nella sua totalità in quanto noi stessi parliamo al suo interno, siamo dentro le sue regole, le sue possibilità. Esso si dà invece per frammenti, per regioni. In questo senso è possibile affermare che esso ci delimita, stabilendo delle soglie di esistenza che via via cambiano, compaiono e scompaiono» (Foucault, 2009). Stando alle affermazioni e alle teorie di Foucault legate al senso di discontinuità, la documentazione raccolta dall’ESA attiva un intersecarsi di elementi che permettono la funzione del “discorso” così come inteso dal filosofo. Non si può prescindere dal custodire il passato, remoto o prossimo che sia, per poter capire gli effetti sul presente e soprattutto, in un paese dalla memoria cortissima, per non ricadere negli errori già commessi.
Pertanto ogni traccia, anche se apparentemente priva di interesse storico, in realtà, in questo tempo, permette attraverso la raccolta di frammenti di avere una visione d’insieme più lucida della storia passata. «Così intesa, la diagnosi non stabilisce la constatazione della nostra identità mediante il meccanismo delle distinzioni. Stabilisce che noi siamo differenza, che la nostra ragione è la differenza dei discorsi, la nostra storia la differenza dei tempi, il nostro io la differenza delle maschere. Che la differenza non è origine dimenticata e sepolta, ma quella dispersione che noi siamo e facciamo» (Foucault, 2009).
Tuttavia, la catalogazione delle carte dell’ESA non ha risolto i problemi dell’archivio, che risulta ancora privo di una parte consistente di documentazione, dispersa tra gli edifici dell’Ente presenti sull’isola. La soluzione più opportuna per salvaguardare ciò che è stato organizzato, spesso veline il cui deperimento è rapido ed irreversibile, sarebbe la dematerializzazione [7], una “buona pratica” che consentirebbe ai ricercatori di accedere agli Archivi di Stato, alle sedi periferiche dell’Ente e agli archivi privati, aprendo così una caleidoscopica visione di un determinato tema di ricerca. Tale modo di agire produrrebbe una diffusione del sapere più accessibile grazie al metodo della cosiddetta public history, ovvero quell’attività di recupero della memoria storica che si svolge in modo attivo e partecipativo con il pubblico. La pratica della public history è radicata in tutte quelle aree che conservano un’eredità storica come i musei, le dimore e i siti di interesse culturale, i parchi, gli archivi, le società di produzione televisiva e cinematografica e gli enti pubblici.
Esiste anche un’associazione nazionale, il National Council on Public History (d’ora in poi NCPH), con sede a Indianapolis, che riunendo le diverse professionalità impegnate in questo campo, divulga attraverso la rete l’ideale di una storia condivisa a livello globale e partecipato.[8].
Questo per spiegare come la dematerializzazione non ha solo il valore di conservazione e fruizione ma permette anche di scardinare l’immagine stereotipata di polverosi luoghi della memoria, inaccessibili e, proprio per questo, non sentiti come patrimonio della collettività.
In Italia, siamo ancora qualche passo indietro, dato che la conservazione digitale degli archivi storici richiede il lavoro congiunto di mezzi hardware e software e risorse umane adeguatamente formate, in grado di affrontare ogni evenienza. La progettazione e la realizzazione di nuove esperienze di fruizione è un tema molto importante perché permette lo scambio di dati anche tra ricercatori che si trovano dai lati opposti dell’emisfero e pertanto di potersi consultare nonostante le distanze fisiche.
Anche in Italia si è comunque avviato un processo di dematerializzazione e stanno iniziando a diffondersi le prime timide forme di archivi “attivi”.
Un esempio è il progetto Carte da legare, realizzato dalla Direzione Generale Archivi del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, con la messa in sicurezza e la divulgazione di gran parte del patrimonio archivistico connesso agli ospedali psichiatrici in Italia: un portale che si snoda attraverso la catalogazione di tutto quel materiale reperito dopo la progressiva chiusura dei manicomi a seguito della legge 180/1978. Il patrimonio degli istituti, salvato dall’abbandono e dall’incuria, oggi è consultabile su diversi livelli: cartelle cliniche, informazioni storiche e architettoniche, lettere dei pazienti e immagini. Un grande atlante digitalizzato che racconta gli ospedali psichiatrici e la comunità di persone che ha popolato le “cittadelle della follia”: i ricoverati reclusi, i medici e gli infermieri. Il progetto nasce dalla volontà di mantenere la dolorosa memoria di chi ha vissuto in questi luoghi di prigionia più che di cura.
L’importanza della dematerializzazione dell’archivio dell’ESA è stato motivo di attenzione del progetto “SapereTecnicoCondiviso”, focalizzato sul valore architettonico dei contenuti prodotti e liberamente consultabile online. A lavorare, invece, in un interstizio tra la ricerca sul paesaggio sonoro e l’architettura del paesaggio è la ricerca avviata nel 2013 da VacuaMoenia, che mette l’accento su quanto può raccontare di sé un luogo tramite il suono che lo abita come specificità essenziale del posto. VacuaMoenia (dal latino “mura vuote”) crea una mappatura, in costante aggiornamento, di gran parte dei borghi rurali di fondazione, attingendo costantemente dall’archivio dell’Ente di Sviluppo Agricolo.
Mappature, registrazioni, archivi e catalogazione sono gli elementi che costituiscono il progetto; informazioni che si intrecciano dando vita a una fitta rete, che permette una visione globale della vastità delle aree destinate all’utilizzo agricolo. Tramite lo strumento tecnologico, VacuaMoenia ha riportato alla luce e posto l’attenzione all’archivio ESA, permettendo a chiunque la consultazione online, grazie ad una ricerca stratificata sull’argomento.
Pertanto, l’archivio storico dell’ESA — e per estensione qualsiasi altro archivio storico —, inteso come dispositivo, deve essere riconosciuto come bene culturale da proteggere, non solo perché rispecchia i valori di una cultura, ma anche perché evidenzia le strutture sociali e politiche di un determinato contesto, ne ripercorre le circostanze economico-sociali e sottolinea le scelte passate di chi detiene il potere, restituendo la complessità dell’esperienza, il suo volto umano, le sue conseguenze sull’immaginario (Previtali, 2020). La natura dell’archivio è metamorfica ed è questo il suo enorme potere. Strumento creato dall’uomo per raccogliere, contenere, controllare e raccontare; struttura liquida, versatile, modellabile dal suo stesso creatore, in modo provocatorio definibile “a sua immagine e somiglianza”. Un infinito raccoglitore di storie, dove ogni storia può essere narrata attraverso infiniti punti di vista. Con l’avvento dell’era digitale, poi, l’archivio si è trasformato ulteriormente, espandendo la sua capacità nell’infinito spazio della rete, assumendo, grazie alla sua natura metamorfica, un carattere corrispondente alla contemporaneità in cui sopravvive. Sopravvivenza che deve esser garantita dalla conservazione digitale dei suoi faldoni e delle sue carte, grazie alle nuove tecnologie sempre più affidabili, anche se incapaci di restituire il fascino dell’oggetto concreto. Per mantenere imperituro il valore memoriale dell’archivio e accessibili i suoi contenuti, si deve trovare la volontà di riconoscere in esso “l’opportunità e l’obbligatorietà della conservazione dei documenti e degli atti cartacei”, cosi come indicato dall’Art. 42 del Codice dell’amministrazione digitale (CAD) nel 2005. Altrimenti, ogni sforzo sarà stato invano e tutto rimarrà impolverato e destinato al macero del tempo.
«Qualcosa che ci sfugge deve pur restare… Perché il potere abbia un oggetto su cui esercitarsi, uno spazio su cui allungare le sue braccia» (Calvino, 1979).
Note
[1] Il 22 Dicembre 1928, Mussolini scrisse un articolo sul “Popolo d’Italia” in cui sosteneva che si doveva “facilitare con ogni mezzo e anche, se necessario, con mezzi coercitivi, l’esodo dai centri urbani”.
[2] Estratto dalla missiva “Centri Rurali – Inizio Lavori” datata 11 Ottobre 1939, tra Nallo Mazzocchi Alemanni, direttore dell’ECLS, ed il Ministro Tassinari.
[3] Il latifondo fu un problema che ha attanagliato l’economia rurale dell’isola per diversi decenni. Molteplici furono le considerazioni a riguardo ben prima del Fascismo che si occupò della questione siciliana sin dall’inizio della sua storia. Negli atti della Mostra sulle Bonifiche del 1932, la risoluzione al problema venne indicata nella graduale colonizzazione «così da togliere il contadino dai grossi centri dove ora si affolla e fissarlo nelle campagne» e nella creazione di nuovi centri di vita sociale.
[4] Il Borgo è stato consegnato al Comune di Prizzi il 28 Novembre 1989, secondo la legge n.890\1942, che già lo sottoponeva al vincolo perpetuo di pubblica utilità. Restano di proprietà dell’ESA Borgo Baccarato (EN), Borgo Bonsignore (AG), Borgo Grancifone (AG), Borgo Lupo (CT), Borgo Pasquale (AG), Borgo Gattuso (CL) e Borgo Vicaretto (PA). I numerosi altri borghi ceduti ai piccoli paesi, spesso sono destinati al deperimento delle strutture e agli inevitabili crolli poiché non può essere garantita la loro manutenzione ordinaria men che meno straordinaria.
[5] Il riferimento è all’Art.1 della già citata Legge 890/1942
[6] cfr. Giornale di Sicilia, Anno 143 – N.145
[7] Per dematerializzazione si intende quel processo per cui i documenti che originariamente erano in formato cartaceo vengono convertiti in formato digitale grazie all’uso di scanner, macchine fotografiche digitali etc. Invece, la digitalizzazione riguarda la creazione, la validazione, la gestione e la conservazione di documenti che sono creati direttamente in digitale.
[8] “Public History Redux” [collegamento interrotto], Public History News (September 2007). La prima bozza fu successivamente discussa e ampliata. La versione ufficiale è visionabile nel sito (vai a sitografia): «Gli storici si sono sempre impegnati nel lavoro sulla “public history”, dentro e fuori il mondo accademico, anche se negli anni ’60 e ’70, nel mezzo di una terribile crisi lavorativa per i dottorandi, la disciplina aveva ampiamente dimenticato le sue radici legati agli studi storico-sociali, museali, archivistici e governativi. Il “movimento” di “public history” è emerso negli Stati Uniti e in Canada negli anni ’70, acquisendo visibilità e influenza attraverso l’istituzione di programmi universitari». Nel 2007, dopo lunghe riflessioni, fu redatta dal consiglio NCPH una prima bozza per definire il termine storia pubblica secondo cui «è un movimento, una metodologia e un approccio che promuove lo studio e la pratica collaborativi della storia; i suoi ricercatori abbracciano una missione per rendere le loro intuizioni speciali accessibili e utili al pubblico»
Bibliografia
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Assmann A., Ricordare, Il Mulino, 2014
Binchi C., Di Zio T. (a cura di), L’archivista sul confine, Scritti di Isabella Zanru Rosiello, in Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, 2000
Calvino I., Se una notte d’inverno un viaggiatore, Einaudi, 1979
Derrida J., Mal d’archivio, un’impressione freudiana, pag.11, 1996
Foucault M., L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, BUR Saggi, 2009
La China M. L., Borghi di Sicilia. Sviluppi possibili. Inventario dei borghi rurali “fondati” dal 1920 al ’70, assegno di ricerca post dottorato, Pre print dell’assegno di ricerca post dottorato presso la Facoltà di Architettura, Università degli Studi di Palermo, finanziato dalla Regione Siciliana – Assessorato BB.CC.AA.
Valacchi F., Archivistica, parola plurale, in Archivi, XIII/1, 2018.
Sitografia
Archivi di Valore. LINK
Carassi M., Lacune degli archivi, lacune della memoria? LINK
Carte da Legare. LINK
National Council on Public History. LINK
Previtali G., Per sempre giovani: la trincea e l’archivio, La Grande guerra di Peter Jackson. LINK
Testa L., La città negata: urbanesimo e ruralità nell’Italia fascista. LINK
Tomasetti A., L’archivio ritrovato: le memorie di una impresa familiare nelle immagini di un archivio audiovisivo. LINK
Spazi della Follia. LINK
VacuaMoenia. LINK
Fabio R. Lattuca (1984). Laureato in Musicologia e Beni Musicali è cofondatore di VacuaMoenia. Tra il 2014 e il 2018 partecipa alle attività del collettivo Dimora OZ. Cura rassegne di musica contemporanea, partecipa a convegni internazionali presso università e fondazioni dove presenta i lavori di ricerca sulla colonizzazione del latifondo e il terzo paesaggio sonoro. Nel 2018 cura con Pietro Bonanno il sound design del progetto Cityscripts, inserito nella programmazione di Manifesta12.
Sasvati Santamaria (1983). Consegue il Diploma di Laurea presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo, sua città nativa. Frequenta un Master in curatela allo IED, facendo la sua prima importante esperienza presso il concorso Talent Prize 2012. Avendo una esperienza di sedici anni legata ad attività ludiche e ricreative con i bambini, focalizza il proprio interesse all’educazione all’arte contemporanea per l’infanzia e alla relazione che si può creare tra artista e infante. Curatrice indipendente, persegue sempre l’obiettivo di concentrare l’attenzione sulle pratiche sperimentali di giovani artisti legate soprattutto ai nuovi media. Collabora con la rivista di culture contemporanee MEMECULT e con realtà indipendenti siciliane come Dimora Oz.