Vuoto apparente
Il silenzio sonoro di John Cage tra arti visive e musicali: nuove possibilità semiotiche al tempo dell’Horror Pleni
di Emiliano Battistini
  1. L’(in)civiltà del rumore

Il tema del silenzio, inteso come manifestazione sul piano sonoro della categoria del vuoto, sta diventando un oggetto di studio sempre più attuale nei paesi occidentali, al di qua e al di là dell’Atlantico. L’inizio del XXI secolo vede infatti l’emergere di una serie di fenomeni sociali e di prodotti culturali che tematizzano il silenzio, spesso valorizzandolo positivamente. Senza voler essere esaustivi, possiamo ricordare la nascita della Silent Disco in Olanda, il film Die Grosse Stille in Germania (Gröning 2005), il pamphlet Manifesto for Silence in Gran Bretagna (Sim 2007), una serie di pubblicazioni sull’importanza del silenzio in un mondo pieno di rumore (Foy 2010; Keizer 2010; Prochnik 2010) la performance The artist is present di Marina Abramovič negli Stati Uniti e la nascita dell’Accademia del Silenzio in Italia. Ulteriore evidenza dell’attenzione crescente verso il silenzio è il sorgere di “carrozze del silenzio” in treni e aerei e di offerte di vacanza in abbazie, eremi e in “hotel del silenzio”. Secondo Valesio (1986), se da una parte tale interesse verso il silenzio non è una novità, in quanto l’uomo si confronta con esso da sempre, dall’altra «la ricchezza contemporanea di discussioni sul silenzio è un sintomo importante – anche se non è chiaro di che cosa sia sintomo»1.

Se a metà degli anni Ottanta del Novecento non era ancora possibile dare una risposta a questa intuizione di Valesio, oggi abbiamo molti più elementi per poter rispondere: una ricerca sui significati che l’opinione pubblica italiana dona oggi al silenzio (Battistini 2013) ha permesso di mettere in luce come le discussioni sul silenzio siano sempre più legate al crescere della consapevolezza di vivere in una società del rumore. Lo storico Stefano Pivato ha evidenziato come con l’arrivo dell’automobile a inizio Novecento e il seguente “boom economico” – una metafora tutta sonora – il paesaggio sonoro dei nostri luoghi di vita sia definitivamente cambiato, segnando l’inizio del “secolo del rumore” (Pivato 2011). Il problema non è il rumore in sé ma il “troppo rumore”, la sua pervasività spaziale e temporale senza precedenti, la sua tendenza ipertrofica. In realtà l’overload della fonosfera (Festa 2009), cioè l’inquinamento acustico e musicale, è solo un aspetto di una più generale crisi ecologia e semiotica. La crisi della biosfera a causa dello sfruttamento delle risorse del pianeta per la continua produzione industriale di beni materiali sta andando infatti di pari passo con una crisi della semiosfera (Lotman 1985), l’ambiente comunicativo, culturale, saturato dalla continua produzione di forme simboliche (parole, suoni, immagini, ecc.). A proposito Gillo Dorfles parla di “ipertrofia segnica” (2006), intendendo il continuo contatto dell’uomo con segni artificiali da lui stesso creati, contatto che in passato era “quanto mai scarso” e che oggi tende invece a saturare tutti i canali sensoriali. In modo simile, Ugo Volli (2003) parla di “inflazione comunicativa”: se la quantità di informazione aumenta, la qualità di essa diminuisce. Ma è proprio Lotman a metterci in guardia da questa situazione, affermando che la cultura «può essere […] uno dei meccanismi che diventano patologici soltanto nel caso di ipertrofia».2 Troviamo qui la risposta alla domanda sollevata da Valesio (1986): i discorsi sociali che danno oggi valore al silenzio sono il sintomo che la nostra cultura è ammalata di ipertrofia. Tutto ciò dipende da una perdita di coscienza dell’intervallo, del diastema, della pausa, del silenzio, insomma di quel “between”, quel “tra”, che separa e dona respiro e senso alle cose, alle parole, alle immagini, ai suoni, agli eventi (Dorfles 2006).

Malauguratamente solo pochissimi intendono questa fisiologica necessità del vuoto e della pausa. La maggior parte degli uomini è ancora profondamente ancorata all’errore del pieno e non all’orrore dello stesso. Carichi di troppi elementi che s’accavallano nella nostra mente – spesso subliminarmente – finiamo per confonderli e annegarli in un lattiginoso e amorfo amalgama (Dorfles 2006, p.19)

La figura si perde nello sfondo, troppe figure che si accavallano si sformano, perdono identità, salienza, senso. Tutto ciò a discapito invece di una chiarezza prima di tutto cognitiva e interpretativa e, successivamente, creativa e comunicativa. É proprio perché il “troppo pieno” porta all’in-sensato in quanto s-formato che Dorfles parla più recentemente di (in)civiltà del rumore: «oggi l’“orrore del troppo pieno” corrisponde all’eccesso di “rumore” sia visivo che auditivo che costituisce l’opposto di ogni capacità informativa e comunicativa»3. Una civiltà che si ricopre di rumore, consapevolmente o inconsapevolmente, mette in dubbio la propria intelligenza. Come ci ricorda Barthes:

Se la base uditiva invade l’intero spazio sonoro (cioè se il rumore ambiente è troppo elevato), la selezione, l’intelligenza dello spazio non è più possibile, l’ascolto è compromesso. Il fenomeno ecologico detto inquinamento – che sta diventando oggi un mito negativo della civiltà industriale – non è altro che l’alterazione intollerabile dello spazio umano, in cui l’uomo cerca invano di riconoscersi: l’inquinamento mina i sensi mediante i quali l’essere vivente – animale o uomo – riconosce il proprio territorio, il proprio habitat: vista, odorato, udito. Così, ci si trova di fronte ad un inquinamento sonoro di cui tutti, indipendentemente da qualsiasi mito naturalistico, avvertono il carattere di minaccia all’intelligenza stessa dei viventi; la quale a rigore consiste nella capacità di comunicare correttamente col proprio Umwelt (ambiente): l’inquinamento impedisce di ascoltare (Barthes 2001, pp.238-239).

Una società sorda diviene incivile, non riesce più ad ascoltare i diritti e i doveri, i bisogni del singolo e della collettività. Se nessuno ascolta perché tutti parlano, le parole si perdono nel rumore della loro con-fusione e vengono meno all’essere strumento di democrazia e di vita in comunità4. All’Horror Vacui, cioè al terrore del vuoto dei nostri primissimi antenati, che sarebbe all’origine delle prime incisioni rupestri, Dorfles (2008) contrappone e spera in un avvento di un Horror Pleni, cioè il

rifiuto – già presente in qualcuno ma in troppo pochi, e certamente destinato a generalizzarsi – del «troppo pieno», del «troppo rumore» (non solo nel senso del brusio e del frastuono, ma anche nel senso usato dalla teoria dell’informazione: rumore come opposto di informazione e dunque confusione di ogni messaggio” (Dorfles 2008, pp.18-19).

  1. L’invenzione del silenzio

Come vede bene Dorfles l’Horror Pleni è già presente in quella “minoranza silenziosa” che sta nascendo come nuovo soggetto sociale attraverso una logica culturale di costruzione identitaria che possiamo definire “invenzione del silenzio” (Battistini 2013). Rispetto alla maggior parte della popolazione tale minoranza è sensibile e consapevole in quanto colta, cioè coltivata, ovvero che ha coltivato se stessa progressivamente ampliando la propria cultura. Ciò le ha donato gli strumenti interpretativi necessari a comprendersi e a comprendere il mondo attorno. Questa minoranza è infatti protagonista di una presa di coscienza: ascoltando il fenomeno del “troppo rumore” ormai presente, ha potuto individuarne le cause nel modello di sviluppo economico dominante. La presa di coscienza del problema e le proposte di una sua soluzione sono nate dall’accettare le contraddizioni del reale, superando le antitesi e le rigide opposizioni in cui si ferma il pensiero comune. La costruzione della propria identità ha seguito due mosse strategiche: la creazione di una tradizione in cui riconoscersi e la creazione di un nemico a cui contrapporsi. La prima strategia è stata quella di elaborare un concetto di silenzio laico, ovvero non confessionale, marcando la differenza con gli ambiti religiosi da cui comunque sono state prese a prestito pratiche e modelli, e ripescano dall’enciclopedia culturale di riferimento autori e testi su cui fondare una tradizione di silenzio laico. Ad esempio assistiamo alla ripresa dell’opera del compositore americano John Cage, in specifico della sua “opera silenziosa” 4’33’’. Parallelamente, la “minoranza silenziosa” ha intrapreso una seconda strategia, di costruzione del nemico (Eco 2011), cioè di un anti-soggetto a cui contrapporsi. Questo nemico è identificato nella “maggioranza rumorosa”, che viene sanzionata come incivile e barbara (in linea con il concetto di in-civiltà del rumore elaborato da Dorfles 2008).

Dietro alla maggioranza rumorosa vi è un destinante, che la manipola e la manovra: sono le nuove ricchissime élite transnazionali che influenzano pesantemente le sorti dell’economia globale (Jaworsky, Thurlow 2010). La critica della “minoranza silenziosa” svela gli effetti collaterali disforici del modello di sviluppo che punta solo al profitto senza rispettare né l’uomo né la natura. Vengono criticati i pilastri dell’economia odierna e della società dei consumi, un uso improprio dei mezzi di telecomunicazione e di trasporto, insieme a quella parte della politica e del sapere scientifico conniventi al potere economico. Riflettendo sul “troppo rumore”, espressione acustica di un cattivo sviluppo, la minoranza silenziosa comprende che il mercato, se non regolato, diviene una grande macchina di ingiustizia e di appiattimento del senso della vita dell’uomo, di asimbolìa e perdita del senso (Greimas 1987). Da qui cerca delle alternative, a partire da programmi narrativi di risemantizzazione della vita quotidiana, come il concedersi del tempo senza guardare l’orologio, camminare, leggere libri, pensare, lasciando la mente come un “campo a maggese”, coltivandosi poco a poco (Jullien 2009). Viene rivalutata l’esperienza diretta rispetto a quella mediatizzata. Il tutto si gioca all’insegna del valore del silenzio. Se per la “minoranza silenziosa” esso è un bisogno vitale come l’aria pulita e l’acqua pura, e per questo deve essere di tutti, per la “maggioranza rumorosa” e per le élite, il silenzio è un bene commerciale di lusso, che ha un mercato in quanto divenuto sempre più raro (Paquot 2005). Attraverso il silenzio, l’oggetto di valore perseguito dai primi è l’equilibrio psicofisico, mentre per i secondi è il profitto: una ‘cultura del silenzio’ si oppone a una ‘cultura del rumore’.

Rispetto alla “minoranza silenziosa” si può parlare a pieno titolo di una “invenzione del silenzio”. Come ci ricorda Marrone (2010), il termine “invenzione” ha due accezioni: quella moderna indica la produzione di qualcosa di nuovo, che prima non esisteva; quella antica (inventio) indicava il ritrovamento di cose che si erano perdute, il riuso di materiali cognitivi preesistenti. Così, mentre il senso antico di inventio è congruente con la “riscoperta del silenzio”, vissuto come oggetto perduto che viene ritrovato, allo stesso tempo l’accezione moderna indica quel tratto di novità che nel nostro caso consiste nella creazione di una nuova identità sociale.

  1. Il silenzio di John Cage, tra musica e pittura

Come dimostrato dalla “minoranza silenziosa” e dal successo del centenario della nascita del compositore nel 2012, le riflessioni e l’opera di John Cage intorno al silenzio sono tuttora attuali come riferimento per una nuova concezione della vita e dell’arte ai tempi dell’Horror Pleni e per la possibilità di un nuovo rapporto tra natura e cultura. Estraneo dall’essere elemento negativo e nichilista, anche se spesso frainteso come provocatorio, il silenzio di John Cage si configura come l’esempio paradigmatico di “vuoto apparente”, essendo un silenzio pieno di suoni, un silenzio sonoro, che sprigiona nuove possibilità percettive, etiche ed estetiche.

È interessante notare come la sua composizione più celebre, il brano silenzioso 4’33’’, si sia realizzata grazie al costante dialogo di Cage, oltre che con i colleghi David Tudor, Earl Brown, Christian Wolf, Morton Feldman, con una serie di amici artisti, soprattutto pittori, come Robert Rauschenberg, Jasper Johns, Philip Guston, ecc., a cui si aggiunge la frequentazione di Marcel Duchamp e quella in giovane età di Mark Tobey. Soprattutto l’incontro fra Cage e Rauschenberg fa della New York dei primi anni ’50 il luogo di elaborazione e presa di consapevolezza di un nuovo concetto positivo di vuoto tra musica e pittura, concretizzatosi in due opere fondamentali del Novecento: 4’33’’ di Cage e i White Paintings di Rauschenberg.

La prima di 4’33” fu eseguita il 29 agosto 1952 nella Maverick Concert Hall, una sala concerti «costruita essenzialmente in legni di quercia e di pino appena sgrossati»5, in una macchia boschiva a tre chilometri da Woodstock nello stato di New York. A eseguirla fu il pianista David Tudor, che si sedette al pianoforte e per poco più di quattro minuti e mezzo suonò tre lunghe pause, senza produrre alcun suono, limitandosi ad aprire e chiudere la tastiera per segnare i tre movimenti della composizione. Lo spartito infatti riportava un tacet per qualsiasi strumento o combinazioni di strumenti, suddiviso in tre movimenti composti da lunghe pause: la prima di 30”, la seconda di 2’23” e la terza di 1’40”, per un totale di 4’33” di silenzio. Ricordando l’evento Cage disse:

Il silenzio non esiste. (…) Durante il primo movimento si sentì il vento che soffiava fuori dalla sala. Durante il secondo, qualche goccia di pioggia cominciò a picchiettare sul tetto, e durante il terzo la gente stessa produsse i più vari rumori mentre parlava o usciva” (cit. in Ross 2010, p.407).

Come capiamo dal ricordo dello stesso Cage, il brano è in realtà costituito dai suoni accidentali che avvengono nell’ambiente circostante, suoni del paesaggio sonoro esterni alla sala e suoni interni ad essa e del pubblico stesso che, grazie al contenitore neutro di silenzio, divengono musica. 4’33” rompe così i limiti posti tra i suoni tradizionalmente considerati musicali (come quelli prodotti dagli appositi strumenti) e qualsiasi rumore extramusicale (suoni della natura, del pubblico, artificiali, ecc.): ogni suono merita di divenire musica, se ascoltato. Infatti, dal punto di vista pragmatico, il brano cambia radicalmente le abitudini di ascolto del pubblico, mettendo in primo piano l’azione dell’ascoltare stesso: l’attenzione passa dal musicista all’ambiente sonoro reale. L’autore, dopo aver creato il contenitore ‘vuoto’, rinuncia a ogni gesto compositivo volontario e lascia che sia il caso a riempire di rumori il silenzio. Quest’ultimo infatti “non esiste”: ci sarà sempre almeno un suono, seppur minuto, ad attirare l’attenzione. Possiamo leggere 4’33’’ come un operazione di fraiming, di inquadramento, nello specifico di inversione tra cornice e contenuto: ciò che era una volta cornice, i suoni ambientali, divengono contenuto inquadrati dalla situazione concerto, che una volta contenuto diviene ora cornice.

Come è noto, fu la visione dei White Paintings del pittore Robert Rauschenberg a dare il coraggio a Cage di esporsi con il suo brano silenzioso, che in realtà aveva concepito già da tempo. I White Paintings erano delle tele di solo colore bianco che escludevano qualsiasi elemento figurativo: sulla neutralità del bianco, l’opera pittorica viveva della polvere che si depositava sulla sua superficie e del cambiamento delle luci e delle ombre dell’ambiente circostante, come il cambiamento della luce solare e il passare delle ombre delle persone sulla tela. «Rauschenberg vide la complessità di una superficie vuota, comprese che non era necessario dipingerla perché contiene già immagini ed eventi»6. Vedendo i quadri di Rauschenberg, Cage rimase colpito e pensò che la musica fosse rimasta più indietro della pittura. Propose dunque 4’33” come una sorta di versione musicale dei White Paintings: come la polvere, le luci e le ombre riempivano queste tele bianche, allo stesso modo i suoni dell’ambiente riempirono il silenzio di 4’33”.

3_Rauschenberg_WhitePainting

Robert Rauschenberg nel 1953 davanti ai White Paintings, Time Magazine
Crediti: © Estate of Robert Rauschenberg. DACS, London/VAGA, New York 2012

Le due opere condividono una serie di tratti strutturali, in quanto entrambe: lasciano intatto lo strumento artistico di riferimento (la tela, lo strumento musicale) e il proprio contesto tradizionale (la galleria, la sala da concerto); sostituiscono a un tradizionale contenuto figurativo (visivo o musicale) un elemento plastico neutro (una superficie bianca, una pausa di silenzio) che si configura come un “vuoto”; tale scomparsa produce in primis un senso di spaesamento nel pubblico, che non sa cosa guardare o ascoltare; ciò porta a “risvegliare” i canali sensoriali (vista, udito) e a riaddestrare la funzione percettivo-cognitiva (guardare, ascoltare): cosa e dove guardare? cosa e dove ascoltare?; a cui segue il riconoscimento di elementi figurativi che provengono dall’ambiente circostante (particelle di polvere, luci e ombre; suoni) a cui prima non si prestava attenzione; il risultato è una presa di coscienza della facoltà percettiva (guardare, ascoltare) e un’estetizzazione dell’ambiente circostante e dei suoi dettagli; al ruolo attivo del pubblico corrisponde un passo indietro dell’artista che rinuncia al pieno controllo dell’esito del suo operato.

Cage trova in Rauschenberg una profonda affinità basata sull’idea secondo cui la vita, cioè l’ambiente, dovrebbe irrompere direttamente nell’arte. L’ipersensibilità della tela intesa da Rauschenberg era un modo per evitare di esprimere la propria personalità, le proprie emozioni, idee e gusti, controllando i materiali. Tutto ciò corrispondeva perfettamente con il significato che Cage dava al silenzio come rinuncia alle proprie intenzioni, come accettazione della vita, dell’ambiente intorno. Troviamo qui il punto di contatto con la concezione orientale dell’arte di cui Cage stesso si è fatto interprete dell’“imitare la natura nel suo modo di operare”: «in ogni punto della natura c’è qualcosa da vedere […] La mia opera contiene simili possibilità di mutare il punto focale dell’occhio»7. Al di là dell’intenzionalità dell’artista, l’opera d’arte deve accogliere in sé l’intervento della natura, di elementi aggiuntivi extra-umani presieduti dall’azzardo e dal caso. Ciò significa accettare la vita, accoglierla con le sue tracce e con i suoi segni nell’opera, che può modificarsi, scomporsi, rompersi per scomparire o ricomporsi. Esemplare è la storia zen giapponese della teiera di Rikyu, grande maestro del tè (1518-91), che anche se già bellissima acquista valore estetico solo dopo essere stata rotta e ricomposta in maniera del tutto perfetta (Masotti 2009). A proposito ricordiamo un aneddoto raccontato da Cage:

Quando Bob Rauchenberg e Jasper Johns si trasferirono da Pearl a Front Street, mi offrii di aiutarli e di mettere a disposizione la mia station wagon per il trasloco. Bob era totalmente indifferente al fatto che qualcuno dei suoi lavori potesse venire in qualche modo danneggiato dal trasporto, avrebbe fatto parte della ‘vita naturale’ del dipinto. L’atteggiamento di Jasper era tale che se fosse invece accaduto qualcosa ad uno dei suoi quadri sarebbe dovuto intervenire, non tanto per restaurarlo, quanto piuttosto per lavorare all’intero dipinto, poiché qualsiasi cambiamento avrebbe costituito una sorta di problema estetico per lui (Masotti 2009, p.343).

  1. “Sentire attraverso”, “vedere attraverso”

Tale sventura accadde invece a Marcel Duchamp che, quando si ruppe il Gran Verre, non lo riparò e accettò con soddisfazione i segni del destino incorporandoli nell’opera. Proprio il Gran Verre di Duchamp è un altro esempio che Cage stesso cita come vuoto esemplificativo e corrispettivo al silenzio di 4’33’’: «one can ‘hear through’ a piece of music ‘just as on can see through some modern buildings or see through a wire sculpture […] or the glass of Marcel Duchamp»8. Infatti, la trasparenza dell’opera permette di vedere attraverso di lei porzioni dell’ambiente e ciò che vi accade tendendo a scomparire, a mimetizzarsi. Secondo Masotti «il silenzio nell’opera di Cage è l’equivalente sia dello spazio bianco della tela, che riflette, che funge da schermo all’ambiente circostante, sia del vetro, che non offre ostacolo, che rifrange la luce»9. Ma al di là delle affinità, Cage era cosciente anche della differenza tra 4’33’’ e i White Paintings: nella concettualizzazione successiva al lavoro, Cage considera le due opere come risultato di due operazioni in realtà diverse (Kostelanetz 1996) e quando deve esplicare il proprio concetto di silenzio come vuoto pieno in paragone alle arti visive non si riferisce più ai White Paintings, ma fa riferimento agli edifici di Mies van der Rohe e alle sculture in filo di ferro di Richard Lippold:

Infatti in questa nuova musica non accade nulla oltre ai suoni, quelli scritti e quelli non scritti. Quelli non scritti compaiono nella partitura come silenzi, aprendo le porte della musica ai suoni dell’ambiente circostante. È un’apertura che riscontriamo anche nel campo dell’architettura e della scultura moderne. I palazzi di vetro di Mies van der Rohe riflettono l’ambiente circostante e offrono allo sguardo squarci di nuvole, alberi o prati, a seconda della situazione. E mentre ammiri le strutture in fil di ferro dello scultore Richard Lippold, è inevitabile che nel reticolo tu scorga altre cose, persone comrprese, se si trovano lì in quel momento preciso. Non esistono cose come lo spazio vuoto o il tempo vuoto. C’è sempre qualcosa da vedere, qualcosa da udire (Cage 2010, p.15)

Le opere dell’architetto Mies van der Rohe, esponente del Bauhaus trapiantato negli Stati Uniti, condividono con le opere di Cage un’estetica minimale, essenziale, in cui i volumi vuoti e le pareti in vetro giocano un ruolo fondamentale. Se le vetrate del Seagram Building a New York funzionano da specchio riflettendo sul grattacielo ciò che sta e vi passa intorno, la Farnworth house nei dintorni di Chicago ha pareti in vetro che si mimetizzano con la vegetazione, in modo che si possa vedere attraverso la casa. Allo stesso modo, le sculture astratte in filo di ferro di Richard Lippold, come ad esempio la serie Five variations within a sphere, delineando i contorni di volumi geometrici lasciandone l’interno vuoto, permettono di vederci attraverso. Anzi, non è possibile non vedere cosa vi è al di là in quel preciso momento, se una parete, una persona, un cielo oltre una finestra e così via.

Il vuoto visivo che in questo modo si riempe delle immagini dell’ambiente offre un corrispettivo al vuoto sonoro, il silenzio caro a Cage, che si riempie di suoni. “Guardare attraverso” l’opera, “acoltare attraverso” l’opera: l’opera d’arte si fa trasparente per accogliere l’ambiente, la vita circostante. Come abbiamo visto, per raggiungere tale risultato anche l’autore deve farsi in parte trasparente, rinunciare all’intenzionalità senza timore:

Però puoi arrivare a questa mancanza di timori soltanto se al bivio, nel punto in cui comprendi che i suoni ci sono che tu lo voglia o no, svolti nella direzione dei suoni che non intendi ascoltare. È una svolta psicologica, e all’inizio sembra una rinuncia a tutto quanto appartiene all’umanità, per un musicista la rinuncia alla musica. Questa svolta psicologica ti porta al mondo della natura, in cui vedi, gradualmente o d’un tratto, che l’umanità e la natura non sono separate, ma coabitano in questo mondo, e capisci che non hai perso nulla quando hai rinunciato al tutto. Anzi hai guadagnato tutto. Per dirla in un linguaggio musicale, può presentarsi qualsiasi suono in qualsiasi combinazione e in qualsivoglia continuità (Cage 2010, pp.15-16).

Una delle importanti conquiste del silenzio cageano è una nuova consapevolezza del rapporto tra natura e cultura. Cage si rende conto, attraverso il proprio lavoro di musicista, che vi può essere un altro modo di concepire e articolare queste due categorie, categorie che il pensiero occidentale ha ormai da tempo opposto l’una all’altra, avallando la separazione dell’uomo da tutte le altre speci viventi e lo sfruttamento della natura. In questa “svolta psicologica” Cage sembra molto vicino ai recenti risultati dell’antropologia contemporanea che vede nelle teorie del multinaturalismo il superamento di tale dicotomia (Descola 2005). Questa nuova concezione porta con sé una serie di conseguenze etiche, riassunte nell’atteggiamento di ascolto dell’Altro, degli altri esseri viventi, piante, animali, esseri umani che siano preludio a qualsiasi forma di dialogo. Una seconda conquista è valorizzare l’esperienza percettiva della vita quotidiana attraverso la scoperta del lato apparente, manifesto e sensibile degli oggetti, delle immagini, dei suoni e delle loro materie. Sia Cage che Rauschenberg, dopo la loro esperienza parallela, giungeranno ad accogliere nelle loro opere successive tutto un campionario variegato e divertito di oggetti, presi da scenari domestici e urbani: gli oggetti incollati alla tela e combinati, i suoni giustapposti in testure sonore, non sono simboli di qualcosa, non rimandano a qualcos’altro, ma significano per se stessi, mostrandosi per le proprie qualità e attirando l’attenzione nient’altro che su di esse. In questo Cage è debitore al ready-made duchampiano come all’attenzione per i piccoli dettagli della natura di Mark Tobey poi trasposti nei suoi White Writings. In questo modo l’arte non è fine a se stessa ma si offre come un’educazione alla percezione curiosa degli oggetti e degli eventi che abbiamo intorno, apprezzando la vita e l’esperienza quotidiana (Kostelanetz 1992). Sono proprio le esperienze estesiche dei piccoli dettagli del mondo, ovvero le esperienze dell’ordine del sensibile, a cui Greimas (1987) riconosce il ruolo di operatrici di risemantizzazione della vita quotidiana e dunque generatrici di nuovi valori, di nuovi sensi per il soggetto, antidoto all’asimbolìa contemporanea.

  1. Arte e vita, ieri e oggi

Se Rauschenberg voleva “agire nell’intervallo che sta fra la vita e l’arte”10, l’intenzione di Cage era di farle coincidere. Grazie al silenzio cageano, inteso come serena accettazione dei suoni dell’ambiente, grazie alla creazione di un vuoto ricco di possibilità, l’opera prende vita dall’ambiente e l’ambiente diviene parte integrante dell’opera. Ciò è stato valido anche riguardo all’eredità artistica e culturale di John Cage, all’influenza che il suo lavoro ha avuto per quelli che sono venuti dopo di lui. A partire dalla volontà cageana di connettere arte e vita, possiamo notare a posteriori lo sviluppo incrociato di due tendenze. Da una parte, l’arte ha “preso vita” accogliendo dentro di sé la dimensione performativa, la performance, come evoluzione dell’happening inaugurato proprio da Cage e Rauschenberg, fino ad arrivare all’arte partecipativa in cui il “vuoto” lasciato dall’autore viene riempito dal pubblico non solo a livello di ricezione ma soprattutto a livello di contenuti. Dall’altra, la vita, l’ambiente quotidiano si è “estetizzato”, ad esempio attraverso una corrente come quella rappresentata dagli studi sul paesaggio sonoro di Murray Schafer (1977), che considerano i suoni dell’ambiente come una composizione di cui tutti noi siamo gli esecutori e meritevole di cura e armonia. Due tendenze notevoli, entrambe esito di un “vuoto apparente”.

.

.

1 P. Valesio, Ascoltare il silenzio. La retorica come teoria, Il Mulino, Bologna 1986, p.353.1
2 J.M. Lotman, La semiosfera, Marsilio, Venezia 1985, p.50.
3 G. Dorfles, Horror pleni: la (in)civiltà del rumore, Castelvecchi, Roma 2008, p.15.
Per lo stretto legame che vi è tra parola, città e felicità nell’animale uomo, cfr. Lo Piparo (2003)
A. Ross, Senti questo, Bompiani, Milano, 2010, p.408.
6 F. Masotti, Quando il silenzio crepita in Cage, J., (eds) G. Di Maggio, A. Bonito Oliva, D. Lombardi, Mudima, Milano 2009, p. 339
7 Ivi, p.342.
8 P. Vergo, The music of painting, Phaidon Press Limited, New York 2010, p.334.
9 F. Masotti, Quando il silenzio crepita, op. cit. p.343.
10 F. Masotti, Quando il silenzio crepita, op. cit., p.344

.

 

Bibliografia

Barthes, R., 2001, L’ascolto in L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino.
Battistini, E., 2013, L’invenzione del silenzio come logica culturale di costruzione identitaria, in Il senso delle soggettività. Ricerche semiotiche, (eds) Mangano, D., Terracciano, B., Edizioni Nuova Cultura, Roma.
Cage, J., 2010, Silenzio, ShaKe Edizioni, Milano-Rimini
Descola, P., 2005, Par-delà nature et culture, Gallimard, Paris.
Dorfles, G., 2006, L’intervallo perduto, Skira
, Milano.
Dorfles, G., 2008, Horror pleni: la (in)civiltà del rumore, Castelvecchi, Roma.
Eco, U., 2011, Costruire il nemico. E altri scritti occasionali, Bompiani, Milano.
Festa, F., 2009, Musica. Suoni, segnali, emozioni, Editrice Compositori, Bologna.
Foy, G.M., 2010, Zero decibels. The quest for absolute silence, Scribner, New York.
Greimas, A.J., 1987, De l’imperfection, Fanlac, Périgueux.
Gröning, P., 2005 (DVD) Die große Stille. Philip Gröning et alii.
Jullien, F., 2009, Les transformations silencieuses, Éditions Grasset & Fasquelle, Paris.
Keizer, G., 2010, The unwanted sound of everything we want. A book about noise, PublicAffairs, New York.
Kostelanetz, R., 1996, (a cura di), John Cage. Lettere a uno sconosciuto, Edizioni Socrates, Roma.
Lo Piparo, F 2003, Aristotele e il linguaggio. Cosa fa di una lingua una lingua, Laterza, Roma-Bari
Lotman, J.M., 1985, La semiosfera, Marsilio, Venezia.
Marrone, G., 2010, L’invenzione del testo, Laterza, Roma-Bari.
Masotti, F., 2009, Quando il silenzio crepita in Cage, J., (eds) Di Maggio, G., Bonito Oliva, A., Lombardi, D., Mudima, Milano.
Paquot, T., 2005, Éloge du luxe, Bourin Éditeur.
Pivato, S., 2011, Il secolo del rumore, il Mulino, Bologna.
Prochnik, G., 2010, In pursuit of silence, Doubleday, New York.
Ross, A., 2010, Senti questo, Bompiani, Milano
Schafer, M., 1977, The Tuning of the World, Toronto: McClelland and Stewart Limited
Sim, S., 2007, Manifesto for silence. Confronting the politics and culture of noise, Edimburg University Press, Edimburg
Thurlow, C., Jaworski, A., 2010, Silence is Golden: The ‘Anti-communicational’ Linguascaping of Super-elite Mobility in Semiotic Landscapes. Language, Image, Space, (eds) Jaworski, A., Thurlow, C., Continuum International Publishing Group, London-New York.
Valesio, P., 1986, Ascoltare il silenzio. La retorica come teoria, Il Mulino, Bologna.
Vergo, P., 2010, The music of painting, Phaidon Press Limited, New York.
Volli, U., 2003, Semiotica della pubblicità, Laterza, Roma-Bari.

..

Emiliano Battistini è dottorando in Studi Culturali Europei presso l’Università di Palermo e si interessa di semiotica, sound studies e soundscape studies. Laureato in semiotica e diplomato in chitarra e in didattica dello strumento, collabora con l’AISS-Associazione Italiana Studi Semiotici, l’FKL-ForumKlangLandschaft e il CES-Collectif Environnement Sonore. Con il collettivo Ground-to-Sea Sound Collective realizza concerti e installazioni site-specific.