§Fare Mondi.
Tra ricerca e fabulazione
Il sacchetto della spesa alla fine del mondo:
pratiche di world-building reticolare
di Nicola Zolin e Davide Tolfo

All’inizio del 2024, il compositore e producer Oneohtrix Point Never – al secolo Daniel Lopatin – annuncia tramite un comunicato sui propri canali socia, il lancio del suo nuovo sito, chiamato Oneohtrix Point Never: Archive. Il sito in questione si mostra all’utente come una mastodontica mappa, in cui una miriade di nodi tematici viene attraversata da un’altrettanto numerosa quantità di collegamenti. Titoli di EP e album vengono collegati a collaborazioni, filmati o a eventi dal vivo, tramite una fittissima rete suddivisa cromaticamente. Cliccando sui singoli elementi è possibile analizzare e scoprire i vari punti di contatto con gli altri nodi della mappa, trasformando l’intero processo in una sorta di esplorazione. 

Lə visitatorə si confronta con un oggetto digitale che si allontana dai paradigmi tradizionali di fruizione attraverso due diverse modalità. In primo luogo, il sito non offre semplicemente un servizio funzionale basato su un “clic” per raggiungere un obiettivo prefissato, ma si configura come un processo che invita l’utente  a esplorare la carriera artistica di Oneohtrix Point Never; non si limita a soddisfare un bisogno immediato, ma piuttosto consente una scoperta più profonda e articolata degli elementi nascosti nel lavoro dell’artista. Non si tratta più di una sequenza cronologica di eventi, prodotti e persone – come i classici siti personali di artistə musicali – ma di una visione orizzontale dell’intero percorso artistico di Lopatin, che viene presentato non come un’entità isolata, ma come una rete complessa di collegamenti. L’interazione con il sito invita quindi a concepire l’artista stesso come una rete di relazioni interconnesse, piuttosto che come un individuo definito singolarmente.
In secondo luogo, la pagina web diventa un terreno di rivalutazione ontologica dei singoli “nodi” del lavoro di Lopatin, in cui ogni elemento acquisisce un valore relazionale. Le release di Oneohtrix Point Never sono state comunemente interpretate come periodi estetici distinti, ciascuno con rimandi visivi e sonori specifici, come nel caso della vaporwave di Eccojam (Bowman, 2016), della post-ironia di R Plus Seven (Diduk, 2013), o delle grottesche rappresentazioni di Garden of Delete (Smith, 2015). Tuttavia, il sito si distingue per l’adozione di un’estetica neutrale, che si discosta dalle caratteristiche estetiche massimaliste proprie delle varie “ere” di Lopatin; l’approccio visivo diviene minimale, quasi asettico, esprimendosi attraverso un ecosistema che si trasforma in contenitore.

Oneohtrix Point Never

Il concepimento di un ambiente (virtuale, nel caso del Oneohtrix Point Never: Archive) come un contenitore implica un approccio che si discosta dai modelli lineari e antropocentrici applicabili a un sistema. In questo contesto, il contenitore non stabilisce gerarchie o distinzioni tra gli elementi che contiene, ma si configura piuttosto come un ecosistema in cui ciascun componente è valorizzato attraverso un piano orizzontale (Bennett, 2010: pp. 11-15).

Costruire mondi attraverso l’ottica del contenitore consente di spostare l’attenzione sugli agenti che lo abitano, focalizzandosi in particolare sulle relazioni che essi stabiliscono tra loro. 

Questo approccio trova un parallelo significativo nel celebre saggio di Ursula K. Le Guin, La teoria letteraria del sacchetto della spesa (2022), in cui l’autrice propone un metodo narrativo che decostruisce le narrazioni tradizionali, suddividendole in componenti individuali per enfatizzare il valore delle interazioni e delle dinamiche tra gli elementi, piuttosto che il protagonismo di un singolo eroe, solitamente maschile. Ad emergere da questa teoria è un processo di world-building lontano dalla tradizionale impresa lineare di natura imperialista che pone l’essere umano come conquistatore di un dato mondo. La narrazione non conduce ma contiene; le storie si diramano in molteplici percorsi, fatti di incontri e relazioni, realizzandosi infine nello stesso mondo che abitano.

La narrazione post-antropocentrica del contenitore si materializza attraverso la rete di legami dei singoli agenti che vivono in essa: in Paradise Rot (2018) di Jenny Hval, una studentessa si ritrova ad attraversare un risveglio sensoriale all’interno di una casa dai connotati inumani, in una continua amalgama tra realtà e sogno, materiale organico e inorganico; in Mycelium (2022), Dominica Phetteplace costruisce un racconto corale dalla struttura criptica e frammentata, sullo sfondo di un mondo fungino in decomposizione. Il contenitore di Le Guin diviene un manifesto della fiction speculativa, mostrandosi come un portale per la rappresentazione di scenari alla fine del mondo – quello antropocentrico perlomeno – dove gli agenti che lo popolano interagiscono in uno scambio continuo. Inoltre, la struttura reticolare può virtualmente essere adattata come modello per ogni campo di studio contemporaneo, dall’economia alle intelligenze artificiali, passando per la biochimica e l’astronomia (Sheldrake, 2020: pp. 192-193).


Lo studio delle interazioni all’interno del contenitore-mondo implica una rivalutazione del concetto di “contesto”, spostando l’attenzione su di esso come elemento centrale, anziché considerarlo un semplice sfondo. Questo è uno dei temi fondamentali nel testo di Paul Dourish, Where the Action Is (2004), dove l’autore esplora il ruolo della Human-Computer Interaction (HCI) mettendo in rilievo l’importanza del contesto in relazione alla percezione umana. Dourish adotta una prospettiva che si distacca dalle teorie tradizionali sull’interazione, focalizzandosi sul contesto come elemento che intreccia dinamiche sociali, geografiche e antropologiche, in cui la percezione intersoggettiva gioca un ruolo determinante [1]. L’interazione non può essere separata dal suo ambiente fisico e sociale; la tecnologia, infatti, non è un’entità isolata, ma fa parte di una rete di relazioni che include individui, oggetti e contesti. L’analisi di Dourish si focalizza sullo stretto rapporto che lega le interazioni all’ecosistema in cui avvengono. In particolare l’essere umano e gli oggetti con cui è possibile interagire in un determinato contesto. A mostrarsi cruciale è dunque la rete di relazioni stessa che si forma tra i singoli elementi. In questo senso, il modello della rete non è solo una metafora, ma una struttura concreta che definisce l’interazione stessa. Del resto, come suggerisce Le Guin, il primo dispositivo creato dall’essere umano per interagire con l’ambiente potrebbe essere stato proprio un contenitore.

Death Stranging, Kojima Productions, 2019

Verso la fine del 2019 viene rilasciato sul mercato videoludico l’attesissimo Death Stranding, ultima fatica dell’acclamato game designer Hideo Kojima, noto ai più per la fortunata saga di Metal Gear Solid e per il suo approccio sperimentale nei confronti del medium. In questa esperienza si è portatə ad impersonare Sam Porter Bridges, un corriere incaricato di ri-connettere le cosiddette Città Unite d’America a seguito di un cataclisma globale che ha decimato la popolazione, il Death Stranding per l’appunto, un fenomeno devastante che ha permesso l’apertura tra il mondo reale e una sorta di limbo ultraterreno chiamato “La Spiaggia”. Quello che agli occhi dellə giocatorə si presenta come un mondo ostile e soverchiante, dove gli spazi aperti sono attraversati dagli spettri semi-invisibili dei defunti noti come BT [2], rappresenta in realtà una forma di world-building alla cui base vige una fitta rete di interazioni. La struttura orizzontale dell’opera, costruita quasi a mascherare il tropo del “viaggio dell’eroe”, fa sì che si passi dal consegnare una pizza, all’infiltrarsi all’interno di un campo di terroristi, fino all’incontro con entità inumane, il tutto come affresco dello stesso tragico mondo sull’orlo dell’estinzione.

Il concetto di partenza utilizzato da Kojima per concepire l’intero progetto è semplice: la tendenza nell’ambito videoludico è quella di creare mondi in cui lə giocatorə interagiscono tramite il “bastone”, metafora di un qualsivoglia approccio respingente, difensivo e di conquista; Death Stranding ribalta questo paradigma, basando la sua intera architettura sulla “corda”, strumento per legare e tenere vicine le cose a noi importanti. In particolare, quest’ottica si riflette con maggiore intensità nella realizzazione della rete chirale. Questo termine indica una particolare rete di comunicazione in grado di rimettere in contatto i diversi avamposti superstiti a seguito del cataclisma; sarà quindi compito di Sam Bridges rimettere assieme ciò che resta dell’umanità tramite questo strumento, cercando di guadagnarsi la fiducia dellə variə sopravvissutə con il progredire dell’esplorazione.
La rete chirale, costruita sulla falsariga di Internet, non permette solamente di creare un complesso network di comunicazione e interazione tra gli NPC isolati del gioco; tramite il suo ampliamento e potenziamento, infatti, sarà possibile creare, da semplici dati, materiali utili a costruire infrastrutture e strumentazioni di vario tipo. In tal modo viene incentivato il multiplayer asincrono (Kelly, 2011), in cui lə giocatorə sono portatə a collaborare per costruire strade, ripari e stazioni di riposo utili ad altrə utenti, sfavorendo la più che mai dilagante competitività tossica degli ambienti videoludici.

L’intera narrazione di Death Stranding ci viene comunicata attraverso piccoli frammenti nascosti, accessibili proprio grazie alla rete chirale. Tralasciando i vari filmati di gioco, la maggior parte delle informazioni sullo scenario geopolitico o sulla misteriosa natura della Spiaggia vengono recapitate tramite mail dai vari NPC con cui riusciamo a stabilire un contatto. Coltivando le relazioni all’interno del gioco, infatti, saremo ricompensatə con informazioni di vario tipo, dalle storie personali dei vari personaggi, fino ad analisi di stampo scientifico sulla natura delle entità ostili che popolano il mondo di gioco.
L’opera di Kojima non solo esplora l’importanza delle relazioni umane, ma mette in evidenza anche il ruolo dell’interazione con le entità inumane che costituiscono l’ecosistema del gioco. Nel cuore del progetto della rete chirale si trova un oscuro segreto legato alla Spiaggia e alla sua natura ultraterrena, utilizzata come “passaggio” per la comunicazione e il trasferimento di dati. In questo contesto, il ruolo della Spiaggia, strettamente legato a concetti di morte e aldilà, diventa cruciale nella costruzione della rete chirale, mettendo in luce come l’agentività non umana non solo arricchisca, ma costituisca una parte fondamentale, se non la più essenziale, del processo di world-building di Death Stranding.
Non solo: la minaccia rappresentata dalle BT e dalle extinction entities [3] – esseri in grado di scatenare estinzioni di massa solamente tramite la loro stessa presenza e fautori del Death Stranding – sottolinea l’importanza dell’agentività non umana, sia nel modo in cui l’interazione con queste entità provoca cambiamenti drastici e permanenti nell’ambiente di gioco, sia nel processo di costruzione della rete chirale. Questo dispositivo, infatti, può essere visto come uno sforzo collettivo di vari agenti, umani e non, finalizzato a ricostruire le connessioni tra i vari elementi del mondo. In Death Stranding è proprio l’interazione con l’ignoto, con la morte e con le entità non umane a rivelarsi fondamentale nel ricostruire le connessioni, sottolineando come, in un mondo spezzato, siano le relazioni – anche le più impercettibili – a permettere la rinascita.

La riflessione sulla morte e sul concetto di perdita porta verso un world-building reticolare costituito su un modello non antropocentrico. È ciò che è possibile trarre dalle critiche che Donna Haraway muove a proposito dei limiti tanto teorici quanto pratici insiti nel concetto di Antropocene (2019: pp. 76-77). Con il suo richiamo implicito a una situazione catastrofica, il concetto di Antropocene sembra segnare un punto di non ritorno, senza tuttavia recare con sé una riflessione sulla catastrofe stessa. Haraway sottolinea come il mito dell’anthropos distolga l’attenzione dallo sviluppo di una prospettiva multispecie (Timeto 2020). Senza adeguate precauzioni metodologiche e teoriche, l’Antropocene tende a inserirsi in un immaginario che attribuisce agli esseri umani il ruolo di unici attori storici, oscurando le narrazioni e i mutamenti generati dalle interazioni con agenti più-che-umani. Il concetto esteso di anthropos, inoltre, trascura le differenze economiche, politiche e sociali che determinano un impatto ambientale disomogeneo. Non sembra dunque essere d’aiuto nel favorire delle pratiche di world-building alternative al presente. Perché ciò sia possibile, è necessario superare un ulteriore ostacolo metodologico: è fondamentale mettere in discussione la visione del presente come un tempo sospeso tra un passato irrecuperabile – il pre-Antropocene – e un futuro incombente – la catastrofe imminente. Per radicare la propria pratica nella congiunzione dei mondi presenti, Haraway propone il termine Chthulucene: «Chthulucene invece è una parola semplice. È composta da due radici greche (khthôn e kainos) che insieme definiscono una tipologia di tempo-spazio utile per imparare a restare a contatto con il vivere e il morire in forma responso-abile su una Terra danneggiata e ferita. […] Il kainos può essere ricco di eredità, di ricordi, e pieno di arrivi, un modo di nutrire ciò che potrebbe ancora succedere» (Haraway 2019: pp. 13-14).

Quando si cita il pensiero di Haraway, si sottolinea spesso il lato più vicino alla vita e alla proliferazione di nuove forme di collaborazione. Si presta tuttavia meno attenzione all’altra parte di questo ragionamento, che ricopre una funzione altrettanto cruciale, ossia le pratiche che riguardano il morire assieme e responsabilmente. E, tuttavia, è proprio questo accento posto sul deperimento e sulla fine a costituire uno scarto rispetto alle pratiche legate al concetto di Antropocene. Il morire responso-abile evidenzia un rapporto diverso con il passato. Non più inteso come irrecuperabile, il passato o, meglio, i diversi passati influiscono sul presente attraverso connessione e relazioni di cui è necessario farsi carico. Ecco perché un punto fondamentale delle pratiche di world-building reticolare consiste nel concepire questi elementi, all’apparenza opposti alla vitalità del mondo, come delle possibilità per ridefinire nuove connessioni e diversificare la rete di collegamenti.

È ciò che evidenzia l’antropologa Anna Tsing nel suo celebre Il fungo alla fine del mondo: «Per scrivere una storia della rovina, dobbiamo seguire i brandelli di molte storie ed entrare e uscire da molte patch. Nel gioco del potere globale, gli incontri indeterminati rimangono importanti» (2021: p. 314). Tsing arriva a questa conclusione seguendo le micorrize sotterranee del fungo matsutake. Questo fungo commestibile, che si trova in diverse parti del mondo dal clima temperato, è un saprofito, ovvero un organismo che cresce nutrendosi di materiale organico in decomposizione. Ciò che interessa a Tsing è la capacità di questo fungo di crescere e modificare gli ambienti modificati dalla presenza e dalle azioni antropiche.

Feral Atlas, Stanford University, 2021

Il fatto che i funghi stessi siano diventati un vero e proprio riferimento critico evidenzia un cambiamento di prospettiva in atto nella ricerca di modelli alternative per le pratiche di world-building contemporanee. Sempre più designer, artistə, ma anche sviluppatorə di giochi e architettə vedono nelle modalità di proliferazione dei funghi dei modelli per pensare a dei mondi post-Antropocene. La caratteristica fondamentale che consente un tale spostamento è l’infrastruttura sotterranea formata dalle micorrize, una rete interconnessa e complessa di scambio di nutrienti e informazioni. Il micelio consente ai funghi di connettersi con specie diverse, fungendo tanto da rete in grado di mantenere un equilibrio energetico tra le varie parti, quanto da meccanismo di difesa, in caso di minacce. Queste qualità adattive e collaborative dei funghi sono al centro del Growing Pavilion, una bio-architettura progettata dal designer Pascal Leboucq con oltre ottanta pannelli di micelio mescolato a canapa e lino (The Growing Pavilion 2020). 

Growing Pavilion, credits Eric Melander

Il materiale ibrido che ne risulta forma uno strato ignifugo e idrorepellente, mostrandosi come un invito a ripensare le abitazioni domestiche a partire da un modello fungino. Artistə come Nour Mobarak (Marie de Brugerolle 2021), Eloïse Bonneviot e Anne de Boer (Rafferty, 2018), invece, collaborano con il micelio, impiegandolo non solo come materiale nei propri lavori, ma anche esplorando le sue modalità di riproduzione e la sua capacità di interagire con elementi inorganici. 

Un progetto che combina una visione stratificata degli eventi passati con una struttura reticolare caratterizzata da connessioni di natura eterogenea è Feral Atlas (2021), un atlante online gratuito che recentemente ha preso anche la forma di un libro (Tsing, Deger, Saxena, Zhou, 2024). Questo atlante digitale è uno strumento di ricerca e consultazione sviluppato da un gruppo di ricercatərə provenienti da diversi ambiti, come la stessa Anna Tsing, Jennifer Deger, Alder Keleman Saxena e Feifei Zhou. La sua funzione principale è quella di esplorare le intricate trame dell’Antropocene, scegliendo come guide delle feral entities. Queste entità, tra cui rientrano funghi, animali, piante, batteri ed elementi chimici, galleggiano nella pagina iniziale del sito e fungono da portali o punti di passaggio per addentrarsi in un paesaggio trasformato dall’Antropocene. Cliccando su uno dei feral entities, si apre infatti un paesaggio illustrato dall’artista Feifei Zhou. Muovendosi sulla pagina è possibile trovare dei punti rossi denominati points of interest. Ognuno di essi descrive una congiunzione materiale, storica ed ecologica nella quale la feral entity interpellata ha avuto un ruolo centrale o è stata modificata dalla sua presenza. Anche il metodo scelto per descrivere questi elementi si mostra a sua volta trasversale: oltre a contenere dei video, il Feral Atlas si compone sia di documenti scientifici, che possono essere impiegati per ritrovare altre fonti allargando così la ricerca, sia di interventi poetici. Una volta entrati nel point of interest è possibile continuare a farsi guidare da questo testimone nel suo viaggio all’interno di altre relazioni, passando di documento in documento e di relazione in relazione; oppure, è possibile prendere una deviazione, scegliere un altro filo della rete e trovare un percorso che ci porta ai vari strati che compongono questi differenti mondi. 

Si può seguire, ad esempio, la piralide del frassino smeraldo, un insetto originario dall’Asia orientale, il cui nome è legato alla sua abitudine di nutrirsi di diverse specie di frassino, scoprendo così che la sua diffusione nel mondo è strettamente collegata all’invenzione industriale dei pallet e, di conseguenza, allo sfrenato mondo della logistica internazionale. Si può continuare a esplorare questo nodo, aprendo un documento dell’ecologista Marissa Weiss (2020) nel quale si rilevano i legami tra la deforestazione, la produzione di pallet e l’arrivo negli Stati Uniti, a inizio anni 2000, della piralide proprio grazie ai pallet provenienti dalla Cina e dalla Corea, nonché la capacità di questo insetto di proliferare rapidamente e di mutare la morfologia delle foreste americane. Ma si può anche tornare indietro, scorrere fino alla fine della pagina e scegliere di essere accompagnati da altri protagonisti della rete, che si fanno carico di altre storie. In questo caso, ad esempio, si può scegliere di seguire i movimenti ondosi della Noce di mare (Mnemiopsis leidyi), protagoniste, grazie alla loro elevata capacità di adattamento, di una recente invasione nel Mar Nero (Fach, Salihoglu, Oğuz 2023) dovuta – ed ecco che è possibile tornare al punto di partenza – al continuo movimento di merci in questa zona del mondo. Gli innumerevoli esempi e prospettive che questo atlante permette di esplorare rivelano che l’entità di cui si vuole indagare la storia non è altro che un punto, un elemento in una più vasta composizione reticolare. Il Feral Atlas sembra suggerire che creare mondi nell’Antropocene significa lavorare con relazioni, storie e prospettive che complicano l’implicita visione catastrofica che esso porta con sé.

Pur nell’eterogeneità degli approcci impiegati, i progetti presi in esame condividono tre caratteristiche che sono al cuore dei world-building a rete: il decentramento, l’interconnessione e la capacità di adattamento.

Parlare di decentramento significa, in primo luogo, confrontarsi con un modello orizzontale, nel quale  sono implicati più punti di osservazioni e forme di agency. Questo non significa un mondo caotico, ma una pluralità di centri, le cui relazioni mutano in base al punto di osservazione. Ogni singolo soggetto, in questa rete di interdipendenza, presenta un diverso modello dell’ambiente. Il mondo che ne consegue è il risultato di questi modelli, ma anche il loro differenziale: l’insieme di mutamenti e possibilità latenti che possono emergere senza tuttavia far arrivare il coefficiente di entropia a un punto di non ritorno.

L’interconnessione riguarda in modo diretto questo secondo aspetto. Nei mondi reticolari, ad assumere centralità sono i rapporti e le diverse forme di collaborazione che i soggetti e gli enti che li abitano hanno instaurato. Questo spostamento di prospettiva implica che i rapporti precedono gli stessi soggetti, influenzando il loro grado di autonomia e la loro agency. Per riprendere Haraway: «Nessuno vive ovunque; tutti vivono da qualche parte. Niente è connesso a tutto, tutto è connesso a qualcosa» (2019: 52). Ogni legame ha delle qualità specifiche che influiscono su tutti i soggetti implicati. Creare nuove connessioni comporta dunque la possibilità di dare vita a nuove forme di soggettivazione. 

La terza caratteristica riguarda, invece, la capacità di questi nodi di relazioni di sapersi modificare e plasmare trovando nuove forme. Ogni relazione e, in senso più esteso, ogni mondo, possiede un coefficiente di adattamento. Ciò che tuttavia contraddistingue un world-building reticolare è il suo riferirsi a una molteplicità di criteri, molteplicità che riformula alla base il complesso tema dell’adattamento. Considerare il piano evolutivo di un mondo focalizzandosi esclusivamente sulla selezione naturale, ad esempio, significa non scorgere l’insieme di altre forze e incontri che hanno creato collaborazioni e gruppi non fondati su logiche di esclusività (Bridle 2022: pp. 265-266). Ciò che Le Guin sembra suggerire è che lo spostamento di attenzione verso il contenitore porta con sé un nuovo sguardo sull’ambiente. Non più mero sfondo passivo considerato alla stregua di uno ostacolo necessario solamente all’emersione di individui forti, esso si rivela costellato di storie. Il concetto stesso di ambiente diviene protagonista del mondo, sciogliendosi in una pluralità di agentività interconnesse. Capire in una situazione presente come si è formato questo stadio temporaneo di adattamento, ossia scoprire quali processi di simbiosi sono in gioco, ma anche di parassitismo e di commensalismo e altre forme ancora di adattamento e rimescolamento collettivo, assume un ruolo fondamentale. La selezione naturale e la rivalità non vengonoeliminate, ma affiancate e accompagnate da una serie di altri criteri che permettono a questo mondo a rete di concentrarsi anche su altre possibilità di proliferazione e resistenza collettive. Le infrastrutture a rete si pongono come un invito a ripensare la nozione stessa di sopravvivenza, la quale non è più appannaggio di una lotta individuale, ma diviene un processo collettivo, il risultato di interazioni mutualistiche e della stratificazione di eventi e relazioni passate. È nel continuo movimento e nella molteplicità delle relazioni che la rete svela il suo potenziale: ogni nodo può potenzialmente influire sull’intero sistema, ogni relazione può divenire un mondo a sé.

Note

[1] In merito, si veda anche Merleau-Ponty M., Fenomenologia della percezione, Bompiani, 2003.
[2] Nel mondo di Death Stranding, le BT (Beached Things) sono creature che nascono quando l’anima di un essere vivente, dopo la morte, non riesce ad attraversare la Spiaggia per raggiungere l’aldilà, rimanendo così “intrappolata” a metà tra questo luogo e il regno dei vivi tramite una sorta di cordone ombelicale.
[3] Nel mondo di gioco, le extinction entities sono misteriose entità la cui funzione è scatenare un’estinzione di massa tramite la loro stessa esistenza nel mondo. Nel corso della storia del pianeta Terra sono state identificate cinque entità di tale tipologia, rappresentate attraverso diverse forme biologiche (un nautilo, un dinosauro, un mammut, ecc.) e ognuna di esse è causa di una differente estinzione di massa avvenuta nei millenni.

Bibliografia

 

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Davide Tolfo è un ricercatore indipendente che si occupa, in particolar modo, del world-building nell’arte contemporanea e nella fiction teorica. Ha scritto per diverse riviste e piattaforme online come NOT, Il Tascabile, La Deleuziana, Kabul e DinamoPress. Per NERO ha tradotto Guerra sonora di Steve Goodman. È stato assistente di Shubigi Rao per il Padiglione Singapore alla 59a Biennale di Venezia del 2022;  attualmente collabora con bruno.

Nicola Zolin è un sound designer e dottorando in Scienze del Design presso l’Università Iuav di Venezia, dove lavora sul ruolo del suono come elemento narrativo e politico negli ambienti virtuali e digitali. È co-fondatore, assieme ad Alberto Cattani, dell’etichetta discografica Rest Now!, dedicata alle intersezioni tra arti visive contemporanee e musica sperimentale. Ha pubblicato su diverse riviste e piattaforme come Koozarch, La Deleuziana, Kayak, Cactus Magazine, Ludica e Kabul.