IL PARTITO PRESO DELLE COSE
Paesaggio. ìMaCo_Immaginario Materiale Collettivo. Un progetto per la Caffetteria del Sì
di Elisa del Prete e Gaspare Caliri

Da alcuni anni sto lavorando a Bologna con un gruppo di persone. Ci siamo dati un nome, Re:Habitat e ci siamo costituiti anche in associazione nell’intento di sviluppare riflessioni, sperimentare idee e metodologie, e soprattutto alimentare tra di noi un continuo confronto sull’abitare i luoghi. Abbiamo anche un sito, www.re-habitat.org.
Con queste persone si sono tessute relazioni di densità diversa, di frequentazione del tutto irregolare, di lavoro intenso e magari poco dopo di allontanamento.
Perché ve ne parlo.
Perché con alcune di queste persone quando è in cantiere qualcosa di importante nasce immediatamente un allineamento più o meno esplicitato che ci fa trovare tutti in viaggio sulla stessa orbita.
Così è stato per la nascita del Sì. O meglio, la rinascita del Sì. Perché il Sì, formalmente detto Atelier Sì, è uno spazio culturale che ha riaperto i battenti in centro a Bologna dopo oltre un anno di chiusura al pubblico per ristrutturazione, fisica e, a mio parere, anche strutturale e mentale (www.ateliersi.it).
Se prima il Sì era uno spazio teatrale, sede di una compagnia teatrale, che ospitava spettacoli, concerti, feste oltre al lavoro stesso della compagnia, ora è un luogo gestito da un collettivo artistico con progetti, residenze, mostre, workshop, collaborazioni, scambi e condivisioni, e certo ancora spettacoli, feste e concerti, che generano però prima di tutto un vissuto.
Riaprire un luogo della città con tale approccio, interdisciplinare ed esperienziale, dato in convenzione dalla Pubblica Amministrazione, prevede certe responsabilità, ma necessita probabilmente anche di certe leggerezze o, meglio, di momenti di decompressione e spazi di adattamento, per chi entra da fuori e per chi vive da dentro.

Per garantire tale margine di flessibilità, probabilmente, è nata La Caffetteria del Sì, al primo piano, uno spazio del convivio, del chiacchiericcio, del silenzio e dell’ascolto, della degustazione, della scoperta.
Qui, prima ancora delle persone hanno trovato casa i numerosi oggetti che oggi la compongono, raccolti grazie al progetto ìMaCo, Immaginario Materiale Collettivo, proposto da Ateliersi e da snark – space making.

Caffetteria del Sì

Un giovedì sera, la scorsa estate, io e alcune di quelle persone, sempre in rotta sulla stessa orbita, siamo state invitate negli spazi di una ex villa bolognese di campagna a condividere un oggetto. Gaspare Caliri, tra quelle persone, era l’artefice di questo invito mentre Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi, anime fondanti del Sì ci aspettavano, insieme a Diego Segatto, che si sarebbe occupato di parte della restituzione di questo processo che eravamo chiamati ad avviare. A noi si erano aggiunte diverse altre persone tra amici e colleghi e ad ognuno, ognuno di questo primo gruppo di scambio era stato chiesto di portare un oggetto da donare alla Caffetteria, e con esso una ragione che ne motivasse la scelta…

     «ìMaCo è un esperimento di crowdfurnituring, ossia un crowdfunding di oggetti donati da una comunità di persone, per avere l’occorrente (stoviglie, sedie, tavolini, lampadari, poltrone, apparecchiature, ecc.) che serve ad aprire una caffetteria speciale: quella del Sì, che sarà avviata a fine settembre.

ìMaCo è anche un esperimento di narrazione di una comunità. Sarà un paesaggio di oggetti funzionali e di storie: di oggetti che prima sono di una persona sola, e poi diventano di tutti – e non di nessuno.

Tutti possono farne parte. Basta portare un oggetto che si pensa possa vivere nella futura caffetteria del Sì. Vi chiederemo di raccontarci la storia dell’oggetto. La prima parte della sua storia: la seconda parte, la potrete vivere ogni giorno, insieme agli altri oggetti, al Sì».

     Con queste parole è stato descritto il progetto sul gruppo Facebook dedicato, quasi un anno fa. Oggi la caffetteria è uno dei luoghi più riconoscibili della città, grazie anche all’accostamento di oggetti alimentato durante la raccolta di ìMaCo.

     Il periodo della raccolta è durato tre mesi – fino alla riapertura del Sì, a settembre 2014. A ogni “donatore” veniva richiesto di compilare una scheda, per alimentare il nostro archivio di storie di oggetti, consultabile online e visitabile direttamente in caffetteria.

      Salendo al primo piano del Sì, in via San Vitale a Bologna, si ha subito l’impressione di un “paesaggio di oggetti funzionali”. Si coglie quella serena tensione che contraddistingue ogni paesaggio, fin dalla sua nascita (come termine e come concetto): quando cioè Von Humboldt, in Sud America, si portava appresso illustratori e ritrattisti per “apparecchiare” le rappresentazioni del “tipico”. Ogni paesaggio è una composizione, un accostamento controllato per dare conto di tante storie che si incrociano. In caffetteria si coglie la tipicità di un immaginario, che è costruito da un punto di vista, o meglio: ricostruito.
     Per ìMaCo, infatti, abbiamo dato nuovo valore a oggetti un tempo altrimenti appartenenti a paesaggi standard quotidiani. Nessuno degli oggetti donati ha una storia più rilevante delle altre, nessuno di essi spicca sopra al paesaggio di cui è parte. È come se, cambiando “proprietario”, gli oggetti si fossero egualmente “ricaricati”, da un punto di vista narrativo. La proprietà, in questo caso, non è solo intesa dal punto di vista di “possedimento materiale”, ma anche di dominio dello sguardo: una tazzina è di chi la guarda, di chi la consuma giorno dopo giorno, scaricando narrativamente la relazione tra sé e la tazzina stessa. Oggi quella tazzina, in caffetteria può ricaricarsi grazie allo sguardo altrui.

Dunque le cose ci sopravvivono. Continuiamo a liberarcene ma poi ritornano, altrimenti non avremmo problemi di spazio, discariche, inquinamento e riciclo.

E quelle vecchie sembra ci sopravvivano ancora di più, ce le ritroviamo sempre lì, sotto una forma o un’altra, non smettono mai di circolare.
Quando è morta mia nonna mi sono tolta un anello dal dito e gliel’ho regalato. Sì, gliel’ho regalato, le piaceva e mi sembrava importante, chissà perché, in quel momento lasciarlo a lei. Dopo ho capito che l’avevo fatto sì perché volevo che si ricordasse di me (capito? che lei grazie a quell’anello si ricordasse di me…!), ma soprattutto perché mi sembrava così brutale che il suo corpo, nel tempo, si decomponesse, si disintegrasse senza lasciare niente, senza che di lei rimanesse niente a parte stracci di vestiti diventati brandelli insignificanti. Sì, volevo che qualcosa le sopravvivesse. Immaginavo che un giorno, scavando, qualcuno si imbattesse in questo anello, grosso, meticcio, con una grande pietra violacea ovale. Di quelli che trovavo ai mercatini dell’usato, di quei vecchi oggetti che ritornano, di cui mi disfavo e riapproriavo ciclicamente. Immaginavo che quell’anello, per il fatto di accompagnare la morte, avrebbe potuto varcare il mondo, portandosi dietro un po’ di me, un po’ di lei.
Mia nonna lo ammirava perché per lei era una pietra di valore semplicemente per la magnificenza e importanza che assumeva al mio dito. Mia nonna credeva, credeva a tutto il valore che un oggetto poteva incorporare. Credeva che il manifesto di Picasso sulla testata del suo letto in montagna fosse un vero Picasso. Credeva ai videogiochi. Credeva che nella scatola che mi ha lasciato dove aveva conservato tutti gli spartiti e i libretti di mio zio, suo fratello musicista, ci fosse la “sua” musica. Credeva, di certo inconsciamente, nel portato narrativo e simbolico delle cose.
Immaginava. Era felice di credere che in un oggetto si nascondesse un tesoro. Che differenza faceva se era la “sua” musica o no, visto che lei non la sapeva leggere. Che differenza faceva se la pietra del mio anello era “buona” o “matta” una volta indossata se tanto non doveva essere venduta.

 

     Le relazioni narrative sono oggetto di analisi della semiotica, che è appunto la scienza della narratività. È con essa che abbiamo approcciato una descrizione di quello che è successo a questi oggetti, grazie a ìMaCo. L’oggetto vero della semiotica è la relazione tra soggetto e un oggetto di valore – ossia ciò che succede prima, quando un soggetto è distante dal proprio oggetto di valore, e dopo, quando si sono congiunti. Tutto quello che accade in questo passaggio è animato, messo in moto, da valori. La semiotica permette di trovare, dietro ai passaggi narrativi, quali valori emergono e di organizzarli e rappresentarli attraverso uno strumento, il cosiddetto “quadrato semiotico”.

     Il quadrato semiotico, come tutta la semiotica, è uno strumento di descrizione. È un modo per rappresentare la dinamica fenomenologica attraverso la quale i valori trovano posto nel mondo, nel nostro modo di raccontare storie, comunicare in generale o partecipare a una situazione. Nel caso di ìMaCo ci serve a entrare con maggior complessità nel merito dell’opposizione tra privato e pubblico, uno dei temi principali messi in gioco dalla serena tensione creata dall’Immaginario Materiale Collettivo.

      Normalmente si dice che il pubblico è la negazione del privato. Come se il “privato”, cioè soggetto a proprietà privata, avesse una polarità positiva e il “pubblico” una negativa, opposta. Il rischio di questa banalizzazione è che se neghiamo il privato neghiamo una “proprietà” privata. Quindi, se il privato ha un proprietario, il pubblico non è di nessuno.
     Questo gioco delle parti e delle relazioni non fa bene a uno spazio pubblico come la Caffetteria del Sì, e non fa bene in generale al “public”, come dicono bene gli anglosassoni, ossia al dominio pubblico in senso ampio.
     La Caffetteria del Sì è un luogo che ha accumulato punti di vista privati e ne ha creato uno pubblico, che non nega quelli di partenza ma li riassume, dando loro nuova linfa narrativa.
     E qui torna il quadrato semiotico.
     Come funziona un quadrato semiotico?
     Il quadrato semiotico ha un’opposizione su un asse superiore, e un’altra su quello inferiore. Sopra si mette l’opposizione di valori da cui si inizia, come bene VS male. Sotto, si mettono i rispettivi “subcontrari”, ossia la coppia delle negazioni dei valori di cui sopra (es. non male VS non bene). I valori “sopra” sono assertivi, quelli sotto sono “partitivi”, ossia un po’ più vaghi. Per tornare al nostro esempio: “non male” non vuol dire necessariamente “bene”, ma è un insieme di cui il “bene” è parte.
     Per fare entrare in moto il quadrato semiotico serve un motore e il carburante. Il motore è la circolazione dei valori. Il carburante è la narratività, ossia la tensione del passaggio da uno stato a un altro stato, attraverso un movimento. Detto altrimenti, il quadrato non è statico. Si è detto narratività e non narrazione: la narrazione è una storia singola, la narratività il movimento profondo che spiega come quelle storie significano.
     La direzione narrativa non va da un valore direttamente al suo opposto, ma attraversa una “negoziazione” tra valori subcontrari, più generici. Per andare dal “bene” al “male” si passa dal “non bene”. Si passa da un momento di attrito, più vago e per questo più aperto alla trasformazione.
     Nel nostro caso, per passare da oggetto “privato” a oggetto “pubblico” (l’asse superiore, dei contrari), si passa necessariamente sull’asse inferiore dei subcontrari dove l’oggetto “privato” diventa anche oggetto “non pubblico” e quello “pubblico” diventa anche oggetto “non privato”.

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Per passare da oggetto “di una persona sola” a oggetto “di tutti”, l’oggetto ìMaCo dovrà dunque passare grazie al movimento dettato dalla narratività, dallo status di oggetto “di qualcuno”. In altre parole: se non vogliamo che lo spazio pubblico non sia di nessuno ma sia di tutti, bisogna negare la singola “proprietà” e andare verso una trasformazione di proprietà. Ossia, prima di diventare di tutti, la tazzina passa dalla comunità di appartenenza del primo proprietario, a cui l’oggetto viene raccontato.
     Si tratta dunque di un dispositivo fortemente inclusivo, che fa cambiare status agli oggetti e permette loro di abilitare una dimensione pubblica più “affermativa” – e non “privativa” come sarebbe se fosse stato collocato nello spazio pubblico di nessuno.

     Chi entra a far parte di questo “circolo ìMaCo” fa a meno di qualcosa per avere per sé qualcosa di più, da un punto di vista narrativo, e così facendo entra a far parte di una “comunità”.
     Questo passaggio dall’appartenere a un privato all’appartenere ad una comunità che è tale per le storie che condivide, diventa metafora della visione stessa di Atelier Sì, che si propone come luogo inclusivo e non si presta alla fruizione di soli “spettatori” passivi, ma si alimenta di co-creazione con la propria comunità di frequentatori.

     Grazie a ìMaCo la Caffetteria del Sì oggi ha tavoli, sedie, bancone, bicchieri, tazze e posate…una comunità di oggetti parlanti funzionale alla sua attività.
     La ragione per cui, quel giovedì sera ho donato quel tavolino giallo e verde ce l’ho ben chiara. Non amavo quell’oggetto se non per il fatto di essermi stato regalato da certe persone. L’idea di disfarmene mi faceva stare male, l’occasione di condividerlo mi sollevava dalla sua presenza, dalla necessità di occuparmi del suo destino.
      Come me probabilmente molti altri si sono disfatti di oggetti di pesante presenza, oggetti cari, affettuosi, magari un po’ goffi, mal riusciti, ad oggi inappropriati, oggetti che sappiamo ci sopravviveranno, che non si esauriranno mai, che sono destinati a rimanere, oggetti che insieme raccontano in uno spazio pubblico la storia materiale di case private, di una comunità che ha scelto di condividere lo spirito di una circolazione.

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Disegni: Eva Geatti
Montaggio: Kabu
www.ateliersi.it/si/imaco

La Lampadona, visualizzazione per ìMaCo di Eva Geatti, artista e performer.
Animazione in stop motion che racconta veloce veloce la storia di un oggetto, o anche sequenza di disegni eseguiti uno a uno e scannerizzati, metafora della cura che si può avere verso le cose vecchie e un loro scambio.

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Elisa Del Prete è storica dell’arte e lavora come curatrice. Dal 2007 è fondatrice e direttrice di Nosadella.due (www.nosadelladue.com), programma di residenza per artisti e curatori focalizzato su progetti di public art su cui sviluppa la sua attuale ricerca. Scrive per “doppiozero.com”.

Gaspare Caliri è semiologo di formazione e lavora come service designer. Sviluppa percorsi di co-progettazione, community engagement. E’ presidente di snark – space making, socio di Kilowatt, co-fondatore di CUBE (Centro Universitario Bolognese di Etnosemiotica) e coordinatore di SentireAscoltare, rivista di critica musicale.