La maggior parte del patrimonio conservato nei nostri musei è formato da oggetti; alcuni sono delle vere e proprie opere d’arte, dipinti, sculture, pensate per le pareti o i piedistalli di questi spazi, altri sono oggetti quotidiani che descrivono i “nostri usi e costumi”, i nostri mestieri, le “nostre tradizioni”, altri ancora provengono invece da culture a noi lontane. La varietà tipologica di cose contenuta nei musei occidentali è quindi molto vasta, tanto da far porre l’interrogativo su cosa andrebbe preservato, come, perché, e soprattutto per chi.
La tendenza dell’Occidente e, in particolare del museo moderno, di farsi carico di salvaguardare alcuni oggetti del passato, risponde al suo «insaziabile desiderio di collezionare il mondo, e al suo potere di farlo»1. In una pretesa di verità scientifica e di oggettività, l’occidente racconta si sé e degli altri, attraverso l’immagine che ne ha costruito. In questo senso, la funzione primaria degli oggetti, confinati «in uno spazio che è quello del residuo»2, è quella di «evocare il meraviglioso di una certa epoca, o di sostituirsi o di identificarsi ad essa come la parte al tutto»3.
Ma quali pratiche adottano o dovrebbero adottare i musei quando gli oggetti da soli non bastano ad esprimere un ampio campo del pensiero o quando risultano addirittura inadeguati, poiché quel particolare aspetto della vita consiste soltanto di idee? Il ruolo di tutore e narratore di tutti quei patrimoni immateriali che non possono essere chiusi nelle teche o non possono essere appesi alle pareti, è stato riconosciuto al museo ufficialmente e a livello internazionale già nel 20044. Si tratta ora di capire come restituire questi patrimoni fatti di memorie e ricordi, di testimonianze che non si prestano alla visione, ma alla lettura, quando il visitatore si aspetta «che gran parte della sua attività durante la visita si risolva nel guardare, altrimenti sarebbe rimasto a casa e avrebbe letto un libro sulla cultura in questione»5. Come può, dunque, un museo ricordare e trasmettere ogni singola storia e documentare allo stesso tempo l’uso di ogni oggetto, senza togliere al visitatore quella meraviglia che deriva dall’esperienza visiva? La risposta sta nella scelta della narrazione come forma di condivisione intimistica tra individui, un approccio diametralmente opposto a quello scelto da alcuni musei incentrato esclusivamente sull’informazione. Un collettivo artistico, Studio Azzurro6, da anni lavora in questa direzione e i loro allestimenti hanno reso l’esperienza di “visita” al museo un evento performativo, irriproducibile altrove7. La scelta di passare da un museo che colleziona oggetti ad un museo che narra le loro storie, risponde ad una necessità contemporanea e produce narrazioni aperte, discontinue, polifoniche, adatte ai linguaggi e alla cultura immateriale della nostra epoca. «L’attenzione si sposta così dall’oggetto al racconto intorno all’oggetto, ricontestualizzandolo e facendolo uscire dalla sua immobile sacralità»8. Attraverso la narrazione, oltre che gli oggetti, si riesce a salvaguardare una cultura orale che sembrava essere stata esclusa dalle vicende museali a causa delle sue caratteristiche di indeterminatezza, simultaneità e frammentazione, e che invece «può divenire centrale per la sua capacità di riprodurre lo stato emozionale della comunicazione diretta e trasformare il percorso anche in ascolto comune»9. Attraverso la narrazione, è possibile recuperare «quella densità umana propria del raccontare a voce, che soprattutto risiede nei gesti, nelle espressioni, nella luminosità degli sguardi, nell’intensità dei silenzi»10.
Oggi è quindi sempre più importante e necessario trovare una forma di museo che possa prendere in considerazione e restituire, oltre che le testimonianze materiali, anche le relazioni sociali, le identità complesse e il patrimonio orale che caratterizzano le nostre società contemporanee. Questo comporta la necessità di trasformare il museo in un luogo: «[…] where objects are contextualized instead of historicized. One where things are not exhibited but activated, given use-value instead of representing it. One that is not a structure but a moment; that is not a place to visit but a presence»11. Un luogo dove la parola esporre non è sinonimo solo di mostrare, ma di narrare e la narrazione è uno dei dispositivi attraverso cui opera proprio la memoria.
Ma allo stesso tempo l’oggetto è anche la sua fisicità, poiché il mondo, in ogni caso, è una presenza e non un ricordo soltanto. Vorrei menzionare due spazi, in Italia, che hanno adottato la narrazione personale come forma di racconto per le loro raccolte, partendo però dall’oggetto fisico: la Fondazione Museo Ettore Guatelli a Ozzano Taro, in provincia di Parma, e PortoM a Lampedusa. Realtà diverse per collocazione storica, geografica, per interesse, per contesto sociale e politico e per stato di avanzamento; mentre il primo, nato a metà del Novecento, è divenuto Fondazione nel 2003 a tre anni dalla morte del suo autore Ettore Guatelli, PortoM, nato nel 2009 dalla volontà dell’associazione Askavusa e in particolare da un suo membro, Giacomo Sferlazzo, è tutt’ora uno spazio indipendente. Il Museo Guatelli e PortoM contengono le cose più disparate, nelle condizioni più diverse. Guatelli ha raccolto più di 60.000 oggetti del suo quotidiano, quelli di cui le case del suo tempo erano piene; tazze, orologi, coltelli, lattine, scarpe. Lo spazio PortoM è invece pieno di oggetti sopravvissuti al più difficile dei viaggi, quello migratorio. Cambia la società quindi, cambiano le problematiche, cambia la tipologia delle cose che si vogliono conservare; ma ciò che accomuna entrambi è il legame forte dei loro patrimoni con il contesto territoriale e storico da cui nascono, in tutta la sua complessità.
I loro spazi, pieni di oggetti, contengono anche quelle storie e relazioni umane che danno sostanza e densità alle cose, restituendo loro la «relazione tra respiro e pensiero che la maggior parte dei musei, focalizzandosi solo sull’oggetto, ha messo a tacere»12. La fisicità degli oggetti entra in relazione ad un discorso sul dentro, su ciò che l’oggetto contiene in termini di proiezioni ed esperienze degli individui cui apparteneva o con cui è entrato in contatto. A questo rapporto tra materiale e immateriale, si aggiunge un terzo livello, determinato dalla voce di chi ha deciso di raccogliere quegli oggetti. Una voce posizionata, che nel racconto mette in mostra il processo stesso di costruzione del discorso. Per Ettore Guatelli e Giacomo Sferlazzo, gli autori di queste due raccolte, quindi, non sono importanti solo le cose che hanno raccolto, ma come sono arrivate loro e che percorsi hanno traversato. Senza questi aspetti poetici e politici che coinvolgono individui, famiglie, gruppi sociali e, non ultimo, i nostri due autori, il museo Guatelli e PortoM non sarebbero quello che sono. In quest’ottica Ettore Guatelli e Giacomo Sferlazzo, privilegiando la narrazione come attività di produzione di senso, hanno accettato la precarietà di ogni definizione, a favore di scritture e narrazioni provvisorie, dialogiche. Così, le persone che entrano in questi spazi, entrano contemporaneamente anche nelle storie private di Ettore Guatelli e Giacomo Sferlazzo, collocando le loro esperienze su uno sfondo più ampio, più significativo, espandendo così i confini del singolo. Il narrare diviene quindi un’azione sociale contestata e negoziata con gli altri e il museo si trasforma in uno spazio di condivisione, un luogo dove mettere in comune storie. L’oggetto diventa così un «condensatore di relazioni; in esso non leggiamo semplicemente un ritratto del suo possessore, ma relazioni tra storie, persone, luoghi»13.
Questa maniera di narrare su più livelli e attraverso diversi linguaggi, permette di restituire alla storia e al presente la sua forma non lineare e l’impossibilità di un unico punto di vista nel suo racconto. Così, durante l’esperienza all’interno di questi musei, le comunità non vi si riconoscono, ma si creano.
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1 J. Clifford, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo xx, Torino, Bollati Boringhieri, p. 228, (ed. or. 1988).
2 L. Gabellone, L’oggetto surrealista. Il testo, la città, l’oggetto in Breton, Torino, Einaudi, 1977, p. 9.
3 L. Gabellone, Op. cit., p. 22.
4 L’ICOM (International Council of Museums), durante la 21^ Assemblea Generale tenutasi a Seul nel 2004, ha infatti revisionato il suo Codice Etico, inserendo, tra le altre cose, la definizione di museo come: un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo. E’ aperto al pubblico e compie ricerche che riguardano le testimonianze materiale e immateriali dell’umanità e del suo ambiente; le acquisisce, le conserva, le comunica e, soprattutto, le espone a fini di studio, educazione e diletto.
5 M. Baxandall, Intento espositivo. Alcune precondizioni per mostre di oggetti espressamente culturali, in I. Karp, S. D. Levine (a cura di), Culture in mostra, poetiche e politiche dell’allestimento museale, Bologna, CLUEB, 1995, pp. 15-16.
6 Studio Azzurro è un collettivo che da più di trent’anni utilizza le nuove tecnologie per la realizzazione di videoambienti, allestimenti e percorsi museali, performance teatrali, opere musicali e film.
7 Grazie agli allestimenti di Studio Azzurro il museo, da un spazio di collezione, si trasforma in uno luogo di narrazione. Si veda ad esempio l’allestimento realizzato nel 2008 per il Museo Laboratorio della Mente, nel Comprensorio Santa Maria della Pietà, Monte Mario, Roma, o il Museo Audiovisivo della Resistenza, delle province di La Spezia, Massa e Carrara, realizzato a Fosdinovo, La Spezia, nel 2000.
8 Studio Azzurro, Dai musei di collezione ai musei di narrazione, in F. Cirifino, E. Giardina Papa, P. Rosa (a cura di), Musei di narrazione. Percorsi interattivi e affreschi multimediali, Milano, Silviana Editoriale, 2011, p. 13.
9 Ivi, p. 14.
10 Ivi, p. 15.
11 T. Bruguera, Features. Tania Bruguera, in I. Chambers, G. Grechi, M. Nash (edited by), The Ruined Archive, Politecnico di Milano, Milano, MeLa Books, 2014, p. 11.
12 Di questa relazione tra respiro e pensiero ne ha scritto M. Taussig in Cocaina. Per un’antropologia della polvere bianca, Milano, Bruno Mondadori, 2005, (ed. or. 2004), parlando del poporo, un oggetto presente nel Museo dell’Oro di Bogotà.
13 F. La Cecla, Non è cosa. Vita affettiva degli oggetti, Milano, Elèuthera, 2013, p. 9.
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* Estratto della tesi di Laurea Magistrale dell’autrice dal titolo: Musei Personali e Affettivi. Fondazione Museo Ettore Guatelli e PortoM