L’Italia è un paese a forte vocazione culturale, benché questo aspetto venga spesso trascurato.
La ricchezza del nostro patrimonio culturale sembra essere inversamente proporzionale alla considerazione di cui è fatto oggetto, tanto che non sorprende la mancanza in Italia – caso unico in Europa – di una strategia nazionale per le industrie creative (Sacco 2010). E così, quanto a spesa pubblica per la cultura, l’Italia rappresenta il fanalino di coda dell’UE, con appena l’1,1% del PIL contro una media del 2,2%, peggio anche della Grecia che, in piena crisi finanziaria, ha continuato a investire nella cultura l’1,2% della propria economia (Eurostat 2011).
Eppure, mai come in questo scorcio di XXI secolo, la cultura sembra essere la vera risorsa della Penisola. In questi anni, infatti, mentre a Roma alcuni Ministri dell’Economia e dei Beni culturali sono arrivati a dibattere se di cultura si potesse mangiare o meno (Arpaia e Greco 2013), in Italia il macro-settore culturale – per intendere quello che comprende l’arte, i musei e le industrie culturali, fino a tutto l’indotto da esso derivato – ha messo a segno numeri da capogiro, passando dal 9% del PIL nazionale, nel 2008, fino al 15% nel 2012, con circa 4 milioni e mezzo di impiegati, equivalenti al 18,1% della forza lavoro nazionale (Symbola). In pratica, a dispetto delle diatribe ministeriali, si è dimostrato che ogni due nuovi occupati nel macrosettore in questione se ne genera almeno un altro nell’indotto, tanto che un investimento di €100 nella cultura arriva a generare complessivamente un aumento di €249 di PIL nel sistema economico totale, di cui €134 Euro in settori diversi da quello culturale (The European House-Ambrosetti 2010).
Non si tratta solo di numeri, ma di una sorta di rivoluzione copernicana che ha portato la creatività a valere quanto la stessa tecnologia, se non di più. In fondo, è stato lo stesso sviluppo tecnologico a evidenziare l’importanza, anche economica, della cultura. In questa ridefinizione di prospettive, la ricerca/caccia al “creativo” è divenuta fondamentale quanto quella delle energie rinnovabili. Per questo sembra opportuno riaprire un dibattito sulla creatività in parte sopito dai tempi delle manifestazioni del ’68 e di fronte al quale molti intellettuali contemporanei sembrano essere impreparati.
Alcune domande s’impongono. Che ruolo sono chiamati a svolgere i “creativi” in una società che fino a poco tempo fa sembrava essere indirizzata sui binari del pensiero “a una dimensione”? E come e da chi sarebbero formati gli “artisti” contemporanei se, nel frattempo, il mondo intellettuale ci ha abituato all’esercizio di una conformità culturale senza troppi scossoni?
Per cominciare a cercare un risposta occorre osservare l’ambiente in cui l’uomo moderno si trova a vivere e, quindi, a elaborare cultura. Marshall McLuhan è stato uno dei più acuti osservatori dell’impatto sulla cultura da parte delle innovazioni tecnologiche, prima fra tutte la stampa a caratteri mobili, che ha portato alla nascita dell’ “uomo tipografico”(McLuhan 1962) e allo sviluppo della cultura individualistica e razionalista del mondo occidentale. Secondo il sociologo canadese e la sua scuola, il motivo di un tale impatto risiede in buona parte nell’utilizzo prevalente dell’emisfero cerebrale sinistro, deputato alle operazioni matematiche e alla logica. Per contro, l’emisfero destro è quello in cui avvengono le operazioni simboliche, in cui si sviluppa il pensiero creativo e olistico, e dove hanno sede le emozioni. Per McLuhan, se è vero che i due emisferi sono sempre interconnessi, la prevalenza di uno sull’altro può avere notevoli conseguenze sul piano dell’attività mentale e quindi sull’elaborazione culturale. Con l’invenzione della stampa a caratteri mobili il mondo moderno ha conosciuto l’affermazione dell’universo lineare, razionale e logico scandito dall’emisfero sinistro. La tendenza si è progressivamente affermata nel corso dell’ultimo mezzo millennio, fino a quando, improvvisamente, il predominio dell’emisfero sinistro è stato messo in discussione da quegli stessi mezzi di comunicazione che sono stati il frutto più maturo del razionalismo tecnologico. L’invenzione della radio, insieme all’avvento del cinema e a quello della televisione, ha portato nelle case di tutto il mondo una panoplia d’immagini, suoni, colori e simboli che sempre meno seguono il ritmo lineare e logico della scrittura a stampa. Si tratta di stimoli che vanno a colpire direttamente l’emisfero destro del cervello e che riportano prepotentemente alla ribalta della cultura planetaria una prospettiva olistica, una mentalità simbolica, un insieme di pratiche rituali e un dilagare di emozioni sempre meno controllate.
Stimoli nuovi e antichi allo stesso tempo.
La dimensione creativa, immaginativa, onirica, che si pensava fosse stata accantonata definitivamente dal progredire della società razionalista e positivista, si è nuovamente imposta all’attenzione, fino ad apparire fondamentale per lo sviluppo delle società moderne. “L’immaginazione al potere!”: lo slogan che campeggiava sui muri parigini dal maggio 1968, da questo punto di vista appare emblematico dell’apertura di un ciclo in cui la creatività è percepita come nuova utopia sociale. Non sempre i frutti sono stati quelli sperati. Il XX secolo è stato comunque un’epoca di grandi cambiamenti, dei totalitarismi e del loro crollo, e poi delle mode, dei movimenti studenteschi e sindacali, delle rivendicazioni troppo repentine per diventare utopie, dei diritti umani, della libertà e soprattutto della democrazia, vera e propria parola d’ordine universale.
Se l’uomo è un animale simbolico, come ricordava Ernest Cassirer, le sue potenzialità, per quanto sopite, sono sempre pronte a manifestarsi. E i nuovi media hanno cambiato l’ambiente in cui l’uomo moderno si trova a vivere. Nel corso del XX secolo sono stati creati oggetti di culto, icone di stile, divi della carta patinata e del cinema. La dimensione simbolica – se non addirittura totemica – dell’oggetto di consumo che è alla base di buona parte dell’immaginario contemporaneo, ha stimolato la nascita di sempre nuovi oggetti del desiderio. Il rinnovato interesse per l’aspetto simbolico e cerimoniale degli oggetti non si è tramutato solo in consumismo. Anche l’arte è tornata a essere un elemento fondamentale della vita sociale, per le generazioni più giovani e non solo per quelle. E se le multinazionali sono diventate sempre più potenti, se alle radio e televisioni libere sono subentrate quelle commerciali, è sempre viva la speranza che i movimenti ecologisti, i no global, e le ONG, gli artisti, gli scrittori e i creativi, possano mettere un freno al consumo delle risorse del pianeta e dei portafogli delle famiglie, rinnovando la perenne battaglia tra Davide e Golia.
La rete permette un accesso pressoché illimitato a un vasto archivio di testi, immagini, suoni e video. L’impetuoso sviluppo della cultura digitale sembra segnare un punto decisivo a favore dei piccoli Davide ed è salutata come baluardo di nuove possibilità libertarie. All’incerta democratizzazione politica sembra possa subentrare una più concreta democratizzazione dei saperi, una piena circolazione delle conoscenze, una globalizzazione delle possibilità.
In questo scorcio di XXI secolo, al desiderio di libertà ha fatto eco la richiesta di creatività
Il tema della “immaginazione”, rivoluzionario ai tempi del ’68, è diventato, anche per l’industria, una necessità, per quanto ancora non compresa da molti intellettuali vecchio stampo. Ma non si può dar loro torto, poiché i cambiamenti sono avvenuti molto velocemente. Secondo Baudrillard, “ci troviamo in un universo nel quale si dà sempre più informazione e sempre meno senso”(Baudrillard 1995, 55).
La velocità sembra essere la chiave di volta per la comprensione dell’indirizzo preso dagli avvenimenti odierni. E con la velocità collassano anche lo spazio e il tempo, e con essi le categorie del pensiero. La dimensione immaginale – che secondo Henry Corbin va aldilà della semplice immaginazione – ha trovato modo di essere non solo pensata, ma visualizzata e fruita a ritmi crescenti. Quello che un tempo si poteva concepire solo con la fantasia, oggi lo si può vedere con i propri occhi. Il confine tra realtà virtuale e mondo concreto si è fatto evanescente. L’uomo passa rapidamente da uno schermo all’altro, da quello dello smartphone al laptop, dalla televisione al cinema, al videogioco. Ogni schermo è un mondo, una finestra su una nuova realtà. Questa frenetica attività multitasking non è senza conseguenze. Oltre un certo ritmo si trascende la soglia dell’attenzione e della consapevolezza. Secondo la scuola di McLuhan, la televisione è il primo media che ha fatto “collassare l’intervallo tra stimolo e risposta”, non consentendo al cervello di processare tutte le informazioni ricevute (De Kerckhove 1997). Con i media digitali e lo sviluppo della realtà virtuale questo collasso avrebbe assunto dimensioni ancora maggiori, approfondendo lo iato tra le elaborazioni dei due emisferi cerebrali. In altre parole, più siamo collegati in rete, più siamo scollegati dentro la nostra testa.
Un gruppo di ricercatori dell’Università del Sussex ha condotto una ricerca sugli effetti cerebrali di un’intensa attività mediatica multitasking, come quella che s’effettua passando da uno schermo digitale all’altro, arrivando alla conclusione che utilizzare contemporaneamente smartphone, laptop e altri dispositivi informatici può cambiare la struttura del cervello (Loh e Kanai 2014). L’aria interessata è, in particolare, quella della corteccia cingolata anteriore (ACC, anteriorcingulatecortex), definita anche come area del “sesto senso”, il luogo delle intuizioni e della percezione anticipata del pericolo (Brown e Braver 2005). Più si passa del tempo a navigare in rete, saltellando da uno schermo all’altro, meno si riesce non solo a riflettere, ma anche a essere creativi, a trovare soluzioni e intuizioni originali.
Il paradosso del creativo è questo. Nel mondo moderno la dimensione immaginale e la pratica creativa sono diventate un elemento fondamentale nella comunicazione dei saperi immateriali così come dei prodotti materiali: c’è sempre più bisogno di creativi. Parallelamente, però, il creativo, immerso nei mondi digitali, rischia di scollegarsi dalla dimensione creativa stessa, di venir meno a quell’imperativo di sintesi tra pensiero e immaginazione che rappresenta la sua stessa missione. Una possibile risposta deve quindi tenere in considerazione, da un punto di vista teorico, il rapporto tra uomo, creatività, formazione, libertà e, da quello pratico, l’individuazione di una metodologia di trasmissione del sapere, applicabile all’interno delle nostre Accademie.
Carlo Levi, in alcuni suoi scritti, sostiene che l’identità nazionale italiana sia un’identità estetica che investe sulla forma: “la vita italiana ha sempre trovato la sua origine, la sua prima espressione nell’arte (…) in tutte le parti d’Italia, le prime immagini infantili del mondo sono quelle di un mondo di arte e di forme espressive (Levi 1975). Per lo scrittore e artista piemontese la cultura è una condizione/azione in senso umanistico, implica la centralità dell’uomo “libero” come vera matrice della creatività e del cambiamento. Nella lettera inviata ai “cari amici di Teramo”, pubblicata in “La Battaglia delle idee”, egli precisa: “la cultura (…) è una condizione dell’uomo che si muove attivamente per creare, in ogni momento, una propria unità; è l’espressione, in tutte le sue forme infinite e particolari, della libertà. Per questo è cultura, sul piano individuale, tutto ciò che lo libera dall’incertezza esistenziale, dalla alienazione, dalla inesistenza. Per questo sono cultura, sul piano collettivo, i movimenti di libertà. (…) Per questo sono grandi fatti di cultura, altrettanto importanti che le scoperte scientifiche o le opere d’arte, le lotte di classi e di popoli nuovi, che attraverso di essi riscoprono nuove lingue, nuova storia, nuove dimensioni del mondo”.
Levi sottolinea l’importanza degli studi umanistici per tornare all’uomo e poi arrivare alle conquiste pratiche: tale modus pensandi et operandi garantisce trasversalità, interdisciplinarità, capacità di approccio critico e di visione d’insieme, condicio sine qua non della pratica creativa. Il connubio cultura/formazione/libertà è la cultura stessa, non asservita al potere, la quale ha il potere di rendere l’uomo libero, autosufficiente intellettualmente e socialmente. In tale approccio risiede la possibilità del cambiamento e dell’evoluzione: “il dominio dell’uomo consiste solo nella sua conoscenza: l’uomo tanto può quanto sa” (Bacone); ecco perché pericoloso per il potere è che nel sapere è il potere, mentre chi governa non vuole il libero arbitrio del popolo, ma la sua governabilità e “ordinaria gestione”.
In questa prospettiva deve muovere una riorganizzazione dei saperi, una rivalutazione dell’attività di artisti, musicisti, scrittori. Si pone il problema della formazione delle nuove generazioni. Le accademie entrano in una fase di profonda riorganizzazione, anche in Italia. Da loro ci si aspetta lo sforzo di riconfigurare la formazione culturale dei giovani, aiutandoli a non essere più solo consumatori, ma anche produttori, a maneggiare attivamente le nuove tecnologie, a farne strumento espressivo e lavorativo.
Ormai è chiaro che le nuove tecnologie, da sole, non faranno miracoli, tanto meno libertari, come si riteneva erroneamente fino a pochi anni fa. Ancora nell’ottobre 2004, Chris Anderson, direttore della rivista Wired, nota come la “Bibbia di Internet”, pubblicava un articolo dedicato ai nuovi modelli commerciali che emergevano dalla cultura digitale. Anderson profetizzava la fine dell’epoca dei blockbuster, dei prodotti culturali campioni d’incassi, e l’avvento di una nuova era, più democratica, in cui i prodotti di nicchia avrebbero avuto sempre più spazio e successo, contribuendo a nuove forme di consumo e di autoproduzione. Sembrava a portata di mano la nuova era del prosumer, del consumatore-produttore: la democratizzazione, respinta dalla politica, si sarebbe realizzata nella cultura.
Nemmeno dieci anni dopo, Anita Elberse, docente di Economia ad Harvard, ha dimostrato che le produzioni blockbuster non sono assolutamente tramontate, anzi. Le major puntano sempre di più sui prodotti blockbuster, tanto che possono permettersi anche fiaschi clamorosi, in virtù degli altissimi profitti delle operazioni che vanno in porto (Elberse 2013). I prodotti di nicchia restano confinati ai margini della cultura egemone e la produzione dei consumatori rischia di rimanere un’utopia, quando non si riversa caoticamente nel tumulto dei social. La cultura digitale ha dilatato i confini dell’industria culturale creando una enorme industria dell’intrattenimento, che si può permettere investimenti molto significativi nella ricerca di nuovi prodotti di massa e nella creazione di nuove superstar del cinema, della televisione, dello sport. Prodotti che hanno un impatto sempre maggiore sulla cultura contemporanea.
Essere creativi sembra implicare quindi strumenti di analisi e di conoscenza che non sono di largo dominio. Almeno non ancora. Oggi, l’uomo della cultura digitale vive a occhi aperti le molteplici dimensioni che gli vengono sottoposte dalle reti sociali, dall’industria dell’intrattenimento, dalle notizie d’attualità, ma raramente riesce a capirne il senso. Ciò che prima poteva essere soltanto immaginato, oggi può dar vita a una pluralità di immagini tridimensionali, lungo le quali si sviluppano le narrazioni contemporanee. Una molteplicità che sembra attrarre e distrarre allo stesso tempo.
È più che lecito porsi la domanda: la creatività è unica o multipla?
Col prepotente avvento dei media digitali s’amplifica un dilemma evidente già alla fine del XX secolo, quello tra professioni cosiddette “creative” e arte, le prime asservite all’industria culturale, la seconda libera di svolgere una funzione di formazione, riflessione e di stimolo creativo (Fabro 1988). Si è detto di come sempre più l’industria culturale moderna abbia bisogno di creativi, di persone in grado di creare i nuovi mondi digitali e le nuove narrazioni immaginarie. Il problema è che senza un’effettiva formazione artistica libertaria le stesse professioni creative rischiano di non esserlo più, nemmeno a livello formale, perché la tecnologia e la multimedialità in se stesse non conducono alla creatività, anzi alla lunga l’affossano.
Le Accademie di Belle Arti, o in altri paesi europei le Università che le hanno assorbite, sono chiamate a una sfida della quale stanno acquistando progressivamente consapevolezza. Occorre urgentemente formare i creativi e operare per il riconoscimento della dimensione creativa nelle società contemporanee, piuttosto che discutere della commestibilità della cultura per farlo, però, bisogna mettere a punto strategie e percorsi culturali innovativi e coraggiosi e evitare di cadere nella trappola di un consumismo che, prima o poi, rischia di affossare anche la creatività.
Ognuno di noi ha un potenziale creativo che è nascosto a causa della competitività e dell’aggressività tesa al successo. Riconoscere, esplorare e sviluppare questo potenziale è il compito della scuola (Beuys e Böll 1973).
Le parole con le quali Joseph Beuyse Heinrich Böll aprono il loro Manifesto on the foundation of The Free International School for Creativity and Interdisciplinary Research del 1973 potrebbero essere indicate come il programma delle accademie contemporanee.
Nella società dei consumi, la creatività, la fantasia e intelligenza, sono indistinte e la loro espressione è impedita, così diventano difettose, nocive e dannose – in contrasto con una società democratica – e sfociano in una creatività criminale corrotta. La criminalità può derivare dalla noia, da una creatività che si esprime con difficoltà. Ridurre tutto a valori di consumo, vedere il potenziale democratico limitato all’elezione occasionale: questo può anche essere visto come il rifiuto o la rimozione della creatività democratica. L’inquinamento ambientale avanza in parallelo con un inquinamento del mondo dentro di noi. La speranza è denunciata come utopia o come illusione, e abbandonarla genera violenza. Nella scuola dovremmo condurre ricerche sulle numerose forme di violenza, che sono affatto limitate a quella delle armi o della forza fisica (ivi).
Da un’analisi dei rituali sociali e artistici, un gruppo di docenti dell’Accademia di Belle Arti di Catania ha definito una serie di progetti di ricerca che hanno condotto anche alla creazione della prima collana editoriale di un’Accademia, dedicata a stimolare la riflessione culturale e a valorizzare la progettualità artistica (Vincenzo 2014, Stazzone 2015, Frazzetto 2015). Sono state affrontate tematiche quali il rapporto tra consumismo e cultura, creatività e produzione industriale, nascita della curatela d’arte e cambiamento dell’ambiente sociale indotto dalle tecnologie digitale. Al passivo multitasking culturale si è cercato di sostituire l’interdisciplinarità del pensiero e la critica costruttiva. Un progetto che vuole portare avanti le intuizioni di Joseph Beuys e Heinrich Böll collegandole allo sviluppo delle capacità intellettuali dell’uomo, attraverso una riflessione sulle nuove dimensioni della tecnica e un’analisi critica delle possibilità di un loro indirizzo “creativo”: un modo per superare i limiti di un sapere sterile, che non sa rinnovarsi in azione creativa.
Alla luce di tutto questo, in primo luogo, occorre una messa in discussione di una realtà sempre più sfuggente, divisa tra il mondo degli oggetti e quello virtuale e immaginale. Ciò significa analizzare l’attualità, ampliando le prospettive e le modalità di conoscenza, favorire le crisi delle conoscenze e degli equilibri costituiti. La crisi non è sempre negativa, anzi, va prevista e interpretata. La “crisi”, dal verbo κρίσις, significa principalmente valutare, giudicare o decidere. Il creativo, quindi, è un precorritore di crisi e un trasformatore di mentalità.
Creatività e democrazia sono in rapporto tra loro?
Beuys ricordava che la formazione alla creatività ha ricadute importanti anche sul piano della democrazia, del rapporto tra individui e gruppi con lo spazio pubblico. Nel mondo moderno, l’arte non può fare a meno della democrazia. In tale senso, una netta egemonia culturale delle classi privilegiate sortisce l’effetto di sterilizzare la vita intellettuale e artistica. Per Dewey, infatti, esiste uno stretto rapporto tra vivacità culturale e democrazia reale.
Una separazione fra classi privilegiate e classi assoggettate impedisce l’endosmosi sociale (i flussi dall’esterno all’interno della società). I mali che interessano così le classi superiori sono meno materiali e meno percepibili, ma ugualmente reali. La loro cultura tende ad essere sterile, a guardarsi indietro per nutrirsi di se stessa; la loro arte diventa una vistosa e artificiale ostentazione; la loro ricchezza diventa lusso; la loro conoscenza iperspecializzata; i loro modi fastidiosi piuttosto che umani (Dewey 1916, 94).
Non vi può essere arte senza democrazia e non vi può essere democrazia senza arte, così come non vi è circolazione sociale senza circolazione culturale. Vi è però un ultimo paradosso.
Le istituzioni artistiche non sono sempre consapevoli del loro ruolo formativo, non solo nell’ambito specifico delle arti visive o applicate, ma come promotori di un dinamismo culturale necessario alla sussistenza degli stessi principi democratici. Spesso sono arroccate su di una concezione individualista dell’artista, visto come monade isolata dal resto del mondo, retaggio di quello stesso romanticismo ottocentesco che ha portato alla fine della vecchia accademia. L’uomo contemporaneo, al contrario, ha bisogno di dialogare con l’arte per ritrovare continuamente se stesso, per sottrarsi all’impero del consumo, per riprendere contatto con una dimensione estetica e simbolica sempre più necessaria contro “il logorio della vita moderna”. Contrariamente a quanto sostenuto dai fautori del “genio” romantico, l’arte va insegnata e perseguita attraverso un ponderato equilibrio tra metodo e innovazione.
Nel 2007, sempre Luciano Fabro, poco prima della sua scomparsa, ricordava quanto fosse stato importante per la sua maturazione come artista e come docente dell’Accademia di Brera proprio la figura di John Dewey, filosofo e pedagogista della democrazia che amava fare incursioni nel mondo dell’arte (Fabro 2007). A suo avviso il pensiero deweyano era il tentativo di coniugare logica e simbolismo, di trovare una terza via tra il razionalismo e l’empirismo, indicando una dimensione teorico-pratica consapevole delle problematiche del mondo circostante. Per Dewey pedagogia e arte, tradizione e innovazione, infatti, sono strettamente connesse.
Il metodo d’insegnamento è il metodo di un’arte, di un’azione intelligente diretta a un fine. Ma la pratica di un’arte è ben lungi dall’essere una questione di ispirazioni estemporanee. (…) Il raggiungimento di questa conoscenza richiede perseveranza e attenzione meticolosa sugli obiettivi pratici. L’artista studia il progresso dei propri tentativi per vedere in cosa riesce e in cosa fallisce. L’ipotesi che non ci siano alternative tra il seguire regole predeterminate e il confidare sui doni nativi per una ispirazione del momento che non sia non ottenuta dal “duro lavoro”, è contraddetta dalle procedure di ogni arte. Problemi come la conoscenza del passato, della tecnica attuale, dei materiali, dei modi in cui ottenere risultati migliori, forniscono la materia per quello che può essere chiamato il metodo generale. Esiste un corpo cumulativo di metodi piuttosto stabili per raggiungere i risultati, un processo consolidato dall’esperienza passata e dall’analisi intellettuale, che un individuo può ignorare solo a suo rischio e pericolo(ibid., 193).
Il sistema formativo artistico, oggi, deve poter continuare il difficile dialogo con il sistema economico, senza pregiudizi e senza soggezione: nuove esigenze, nuovi lavori, nuovi insegnamenti coinvolgono il settore creativo. Si apre a questo punto il grande interrogativo del terzo ciclo di alta formazione all’interno delle accademie, la necessità della consacrazione della ricerca artistica, il riconoscimento dell’importanza strategica della cultura nei moderni sistemi produttivi, come stimolo alla giustizia sociale e argine contro la distruzione del pianeta. Più di altri, i modelli formativi, infatti, si riflettono in valori e rituali sociali, determinando lo sviluppo delle generazioni future, la loro mentalità e stile di vita.
Nel mondo digitale, tra una generazione lavorativa e l’altra si apre un abisso: non serve incoraggiare un atteggiamento positivista che, in nome del progresso, elimini e definisca obsoleto tutto ciò che è già stato fatto prima. Occorre, piuttosto, prendere a modello chi, vivendo il proprio tempo, vuole tornare a “riflettere” e a “operare”, superando una formazione fine a se stessa che, per quanto “alta”, spesso non risponde né alle esigenze del mondo del lavoro, né all’istanze della democrazia. Occorrono valori e rituali alternativi a quelli del consumo. Vi è bisogno – come sostiene Luciano Fabro – di “maestri”, di docenti e intellettuali (leggi “l’uomo”descritto da Levi) capaci di affrontare i problemi in modo globale, di creare “radicamento”, di mettere radici alla cultura. Una loro assenza crea problemi nel mondo della cultura, senza di loro “non è stato fatto un lavoro didattico, è stata fatta semplicemente della comunicazione di lavori, d’idee…” (Fabro 2007, 60).
Secondo il teorema di Thomas “se le persone definiscono reali certe situazioni, le stesse avranno conseguenze reali”. Ciò vuol dire che tutto dipende dalla volontà degli intellettuali, degli artisti e delle Accademie di riconoscere nella formazione lo strumento di resilienza per sopravvivere alle crisi del mondo moderno. Senza creatività e cultura, gli uomini moderni, circondati da dispositivi digitali e da accessi informatici, sarebbero condannati alla “dissociazione degli emisferi”, che a questo punto sembra proprio una metafora dell’uomo dissociato da se stesso e dalla società che lo circonda.
La Costituzione italiana si esprime chiaramente in merito all’arte e alla cultura: “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”(art. 33). Un’educazione libertaria parte da una cultura che favorisca la presa di coscienza di sé, del mondo interiore dell’uomo e della sua azione, delle tradizioni di un popolo e delle sue possibilità future. Occorre, però, incentivare una ricerca culturale che sviluppi un sapere utile alla creatività, all’azione artistica, non improntata esclusivamente alla storicizzazione. Una ricerca che sia consapevole della natura simbolica dell’uomo, così come delle sue esigenze artistiche ed estetiche. C’è bisogno di bussole e criteri di senso che permettano di affrontare i marosi della navigazione in rete. Occorre, infine, superare i limiti di una ricerca “sull’arte” – come quella di ambito universitario – andando in direzione di una ricerca “per l’arte” e “nell’arte” (Frayling 1993), verso cui dev’essere orientata l’azione delle accademie e dei musei contemporanei, se si vuole arrivare a un “new institutionalism culturale” (Lucie e Flückige 2013). In tal senso, lo sviluppo culturale e la libertà sociale possono essere garantite, oggi, soprattutto collegando tra loro gli sforzi e la ricerca d’intellettuali e artisti, mettendo in evidenza le problematiche della moderna cultura digitale, e prospettando le linee guida per una creatività svincolata dalle strette esigenze del capitalismo postfordista.
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Gianpiero Vincenzo è Docente di Discipline Sociologiche, presso l’Accademia di Belle Arti di Catania.
Valentina Lucia Barbagallo è Cultrice di Psicosociologia dei consumi culturali, presso l’Accademia di Belle Arti di Catania e docente del Laboratorio di progettazione curatoriale: storia e pratica della curatela d’arte contemporanea, presso il Dipartimento di Studi Umanistici, Università degli Studi di Catania.