Il contesto: i PTCO al Museo di Fotografia Contemporanea
L’articolo presenta una narrazione d’esperienza dei Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento (PCTO) realizzati da un gruppo di studentesse e studenti presso il Museo di Fotografia Contemporanea (MUFOCO [1]). L’esperienza, attraversata insieme da chi scrive – una nel ruolo di responsabile del Servizio educativo del museo, l’altra in quello di consulente pedagogica – nasce nel contesto di una sperimentazione avvenuta all’interno di un progetto finanziato per la valorizzazione e la promozione dei musei durante l’anno scolastico 2019/20, in un tempo dunque precedente alla pandemia che, mentre scriviamo, sta colpendo da più di un anno sia la scuola che i luoghi della cultura.
L’obiettivo principale della sperimentazione è stato quello di far conoscere alle studentesse e agli studenti l’istituzione museale nei suoi aspetti museografici e museologici, per vivere da vicino il patrimonio fotografico, le opere, le diverse professionalità e i numerosi compiti di un museo. Infatti, la finalità dei PCTO è quella di introdurre studenti e studentesse [2] in contesti diversi da quello scolastico [3], farli agire al loro interno e far verificare loro “sul campo” le competenze, anche e soprattutto quelle trasversali (di ordine relazionale, comunicativo, organizzativo, contestuale ecc.), che vanno acquisendo durante le attività scolastiche e di cui non sono ancora o del tutto consapevoli. In sintesi, tali percorsi avvicinano precocemente i ragazzi e le ragazze al mondo del lavoro permettendo «loro di uscire dal perimetro rassicurante delle quattro mura scolastiche, dei compiti più o meno programmati, del tempo scandito dalle lezioni, per fare un’esperienza di vita […] tra il mondo della formazione, tradizionalmente chiuso e ripetitivo nelle proprie pratiche, rituali e contenuti, e il mondo della vita, dell’esperienza, del quale lavorare è un’attività costitutiva e necessaria, in termini pragmatici, ma anche come processo simbolico di costruzione identitaria» (Vitale, Formenti & Calciano, 2017).
I PCTO del MUFOCO sono trasversali ai saperi e alle articolazioni del museo (educazione, archivio, biblioteca, mostre, comunicazione), alternano formazione mirata e pratica, fino a commissionare a studenti e studentesse un incarico con una ricaduta pubblica concreta nei confronti di committenti, esperti, docenti, dirigenti, compagni, genitori e pubblici. Un tale percorso, non solo ha consolidato per studenti e studentesse l’incontro con il mondo del lavoro, ma si è trasformato in un’esperienza orientante, volta a favorire la conoscenza del sé e della società contemporanea, a sperimentare come risolvere problemi, a sviluppare pensiero critico, autonomia, responsabilità, etica del lavoro.
Per questi motivi, l’esperienza ha richiesto un totale ribaltamento delle consuete attività educative del Museo di Fotografia Contemporanea che già da alcuni anni accoglieva giovani in età scolare in Alternanza Scuola-Lavoro [4]. Nelle passate esperienze infatti le attività si basavano prevalentemente su un approccio didattico che, seppur aperto e flessibile, offriva alle/ai giovani la partecipazione a giornate di studio in chiave intensiva e laboratoriale ovvero un tempo denso tra lezioni, presentazioni, laboratori e incontri con professionisti, artisti e curatori (Mascheroni, Zannelli, 2009). Con i PTCO, invece, si è trattato di cambiare direzione, ovvero da un lato di far vivere gli spazi del museo alle giovani e ai giovani nei suoi diversi dipartimenti (archivio, ufficio stampa, allestimenti e educazione), accanto ai responsabili, e dall’altro di chiedere loro di mettersi in gioco personalmente e professionalmente al fine di elaborare proposte didattiche rivolte a un pubblico giovane di pari età.
Questa messa in gioco ha significato per gli studenti e le studentesse sia un confronto con una realtà lavorativa nuova e molto diversa dalla loro quotidiana esperienza scolastica, sia una percezione degli spazi del museo come familiari, aperti, accoglienti, contrastando così l’idea tradizionale del museo come luogo ostile, lontano e noioso e incrementando le loro possibilità di apprendimento (Zuccoli, 2015).
Protagoniste e protagonisti sono stati perciò i 150 studenti frequentanti le classi III e IV superiore di II grado di scuole con i seguenti indirizzi: ITSOS Steiner di Milano, Liceo Artistico U. Boccioni di Milano, Istituto Caterina Da Siena di Milano, Liceo Classico Casiraghi di Cinisello Balsamo, Istituto Salesiano Don Bosco – Scuola Grafica Salesiana di Milano, che hanno vissuto l’esperienza dei PTCO insieme ai loro docenti referenti. Riteniamo importante sottolineare che gli insegnanti sono anch’essi stati coinvolti nel progetto per creare un percorso connesso tra museo e scuola e attribuire senso e significato alle attività svolte dalle/dai giovani al museo anche all’interno della scuola in preparazione e in conclusione dell’esperienza sul campo.
Orientarsi attraverso il corpo
Svolgere una parte del proprio PCTO nell’unico museo pubblico in Italia dedicato alla fotografia contemporanea rappresenta per le studentesse e gli studenti un’esperienza dall’alto potenziale formativo vista la possibilità di avere accesso a una realtà unica e originale nel panorama nazionale.
Allo stesso tempo, proprio in virtù della novità e dell’originalità dell’esperienza, ragazze e ragazzi non hanno chiaro il percorso per le competenze e per l’orientamento che stanno attraversando. Questa mancanza di chiarezza genera una sensazione di disorientamento che non è stata da noi considerata una condizione negativa, diversamente da quanto ritiene il mainstream in materia d’orientamento scolastico che la descrive come un problema da risolvere (Formenti, et.al 2017), ma ha rappresentato una fase, iniziale, del processo di costruzione del percorso.
La nostra è una visione formativa dell’orientamento, oggi ancora molto marginale (Formenti, et.al 2015), che riconosce e analizza l’orientamento come un processo formativo composto da fasi d’orientamento e fasi di disorientamento (Formenti & Castiglioni, 2014; Formenti, 2016).
In chiave pedagogica, che cosa significa, dunque, dal punto di vista formativo, mettere a fuoco il processo di orientamento e disorientamento delle/dei giovani all’interno di MUFOCO? Significa primariamente creare uno spazio partecipativo con l’uso di linguaggi estetici (Luraschi & Formenti, 2016) per incontrare le studentesse e gli studenti e qui generare una conversazione sulle aspettative tra desideri, incertezze, sogni e pregiudizi prima dell’inizio delle attività. Significa anche, al termine dell’esperienza, dialogare con le/i giovani per fare in modo che possano dare senso e riconoscere i propri apprendimenti, sia in termini di competenze trasversali sia di conoscenze in senso lato (es. sulla fotografia e sul lavoro in un museo). Ma significa soprattutto, durante tutto l’arco del percorso, lavorare con le/i giovani per affinare la loro consapevolezza corporea (Feldenkrais, 1991), per dare voce a un corpo che a scuola tradizionalmente risulta assente, immobilizzato, disciplinato o semplicemente astratto (Gamelli, 2016). Nelle nostre premesse c’era dunque l’idea di sperimentare con le/i giovani un percorso che nasceva dalla messa in gioco corporea attraverso la partecipazione a situazioni reali del lavoro nel museo e all’incontro con le fotografie; quotidianità del lavoro nel museo e interazioni con le opere d’arte da vivere con tutti i sensi, per risvegliare emozioni e aprire loro orizzonti nuovi. E così, se la formazione scolastica e le pratiche tradizionali d’orientamento vedono il pensiero situarsi nella mente, questa proposta formativa intendeva invece muovere il pensiero (Formenti, 2017) attraverso il corpo e la sua capacità creativa, artistica ed estetica. Mettersi in movimento per integrare pensiero-corpo-emozione (Contini, Fabbri & Manuzzi, 2006) e sentire il proprio corpo nell’incontro con l’immagine.
Se l’immagine rappresenta dunque oggi una sorta di seconda pelle – che per le nuove generazioni diventa un attributo imprescindibile della stessa identità, sia individuale che collettiva: una sorta di esperanto generazionale – la distanza che separa l’immagine-opera esposta nei musei e l’immagine-flusso della vita quotidiana sembra diventare incolmabile (Zannelli, 2021). Ma è proprio su questa distanza, fatta di attrazione e repulsione, che bisogna lavorare per rendere accoglienti i luoghi che conservano l’arte, per farli percepire come luoghi familiari da attraversare, conoscere, vivere e amare.
I PCTO condotti dal MUFOCO necessitano non solo della partecipazione attiva di ragazze e ragazzi, ma anche di una forte e necessaria collaborazione tra scuola e museo al fine di co-costruire una sperimentazione di apprendimento permanente e di laboratorio continuo per la conoscenza del complesso mondo dell’arte contemporanea. In sintesi, usare i metodi estetici in formazione ha significato nella pratica per noi fare leva sull’esperienza sensibile e sulla creatività delle/dei giovani per generare una consonanza qui e ora e affinare la loro sensibilità estetica.
All’inizio del percorso Silvia Luraschi ha chiesto di creare un componimento poetico per esprimere le proprie sensazioni dopo essersi presi qualche minuto per camminare in silenzio e liberamente all’interno degli spazi museali al fine di osservare come si muoveva lo sguardo [5]. Comporre un Petit Onze [6] è un’azione concreta, materiale e insieme polisemica e artistica che riesce a dare una forma organica a pensieri, emozioni, sensazioni, dubbi, incertezze e desideri, che all’inizio appaiono alle/ai giovani come frammentati e difficili da esprimere in parole:
Intraprendere
Riformulare quanto
Non ancora conosciuto
Esplorare ciò che risulta
Estraneo.
(Alessandra) [7]
Uscire
Dallo schema
Della vita quotidiana
Per vivere un’esperienza
Indimenticabile.
(Marco)
Novità
Difficile interpretazione
Di un progetto
Astratto nel cervello come
L’infinito.
(Martina)
Possibilità
Di aggiungere
Al proprio bagaglio
Esperienza esclusiva ed emotiva
…lavorativa.
(Franco)
Questa selezione di quattro Petit Onze descrive la condizione di “novità” (Martina), “di non ancora conosciuto” (Alessandra), di “uscire dallo schema” (Marco) e di “possibilità” (Franco) percepita dalle/dai giovani. Riteniamo che le dimensioni dominanti in questa prima fase del percorso siano la scoperta e il desiderio. Desiderio che, una volta messo su carta, crea un’intenzionalità a compiere una messa in gioco, anche emozionale, per raggiungere uno scopo formativo. Infatti, nelle loro parole, l’intenzione sembra assumere un significato corporeo che da “astratto nel cervello” (Martina) e “non ancora conosciuto” (Alessandra) desidera prendere una forma nell’esperienza concreta “indimenticabile” (Marco) ed “emotiva” (Franco). Esperienza concreta che prende la forma di una metafora in un altro Petit Onze:
Fotografia
Vuol dire
Mettere a fuoco,
quindi visualizzare meglio gli
oggetti.
(Giorgia)
In questo componimento di sole undici parole la studentessa riesce a condensare il portato simbolico della fotografia, arte visuale per eccellenza, capace di ampliare il nostro punto di vista sul mondo per “visualizzare meglio” (Giorgia) non solo gli oggetti, ma il punto di vista dal quale osserviamo.
In sintesi, dai componimenti poetici emerge chiaramente quanto le/i giovani siano consapevoli di trovarsi in una condizione di spiazzamento che richiede una messa in gioco personale per immergersi con tutto il corpo nella vita del museo e orientarsi attraverso l’esperienza concreta dove la cognizione, ovvero la conoscenza, passa dal corpo ed è legata all’azione (Varela, Thompson & Rosch, 1992).
Sentire è vedere
La messa in gioco corporea è continuata lungo il percorso grazie alla scelta di fare sperimentare a ragazze e ragazzi l’osservazione lenta e consapevole di alcune opere fotografiche per fare esperienza di essa e creare un ponte tra osservazione, pensiero ed esperienza somatica (Della Pergola, 2017). In questa chiave di ascolto del proprio corpo e del proprio sentire in relazione all’estetica del patrimonio artistico, il percorso delle/dei giovani dunque non si è focalizzato tanto sulla formale acquisizione di competenze trasversali, ma ha assunto una dimensione più autentica.
In particolare, un gruppo di studentesse e studenti sono stati accompagnati da Diletta Zannelli in collaborazione con una psicologa [8] in un workshop dove sperimentare nuove pratiche di formazione (Luraschi, 2016). Le esperienze proposte hanno stimolato le percezioni polisensoriali a partire dalle immagini. Le fotografie sono oggetti evocativi (Bollas, 2009) ovvero evocano odori, suoni, sapori, movimenti, quindi permettono al soggetto di sperimentare una dimensione immaginativa polisensoriale.
Uno dei passaggi fondanti del percorso è stato quello di chiedere alle/ai giovani di abbandonare lo sguardo distratto, il colpo d’occhio, lo scorrimento delle immagini (modalità applicata nella lettura dei social network) per imparare a guardare le immagini in modo diverso, esercitandosi alla lentezza e alla consapevolezza dello sguardo.
Se alleno il mio occhio, lo sguardo cambia, il pensiero cambia, e automaticamente si attivano le mappe emotive con la conseguenza di aumentare la capacità visiva/percettiva e quindi la conoscenza. Sentire è vedere quando l’osservazione delle immagini è consapevole, ovvero quando il vedere è prima radicato nel corpo, poi integrato dagli aspetti più concettuali e mentali. Il lavoro con le immagini ha stimolato quindi processi di consapevolezza di sé e ha fatto emergere ricordi, sogni, pensieri perché le immagini hanno la capacità di metterci in stretta relazione con il nostro mondo interiore visivo più profondo.
La conversazione con l’immagine, attivata dal dialogo con gli educatori e le educatrici del MUFOCO, accende un ascolto particolare nei/nelle ragazzi/e rendendoli presenti con la mente e con il corpo, lasciando spazio ai silenzi, collegando il reale con l’immaginario, la propria biografia con quella dell’autore. E quando si attiva il dialogo con studenti e studentesse, poi sono loro ad aprirsi, pronti a sentire le opere, ad animarle e comunicarle.
Come dice lo storico dell’arte Georges Didi-Huberman: «Essere davanti all’immagine significa allo stesso tempo rimettere il sapere in discussione e rimetterlo in gioco. Non bisogna avere paura di non sapere più (nel momento in cui l’immagine ci spoglia delle nostre certezze), né di sapere di più (nel momento in cui si deve comprendere lo svestimento stesso, comprenderlo in qualcosa di più vasto che concerne la dimensione antropologica, storica o politica delle immagini)» (Didi-Huberman, 2015, p. 56). Una messa in gioco che coinvolge integralmente le/i giovani (con mente-corpo-emozione-pensiero) e fa affiorare idee, sogni, desideri spesso inaspettati. Durante le attività, infatti, molte volte ci siamo sentite dire parole come questa: “ho visto me stessa, le mie emozioni e i miei sogni, e non me lo aspettavo” [9].
Sentirsi a casa tra la bellezza
Nella vita delle ragazze e dei ragazzi la permanenza di intere giornate in un museo ha rappresentato qualcosa di veramente inusuale. Solitamente, nella loro vita, entrano per lo più in spazi conosciuti (la propria casa o quella di persone sconosciute, la scuola, la palestra, ecc.). Difficile accedere in uno spazio estraneo. Questa esperienza invece ha dato loro la possibilità di entrare in un territorio sconosciuto e di conoscerlo giorno dopo giorno, di familiarizzare con le operatrici e gli operatori del museo e con un linguaggio visivo tradizionalmente poco studiato come quello della fotografia contemporanea (Valtorta, 2009). Due sono le questioni sollevate in conclusione del percorso da alcuni studenti e studentesse: la potenza dello stupore e il bisogno di tornare. Lo stupore è legato al brivido della scoperta di un fotografo che “fa foto incredibili” [10] o alla paura di sbagliare ad archiviare una fotografia. Il bisogno di tornare è, invece, la sensazione espressa al termine dell’esperienza da alcune studentesse che sostenevano di voler tornare al museo perché c’erano ancora tante cose da capire. Inoltre, la richiesta rivolta da Silvia alla/ai giovani di realizzare con lo smartphone una serie di scatti durante i momenti che sentivano, ancora una volta a partire dal corpo, più significativi (anche senza saperlo spiegare a parole) ha generato un’attenzione curiosa che ha messo in luce le dimensioni dell’informalità e della quotidianità. Le fotografie raccontano per esempio le pause pranzo al museo con i/le compagni/e o i momenti informali con il personale di MUFOCO durante i lavori di allestimento di una mostra.
Succede quindi che, superate le difficoltà e le rigidità di inizio percorso, ad un certo punto negli occhi di studenti e studentesse scatti la curiosità e subito l’atteggiamento cambi, si capisce da come si muovono fisicamente con scioltezza/agilità dentro agli spazi, da come si relazionano con confidenza con professioniste e professionisti, dalle domande che fanno e dai racconti che scaturiscono guardando le immagini. Si sentono a casa e partecipano con consapevolezza alla salvaguardia del patrimonio, prendendosene cura veramente perché capiscono che la fotografia dentro al Museo è un bene culturale delicato da conservare e tutelare esattamente come un quadro del seicento. Il MUFOCO è da sempre in ascolto delle giovani generazioni che lo frequentano ed è grazie a loro che prosegue tenacemente nell’obiettivo di aprire sempre di più le porte verso il pubblico più giovane, grazie a progetti articolati, distesi nel tempo, individuando insieme “utili” connessioni tra l’arte e la vita, tra le immagini e la quotidianità.
Conclusioni
Entrare in contatto con il proprio corpo e la bellezza dell’arte fotografica ha generato un dispositivo formativo autentico dove le studentesse e gli studenti sono stati invitati a posizionarsi in prima persona come soggetti creativi. Tale esperienza, ha permesso ad alcuni tra loro di sentire il museo come un luogo per ritrovarsi nel quale avvertire di essere parte di una collettività con una cultura visiva che si trasforma nel tempo. I PCTO basati sull’educazione visiva a partire dal corpo rappresentano, a nostro parere, una risorsa per il futuro delle relazioni scuola-museo al fine di accompagnare i giovani a riconoscersi come soggetti attivi. Soggetti capaci di (ri)scoprire le risorse di cui sono portatori per contrastare gli effetti negativi che la pandemia sta generando. Infatti crediamo che con le/i giovani si può sognare senza nascondere l’assurdo che è nel mondo (Dolci, 1974), esercitandosi insieme a comporre il corpo con la mente attraverso le esperienze artistiche per, in tempo difficili come questo, imparare a celebrare le complessità e le fragilità del mondo che abitiamo.
Note
[1] MUFOCO si trova a Cinisello Balsamo (MI):
[2] Usiamo sia il maschile che il femminile poiché sappiamo che le scelte d’orientamento scolastico sono influenzate dal genere (Biemmi & Leonelli, 2020).
[3] Per un approfondimento rimandiamo alla Legge 145 del 30 dicembre 2018.
[4] L’Alternanza Scuola-Lavoro, disciplinata dal decreto legislativo 15/4/2005 n. 77 e stata rinominata in “Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento” nel 2018 (vedi nota precedente n.3).
[5] Il metodo di ricerca-formazione utilizzato da Silvia è il metodo compositivo de La spirale della conoscenza (Formenti, 2017).
[6] Petit onze (“piccolo undici”) è una composizione poetica breve la cui origine viene attribuita al poeta surrealista André Breton. La struttura della poesia è di undici parole suddivise in cinque versi. Il primo verso è composto da una parola, il secondo da due parole, il terzo da tre parole, il quarto da cinque parole e il quinto di nuova da una parola come il primo.
[7] Tutti i nomi sono di fantasia per motivi di privacy.
[8] Diletta desidera ringraziare la dott.ssa Daniela Cosco per l’impianto teorico e la realizzazione del workshop “Sentire è vedere: immagini che nutrono, evocano, trasformano” con gli/le studenti/esse del Liceo Artistico U. Boccioni di Milano.
[9] Trascrizione dagli appunti di ricerca di Silvia del gennaio 2020.
[10] Idem nota precedente.
Bibliografia
Biemmi I. & Leonelli S., Gabbie di genere. Retaggi sessisti e scelte formative, Rosenberg & Sellier, Torino 2020, BOOK
Bollas C., Il mondo dell’oggetto evocativo, Astrolabio, Roma 2009.
Contini M., Fabbri M. & Manuzzi P., Non di solo cervello: educare alle connessioni mente-corpo-significati-contesti, Raffaello Cortina, Milano 2006.
Dalla Pergola M., Lo sguardo in movimento. Arte, trasformazione e metodo Feldenkrais, Astrolabio, Roma 2017.
Didi-Huberman G., La condizione delle immagini, in Eco U., Augé M., Didi-Huberman G., La forza delle immagini, Franco Angeli, Milano 2015.
Dolci D., Poema umano, Einaudi, Torino 1974.
Feldenkrais M., Le basi del metodo per la consapevolezza dei processi psicomotori, Astrolabio, Roma 1991.
Formenti L., Learning to live. The pattern which connects education and dis/orientation, in Formenti L. & West L. (Eds), Stories that make a difference. Exploring the collective, social and political potential of narratives in adult education research (pp. 234-241), Pensa Multimedia, Lecce 2016.
Formenti L., Formazione e trasformazione. Un modello complesso, Raffaello Cortina, Milano 2017.
Formenti L. & Castiglioni M., Focus on learners: a search for identity and meaning in autobiographical practices, in Zarifis G. & Gravani M. (Eds.), Challenging the ‘European Area of Lifelong Learning’ (pp. 239-248), Springer, London 2014.
Formenti L., Vitale A., Galimberti A., Luraschi S. & D’Oria M., Pedagogia dell’orientare e dell’orientarsi: un’epistemologia in azione, in «Educational Reflective Practices», n. 1/2005, pp. 19-32.
Formenti L., Galimberti A., Luraschi S., Rossi M. & Vitale A., Un divenire incerto nel sistema che (si) orienta, in «Cooperazione Educativa», n. 66(2) /2017, pp. 53-57.
Gamelli I., Il sapere del corpo, Edizioni IPOC, Milano 2016.
Luraschi S., Cosmicomica della ricerca e della formazione. Intervista a Antonia Chiara Scardicchio, in Pasini B. (a cura di), Palpitare di menti. Il laboratorio formativo: stili, metafore, epistemologie, Apogeo, Milano 2016, pp. 195-203.
Luraschi S. & Formenti L., Il sistema che orienta: pratiche partecipative e linguaggi estetici nella scuola, in «Riflessioni Sistemiche», n. 14/2016, pp. 102-116.
Mascheroni S., Zannelli D. (a cura), Il Museo è il pubblico, Lupetti editori di comunicazione, Milano 2009.
Valtorta R. (a cura di), Il museo, le collezioni #2, Silvana Editoriale, Milano 2009.
Varela F., Thompson E., Rosch E., The Embodied Mind: Cognitive Science and Human Experience, The MIT Press, Cambridge, MA 1992.
Vitale A., Formenti L. & Calciano V., Scuola e lavoro: un dialogo profondo sulle premesse culturali, in «Rivista MeTis Mondi educativi. Temi indagini suggestioni», n. 6/2017.
Zannelli D., Introduzione, in Zannelli D., Formenti L., Pinotti A. (a cura di), Atti del Convegno Immagini come alfabeto. La fotografia come strumento di scoperta e conoscenza nei programmi scolastici, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2021 (in pubblicazione).
Zuccoli F., Didattica tra scuola e museo. Antiche e nuove forme di sapere, Edizioni Junior, Bergamo 2015.
Silvia Luraschi è PhD in Scienze della Formazione e Comunicazione, consulente pedagogica, insegnante del Metodo Feldenkrais® e ricercatrice. Collabora con l’Università di Milano-Bicocca, dove negli anni scorsi ha coordinato i Laboratori di Orientamento d’Ateneo e attualmente si occupa della progettazione pedagogica dei PTCO. Inoltre, partecipa alle attività di ricerca sull’arte nei musei del Creative Pedagogies and Arts-Based Research Group coordinato dall’Università di Victoria (Canada).
Diletta Zannelli, laureata in Conservazione dei Beni Culturali all’Università degli Studi di Udine, è responsabile del Servizio educativo del Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo (MI) e curatrice dei progetti “Appunti sullo sguardo” e “Educare con la fotografia”, che offrono una riflessione teorica e pratica sui possibili usi della fotografia all’interno dei programmi scolastici.