Ogni motore, come ogni rivoluzione tecnica, non solo corrisponde a una riconfigurazione dei metodi di produzione e comunicazione, ma contribuisce, attraverso l’implementazione logistica delle velocità e dei tragitti sia fisici, sia percettivi, a riconfigurare le rappresentazioni del mondo.
In questa prospettiva, il postmodernismo – e il neoliberismo – è stato l’ultimo “compimento” del primato dell’accelerazione e di una precisa, quanto frammentaria, esperienza di mondo. Le velocità finanziarie, l’efficienza degli apparati di distribuzione, delocalizzazione e centralizzazione economica, comunicativa e culturale, definiscono il tardo Novecento nella “compressione” spazio-temporale della globalità. Il mondo si stringe, “sparisce” nelle contrazioni del desiderio d’immediatezza (Virilio, 1992); le velocità definiscono la “finitudine” del mondo, così come la sua saturazione. Ma da dove arrivano le pulsioni a tali processi, questa volontà di “compiutezza”? Se prendiamo in considerazione il «progetto della modernità» (Habermas, 1987) e il suo sogno “internazionalista” dell’emancipazione umana attraverso la disseminazione della conoscenza, vediamo che simili “contrazioni” e accelerazioni si presupponevano già nell’immaginario “tecnico” e utopico modernista come possibile mezzo di “liberazione” degli individui nella “condivisione” e “sistematizzazione” dei saperi. Il “salto” tecnico, ma anche mediale, si configura come mediatore culturale (Siegert, 2015) nella rappresentazione del mondo, in termini di rapporto di scala e di «logistica della percezione» (Virilio, 2018).
Tracciare una storia della “produzione delle tecniche”, di una “logistica del senso” prodotta in seno alle rivoluzioni dei media rispetto ai processi di accelerazione della conoscenza e di contrazione del mondo, risulta importante per comprendere le modalità con cui canoni come quelli di “efficienza” e “immediatezza” abbiano plasmato il mondo di oggi e le analisi sul postmodernismo. Tentare di tracciare una «archeologia dei media» (J. Parikka, 2015) che sappia delineare i processi, le ideologie e le narrazioni preesistenti alle condizioni storiche tardo moderne, significa considerare gli “embrioni” tecnici, tecnologici ed estetici che prefigurarono i movimenti del tardo Novecento.
In questi termini, la figura e i progetti di Paul Otlet (1868-1944) concedono forse una diversa genealogia del postmodernismo che, fermo restando la partizione storica di “terza fase” del capitalismo (Jameson, 2015), permette di pensarlo in seno a una “sequenza formale” specificatamente tecnica e percettiva, legata allo sviluppo dei processi di frammentazione, compressione e accelerazione. Prendendo in prestito una definizione dello storico dell’arte George Kubler (1976), diremo per cominciare che: «Lo stile è come un arcobaleno: è un fenomeno di percezione soggetto alla coincidenza di certe condizioni fisiche».
Bibliotecario e ricercatore, nonché inventore della Classificazione Decimale Universale negli ultimi anni del XIX secolo (UDC), Otlet era un modernista in piena regola, mosso dall’internazionalismo del primo Novecento e dalle spinte utopiche che l’hanno percorso in lungo e in largo. Il sogno di Otlet era infatti quello propriamente “moderno”, dell’emancipazione umana e dell’arricchimento della vita attraverso l’accumulazione e la sistematizzazione della conoscenza generata da più individui. Se spesso il modernismo è stato letto come reazione alle innovazioni di carattere tecnico – ovvero alle nuove condizioni di produzione rappresentate dalla macchina, dal tessuto industriale e dall’urbanizzazione, fino all’estensione della circolazione nei trasporti, nella comunicazione e nel consumo (Harvey, 2010) – Otlet è forse il primo a immaginare un ripensamento complessivo dei sistemi “tecnici” di distribuzione dei saperi, operando una sintesi eccezionale delle tecnologie e dei media dell’epoca.
Anticipando quel “fascino” che i pensatori postmodernisti provarono poi rispetto al “frammento”, alla “compressione” e al dominio del visivo, al pictorial turn, Otlet organizza a inizio secolo una vera e propria “logistica della conoscenza” fondata sui principi di smaterializzazione e immediatezza delle informazioni. L’intuizione otletiana somiglia a un precursore del World Wide Web e dei sistemi di ricerca, un Google de papier, come riconobbe Google stesso nel 2012. Si tratta di un “internet” (anche se il portato enciclopedico lo avvicina per certi versi più a Wikipedia) steampunk, composto di telefoni, grosse televisioni, fonografi e schede cartacee, un sistema capace di anticipare le dinamiche dell’ipertesto, di immaginare le conference call e i simposi smart, da remoto.
Ma da dove partì Otlet a immaginare un tale sistema? Possiamo iniziare identificando due problemi principali, legati soprattutto alle modalità di ricerca bibliografica, attorno ai quali gravitano le sue riflessioni. Da una parte la reperibilità delle informazioni: come organizzare i saperi in maniera che la loro fruizione possa essere più rapida e meno complessa, anche a fronte della distribuzione geografica delle biblioteche sul territorio (parliamo dei primi del Novecento, quando la raggiungibilità era innanzitutto un problema di tempo)? Dall’altra, e di conseguenza, l’inadeguatezza del supporto del libro, sia rispetto alla fruizione “fisica”, quindi alla collocazione geografica dell’oggetto, sia all’indicizzazione arbitraria dell’autore; cosa che a parere di Otlet rendeva difficile estrapolare informazioni precise e circoscritte. Possiamo riassumere queste questioni in una domanda: “Qual è, e come organizzare, la ‘logistica dei saperi’?”.
Il Mundaneum, pensato nel 1910 assieme a Henri La Fontaine e realizzato nel 1918, è un sistema fisico e centralizzato di distribuzione e reperibilità di referenze basato sull’UDC, un sistema di classificazione che permette non solo di suddividere per soggetti le pubblicazioni, ma di intersecare i diversi temi e concetti all’interno dei testi per individuare le varie notazioni, il tutto attraverso delle schede di carta e dei numeri. Pensato come una “cittadella della conoscenza” disseminata in diverse nazioni, possiamo immaginare il Mundaneum come una sorta di call center bibliografico.
Introducendo il telegrafo come “perno” dell’iniziale organizzazione dei saperi, Otlet velocizzò l’identificazione dei volumi attraverso i tempi “svelti” delle comunicazioni, che permisero una reperibilità quasi immediata delle fonti contenute nelle centinaia di cassetti, nelle migliaia di schede di altrettanti volumi “sminuzzati” dall’UDC, in informazioni relative a temi, referenze, bibliografie e quant’altro. In poco tempo le richieste crebbero esponenzialmente raggiungendo le migliaia, e altrettanti furono i moduli di carta compilati e inviati. Le nuove velocità mettevano a dura prova l’organizzazione del Mundaneum, il “motore di ricerca umano-analogico” – che ai lettori di fantascienza ricorderà sicuramente le peripezie calcolatrici dei Trisolariani ne Il problema dei tre corpi (Cixin, 2016) – mostrava già il limite della saturazione informativa.
Insomma, seppure già il supporto-libro si apprestava a sparire nella sua frammentazione e nella disseminazione delle voci, la saturazione dovuta all’accumulazione “cartacea” poneva dei seri problemi al progetto enciclopedico e alla centralizzazione della conoscenza. Otlet dovette assumersi il compito di pensare l’edificio concettuale e logistico di una Enciclopedia Universale in vista di una forma “definitiva” di “sapere sintetico”, una meccanicizzazione più capillare del sistema. La soluzione verrà esposta nel suo lavoro di più ampie vedute, Monde, del 1934.
Un supporto, un contenitore, che avrebbe dovuto conciliare una serie di spazialità “contradditorie”: universalmente fruibile ma di dimensioni contenute, un’archiviazione uniforme ma flessibile, materiali duraturi, economici e facili da preservare, consultare, facili da produrre e riprodurre. Le problematiche sollevate dalla relazione tra disseminazione dei saperi e un’accessibilità immediata ed efficiente, condussero Otlet ad affrontare quei problemi puramente “logistici”, di velocità, tragitti, traiettorie, stoccaggio e distribuzione che caratterizzano il sistema culturale ed economico del postmodernismo.
Di fatto, le letture di Harvey (2010) e Jameson (2015) considerano il postmodernismo come una diversa fase di organizzazione dello spazio-tempo, tanto nell’economia quanto nella cultura, in cui l’accelerazione di “trasmissione”, di scambio, produce nuove forme di decentramento, frammentazione e centralizzazione. Sebbene tali questioni siano relative al tardo capitalismo, il progetto modernista di disseminazione dei saperi di Otlet sollevava già il problema della sovraccumulazione e della “compressione” spazio-temporale con almeno cinquant’anni di anticipo, chiedendosi «come contenere processi mobili e in espansione in un quadro spaziale fisso di relazioni di potere, infrastrutture e così via» (Harvey, 2010). Nel tentativo di produrre un “sapere sintetico” e fruibile appieno, privo delle limitazioni spaziali e geografiche, Otlet si trovò ad affrontare una scala di vedute “squisitamente logistica”, di meccanicizzazione capillare, esponendo una possibile soluzione nel suo lavoro di più ampie vedute, Monde, del 1934: il transmediale.
L’esigenza di comprimere il volume del libro, di reperire singolarmente le pagine e legarle in referenze intertestuali con altri contesti e oggetti quali pellicole, illustrazioni, registrazioni ecc., porta Otlet a intuire le potenzialità tecniche del cinema, in particolare delle tecnologie militari del microfilm. La traduzione dei documenti in dispositivi definiti microfotici – ovvero l’impressione fotografica delle singole pagine su pellicola, un’opzione su cui Otlet riflette già nei primi anni del Novecento – avrebbe risolto non solo la tendenza alla saturazione fisica, ma anche la questione dei multipli, essendo il negativo già “copia” dell’originale.
Si delineano qui le peculiarità dei princìpi utopici del sistema otletiano: da una parte la tendenza alla miniaturizzazione e smaterializzazione dei volumi, in questo caso del libro, dall’altra la centralità dell’efficienza considerata in termini di velocità di consultazione e reperibilità. Sono processi che riconfigurano non soltanto il sistema bibliotecario e bibliografico, ma anche le modalità di produzione rispetto alla stampa tipografica, di fruizione e d’uso del documento. Effettivamente, l’internazionalizzazione della cultura richiedeva non solo una visione globalizzata, ma “ecologica”, sistemica. La macchina otletiana doveva perciò essere in grado di “propagarsi”. Doveva comprimere non solo la materia del supporto, ma anche le distanze, doveva “smaterializzare” le informazioni e muoverle più velocemente secondo i parametri di ripetizione e amplificazione che hanno da sempre connotato la diffusione della cultura.
È in questo senso che il lavoro di Otlet può essere considerato “larva” di una nuova “logistica della percezione”, come osservava rispetto al cinema Virilio (2018), le cui analisi dromologiche – lo studio delle velocità – risultano particolarmente adeguate a leggere l’impianto otletiano. Sebbene il principio di “automotilità” cinematica del microfilm fosse inizialmente un dispositivo militare volto ad accelerare la ricezione di informazioni e a renderne più sicuro il trasporto, l’intuizione di Otlet permise di allargare le maglie della distribuzione quanto della ricezione e accelerarle.
In ambito di strategie militare, pagine, appunti e foto, ridotte a un centimetro quadrato appena, venivano per esempio legate alle zampe dei piccioni durante la guerra Franco-Prussiana del 1870, recuperate, ingrandite da proiettori nelle sale comando e stampate se necessario. La logistica militare articolava velocità, segretezza e miniaturizzazione sempre all’interno di velocità pregresse, come quella dei volatili.
Con Otlet la dimensione “vettoriale” dell’informazione si “dis-animalizza” a favore di un sistema interamente macchinico e compiutamente mediale, che presuppone tanto l’accelerazione della conoscenza quanto il dispiegarsi di uno spazio completamente nuovo, di “pura velocità” e frammenti, all’interno del quale l’iniziale preoccupazione della fotografia e del cinema «di scoprire le fasi successive di un movimento, di un gesto, diventa qui preoccupazione di interpretare al meglio le sequenze di un’effrazione, di una dissoluzione immediata del paesaggio di cui nessuno percepisce tutta l’ampiezza» (Virilio, 2018). Se già il trasferimento del supporto-libro alla pellicola conferma il primato della velocità come misura del sapere e della conoscenza, la mediatizzazione dei vettori incarna il motto “produrre è muovere”, che connoterà poi la globalizzazione. Quella simultaneità per cui ogni distanza geografica è abolita, converge qui in un’unica rete di scambio intellettuale istantaneo.
A configurare questa rete sarà il progetto della mondothéque, nel 1936: una stazione “terminale”, un’interfaccia domestica per “irraggiare”, come scrive Otlet, la conoscenza. Sarà questa precoce workstation il vero e proprio dispositivo di disseminazione: un primo (o primordiale) «telescopio domestico» incaricato di operare una nuova «visione sintetica» (Virilio, 2000) su uno spazio già improntato alla virtualizzazione “fotica” della visione e della consultazione dei saperi. Otlet articola infatti nella mondothéque tutte le tecnologie di comunicazioni disponibili: radio, telefono, microfilm, lettori e proiettori, televisione e registratore, assieme a documentazioni personalizzate di libri, film, fotografie e così via. Ogni “terminale” avrebbe compreso copie dell’UDC e delle mappe per orientarsi nella catalogazione e nella ricerca bibliografica: l’Atlas Mundaneum – un volume sintetico di tutti i più alti saperi scientifici – lo Sphaera Mundaneum – un indice visuale che copriva le informazioni per aree tematiche e di ricerca– e il Pyramid Mundaneum – che raggruppava in categorie gerarchizzate i saperi. Il risultato era un ambiente altamente personalizzato di informazioni, una sintesi dei saperi attorno e a disposizione dell’utente. Ma di fatto si trattava di più che di una semplice piattaforma di consultazione: era piuttosto uno strumento attivo di produzione e riproduzione delle informazioni; gli utenti avrebbero potuto fotizzare altri libri, e attraverso gli schermi e i telefoni si sarebbero potute ascoltare lezioni, confrontare fonti istantaneamente, ma anche tradurre i suoni in testo: ovvero il dettato automatizzato (Wright, 2014). La mondothéque costituisce quindi il nodo di “ridondanza”, il feedback, che incorpora, propagandola, la macchina di disseminazione dei saperi nell’individuale; che fa dell’intera civiltà una grande “macchina della conoscenza”.
Nella “simbiosi” tra umanità e macchine auspicata da Otlet, la registrazione e diffusione dei vari media si sarebbero infatti confusi con la percezione umana: suoni, gusto, ma anche olfatto sarebbero di fatto diventati “documenti”: sensi, percezione e informazioni convergono in un grande processo collettivo di “iper-documentazione”, in cui oggetto e soggetto, cose e idee, si sovrappongono. La stessa “formazione discorsiva” del campo della documentazione può essere tracciata fino a Otlet, che per primo definì i termini di “documento” e “documentazione” per come li intendiamo oggi (van den Heuvel, Boyd Rayward, 2011), estendendo il campo semantico al di fuori del cartaceo e indicando la documentazione come «un vasto meccanismo intellettuale designato a catturare e condensare informazioni sparpagliate e frammentarie per disseminarle ovunque serva» (Otlet, 1935).
La compressione del microfotico, la disseminazione della mondothéque e la concentrazione del Mundaneum, assieme, compongono la logistica dei saperi otletiana, che intravede in anticipo sulla storia le possibilità di accumulazione flessibile e di accelerazione distributiva unitamente alla decentralizzazione della produzione e della fruibilità. Come fa notare Ubaldo Fadini nel suo ultimo lavoro su Virilio, «accanto alle tecniche di costruzione va posta la costruzione delle tecniche, cioè il composto di trasformazioni spaziali e temporali che modificano radicalmente la percezione dei territori» (Fadini, 2020). Ed è in questo senso che l’invenzione tecnica otletiana contribuisce appieno alla definizione di quelle modalità “mediatizzate”, percettive e sensibili, che ricorreranno nel postmodernismo. Immaginando “tecnicamente” i precetti dello spazio di trasmissione immateriale che connoteranno poi la seconda metà del XX secolo, i dispositivi otletiani definiscono nuovi strumenti di misura per un’organizzazione spaziale e temporale dipendente dall’insieme di “saperi situati”, prefigurando i modelli d’architettura contemporanea del server e dell’archivio nei termini logistici di centralizzazione e delocalizzazione, così come l’uso del frammento e dell’intertesto. È interessante poi notare come la stessa nozione di irraggiamento proposta da Otlet – così come altri riferimenti a un immaginario solare, di “luce”, relativo alle velocità – possa già di per sé essere uno statement rispetto al “predominio del retinico” nei saperi di cui parla Virilio, alla reinvenzione rappresentazionale del mondo nell’istantaneità dei processi tecnologici, per cui «la vera “dimensione del mondo” sarebbe allora non solo un problema di grado di risoluzione dell’immagine (geometrica, geografica), ma anche della celerità di questa, dato che il valore della mediazione dimensionale non smette di subire delle metamorfosi (di oscillare secondo Mandelbrot) dromoscopicamente, in misura proporzionale ai progressi della velocità dell’osservazione, e dato che i mezzi di comunicazione della dimensione, vettori o veicoli, sono al tempo stesso i mezzi dello sterminio delle dimensioni» (Virilio, 2005). Un po’ come già era successo per la velocizzazione dei tragitti tramite treni e aerei e ancor prima per la navigazione diretta e la triangolazione dei cieli, qui i “nuovi media”, o meglio la loro confusione operata da Otlet, determinano un diverso rapporto tra soggetto e mondo, il cui medio termine è la velocità: capace di piegare, comprimere, e “riassumere” il globo in una “tesaurizzazione razionale” dei saperi, per cui «chiunque potrà contemplare la creazione, il suo tutto o sue certe parti, dalla sua poltrona» (Otlet, 1935).
Non per niente, Otlet chiamerà l’articolazione “finale” dei suoi dispositivi cosmoscopio: una macchina tecnica, integrata e prodotta da innumerevoli individui, che permette di «vedere e comprendere l’umanità, la società e l’universo, attraverso la combinazione e la sintesi di tutti i fattori del passato e del presente permettendo così di offrire una visione del futuro», di «essere ovunque, vedere tutto, ascoltare tutto e conoscere tutto» e infine di ottenere «la contemplazione radiante della Realtà Totale» (Otlet, 1934). Il cosmoscopio sposta più in là l’iniziale frammentazione del libro. Ora, per tutta l’informazione, da quella metabolica del corpo a quella tecnologica, valgono le stesse regole dell’immediatezza: versatilità e flessibilizzazione comprendono futuro e passato in un “presente travolgente”, dove «l’irraggiamento del sole diventa il parametro di misura di ogni realtà, la luce della velocità illumina il pianeta nell’attimo in cui ne dà la rappresentazione» (Virilio, 2005).
La visione finale di Otlet è quella di una realtà accecante, “irraggiata” dalla simultaneità dell’informazione e dei saperi, della convergenza dei tempi e della compressione ultima dello spazio. Disseminare è innanzitutto polverizzare. D’altronde, faceva notare Harvey, nonostante la celebrazione dell’annullamento dello spazio nei progetti – anche utopici – del Modernismo, il rilancio del progetto illuministico di emancipazione umana universale, attraverso la comunicazione e l’intervento sociale, «implicava una frammentazione spaziale attraverso un coordinamento pianificato. E come si poteva far ciò se non ‘polverizzando’ in qualche modo gli spazi preesistenti?» (Harvey, 2010). Per certi versi, l’unità “internazionalista” esigeva già una forma di “mediatizzazione”, ovvero la capacità di “ridurre” il mondo a una scala intellegibile, completamente visibile. Ciò che fanno insieme la libreria microfotica, la mondothéque e il Mundaneum è coniugare strumento operativo e ricerca esplorativa, decretando, seppur ancora embrionalmente, il primato dell’immateriale nel dominio della tecnica. Quello che l’ecologia, la logistica e l’economia dei nuovi media, o della loro composizione, mettono in pratica nei vari ambiti di percezione sono variazioni dei processi di scala, altre visioni della realtà. Così che il mondo osservato dal cosmoscopio sia già il mondo della macchina orientato verso il “compimento della finitudine”, all’interno di una produzione di tempo e durata che si riassume nella simultaneità.
È qui che, come si avanzava in apertura citando Kubler, l’ipotesi di una “sequenza formale” tecnica e logistica del postmodernismo può essere fatta risalire a Otlet. Si tratta forse di una contingenza storica fortuita, ma il progetto enciclopedico otletiano si trovò a fare i conti con problemi “tecnici” che si presenteranno compiutamente solo mezzo secolo dopo, e li affrontò con dispositivi e logistiche non troppo dissimili dai sistemi adottati nel tardo Novecento. Otlet pensò il primo progetto di mediatizzazione “radicale” del mondo e, di conseguenza, di radicale trasformazione delle scale di tempo e spazio su scala globale. Ancora prima della “fine della storia” e della “fine dello spazio”, Otlet disegna i presupposti per la “mondializzazione” operatasi nell’annullamento delle distanze e delle misure, nel guizzo dell’intertestualità, nella convergenza di passato e futuro in un’immagine utopica di “villaggio globale” dei saperi.
Ma è forse nell’uso specifico della pellicola e dei cablaggi, nella “logistica della percezione” veicolata dal frame e attorno al quale s’immagina una “ecologia mediatica” articolando altre tecnologie, che si delinea un altro aspetto di Otlet. Non soltanto precursore dell’estetica del frammento e della sparizione, ma interprete storico di come una certa «materialità dei media» (Parikka, 2015) abbia nella storia, e qui rispetto al postmodernismo, plasmato e fornito una visione del mondo, dei paesaggi e delle relazioni, problematizzando la nozione di tempo e spazio attraverso il filtro dei media, finendo per radicalizzare le operazioni di rappresentazione di scala.
Bibliografia
Cixin L., Il Problema dei Tre Corpi, Mondadori, Milano 2017.
Fadini U., Velocità e Attesa, Ombre Corte, Verona 2020, p. 19.
Habermas J., Il Discorso Filosofico della Modernità. Dodici Lezioni, Laterza, Roma-Bari 1987.
Harvey D., La Crisi della Modernità, Il Saggiatore, Milano 2010.
Jameson F., Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma 2015.
Kubler G., La forma del tempo. La storia dell’arte e la storia delle cose, Einaudi, Torino 1976.
Otlet P., Traité de documentation. Le livre sur le livre, théorie et pratique, 1934.
Otlet P., Monde : Essai d’Universalisme, 1935.
Parikka J., A Geology of Media, University of Minnesota Press, Minneapolis-Londra 2015
Siegert B., Cultural Techniques: Grids, Filters, Doors, and Other Articulations of the Real, Fordham Univ Press, New York 2015.
Virilio P., Estetica della Sparizione, Liguori Editore, Napoli 1992.
Virilio P., La Bomba Informatica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000.
Virilio P., L’Orizzonte Negativo. Saggio di Dromoscopia, costa & nolan, Genova 2005.
Virilio P., Guerra e Cinema. Logistica della Percezione, Lindau, Torino 2018.
Van den Heuvel C., Boyd Rayward W., Facing Interfaces: Paul Otlet’s Visualization of Data Integration, in: «Journal of the American Society for Information Science and Technology» December 2011.
Wright A., Cataloging the World, Oxford University Press 2014.
Piergiorgio Caserini si occupa di ecologia e teoria critica. È stato Visiting lecturer al biennio Naba con lezioni focalizzate sui rapporti tra narrativa e cultura visuale (Immagini di futuro tra vite tecnologiche e corpi organici. Sull’immaginario della catastrofe, 2018; Narratives of prevention, 2019). Ha curato la raccolta di testi di Alexander Langer Écologie e liberté. Du mouvement vert à la guerre en Bosnie (Eterotopia France, 2019) e ne ha scritto la postfazione.