Le trovi lì, in quegli scatoloni, nelle valigie, dentro cassette di legno, affastellate senza alcun ordine. Quando ne prendi una manciata e le fai scorrere una sull’altra guardandole con attenzione, senti che hai fra le dita l’energia di tante piccole stelle.
Ognuna è stata per decenni un riferimento, il punto nodale di una costellazione familiare, ognuna è stata guardata, mostrata, accarezzata, amata, ognuna è stata lo spunto per raccontare la stessa storia, ogni volta in maniera diversa.
Queste piccole fotografie, perlopiù in bianco e nero, sono state scattate per fissare un momento, come degli spilli sono state usate per imbastire una storia nella grande trama ordita dallo spazio e dal tempo, che altrimenti avrebbe continuato a scorrere indifferente ai grandi desideri, alle gioie temporanee e ai mille patemi delle nostre vite. Adesso, dopo cinquanta, sessanta, settant’anni dallo scatto, queste stelle, questi volti sorridenti, seriosi, sorpresi, indifferenti, hanno perso qualsiasi tipo di legame che ci permetta di ricostruire il disegno che le connetteva alle altre stelle della costellazione in cui hanno brillato, alle altre persone della famiglia di cui sono state estensione, pertinenza, emanazione.
Allora, sceglierne una, anche se sfocata, macchiata, sovraesposta, tracciata da irrimediabili piegature bianche, impreziosirla con una cornice e poi affidarla ad una persona che possa prendersene cura, chiedendo che la mantenga esposta nella propria abitazione, significa provare ad attivare nuovi legami, inscrivere le persone ritratte in una nuova costellazione familiare, dare loro una nuova possibilità di divenire racconto, un’altra volta piega da imbastire nel tessuto cosmico che tiene insieme i luoghi, le persone e gli eventi.
Il confronto prolungato con queste fotografie ha stimolato in noi anche una profonda riflessione su cosa comporti per una persona fronteggiare lo scorrere del tempo, su quale sia il portato della nostra esistenza, il nostro personale rapporto di dare/avere con la porzione di mondo che ci sarà dato di esperire.
Per quasi due anni abbiamo continuato a osservare le espressioni di migliaia di persone, ritratte in occasione di un rito di passaggio, per ricordare la luce e il vento di una giornata al mare o per fissare il volto della persona amata.
La maggior parte di questi uomini e donne semplicemente non esiste più, adesso ci siamo noi, da questo lato del tempo, a giustapporre le nostre mani, lo sguardo, ad una rappresentazione chimica della loro esistenza.
Possiamo solo tentare di decifrarne la postura, l’espressione del volto, per provare a dare una forma ai loro pensieri nel momento dello scatto.
Le ottantasei fotografie selezionate per il progetto de Il libro delle immagini sono tutte incentrate sulle espressioni delle persone ritratte. Non ha avuto per noi alcun peso la qualità fotografica, la perfezione formale dell’inquadratura, la riconoscibilità dei luoghi o la bellezza del paesaggio.
Ci hanno rapito gli sguardi, il modo in cui si toccano i corpi nelle foto di gruppo, l’intensità del contatto visivo che sembra emergere in alcuni scatti fra soggetto inquadrato e fotografo. A volte chi è ritratto nella foto si perde con lo sguardo oltre il campo di ripresa, verso luoghi o persone di cui possiamo solo immaginare la presenza, altre volte ad essere fotografata è una persona di spalle che, in un’asincronia spazio-temporale, condivide con noi l’orizzonte cristallizzato nel piccolo rettangolo di carta. Sono doni non intenzionali, in grado di generare improvvise vertigini del pensiero.
La selezione delle fotografie è andata avanti di pari passo con l’individuazione delle persone da coinvolgere nel progetto, soprattutto fra chi nel proprio lavoro continua a mantenere aperto il confronto con quelli che possono essere i limiti della scrittura e della rappresentazione immaginifica. A ognuno abbiamo affidato una fotografia incorniciata e firmata come nostra opera, da mantenere esposta in casa o nello studio, chiedendo in cambio una descrizione verbale di quella stessa immagine.
C’è chi ha scritto di getto, subito dopo aver ricevuto la fotografia, e chi invece ha preferito familiarizzare con l’immagine esposta nel proprio spazio vitale/mentale.
C’è chi ha optato per una descrizione analitica della scena, chi si è soffermato su un singolo particolare, tralasciando tutto il resto, chi ha usato l’immagine come spunto per una descrizione che è anche un breve saggio antropologico e chi il saggio lo ha scritto indagando le peculiarità del mezzo fotografico.
Per altri invece sembra essersi attivato un transfert che li ha portati a scrivere della foto come se le persone ritratte fossero i propri nonni, i genitori o se stessi da bambini. Un altro approccio è stato quello di partire dai soggetti e dagli ambienti inquadrati per ideare una nuova storia.
Qualunque modalità si scelga per descrivere ad altri un’immagine di cui non si hanno riferimenti, non si può prescindere dai processi percettivi che si attivano inconsciamente quando ci si trova di fronte a qualcosa di sconosciuto.
I dati grezzi che dai nostri sensi arrivano al cervello vengono infatti posti in un confronto serrato con tutto ciò che abbiamo esperito durante il nostro vissuto e di cui abbiamo ancora memoria, questo perché solo confrontando gli stimoli sensoriali con l’esperienza acclarata riusciamo a inquadrare, dare un nome e un senso alle nuove esperienze.
Quindi, scrivendo di persone e luoghi mai visti prima, stiamo in parte scrivendo di persone e luoghi che fanno parte di noi stessi, del nostro vissuto.
In maniera speculare, anche chi leggerà il testo, grazie a un’attitudine mentale spontanea, assisterà al formarsi di una serie di immagini in determinate aree della corteccia cerebrale. Queste saranno in buona parte radicate nell’immaginario legato al proprio vissuto, più di quanto possano scaturire dalla pura sequenza di parole lette sulla pagina.
In altre parole, se dieci persone leggessero lo stesso testo assisterebbero al formarsi di immagini mentali molto diverse fra loro, almeno quanto possono essere diversi i percorsi di vita e il bagaglio esperienziale di ognuno.
Ed è proprio a questa variegata moltitudine di immagini mentali che fa riferimento il titolo del libro, nelle sue pagine infatti non è riprodotta alcuna fotografia.
In questo progetto, come in molti altri aspetti della vita, non c’è un termine di paragone con cui confrontarsi o a cui conformarsi, nulla che possa veramente fare da sponda di contenimento al proliferare dell’immaginario.
Bianco-Valente (Giovanna Bianco, Latronico, 1962 e Pino Valente, Napoli, 1967)
Viviamo a Napoli dove ci siamo incontrati alla fine del 1993. Abbiamo avviato il nostro progetto artistico indagando dal punto di vista scientifico e filosofico la dualità corpo-mente, l’evoluzione dei modelli di interazione tra le forme di vita, la percezione, la trasmissione delle esperienze mediante il racconto e la scrittura.
A questi studi è seguita un’evoluzione progettuale che mira a rendere visibili i nessi interpersonali. Esempi sono le installazioni che hanno interessato vari edifici storici e altri progetti incentrati sulla relazione fra persone, eventi e luoghi. Dal 2008, curiamo con Pasquale Campanella il progetto di arte pubblica A Cielo Aperto, sviluppato a Latronico, in Basilicata, perseguendo l’idea di lavorare alla costruzione di un museo diffuso all’aperto, in cui diverse opere permanenti dialogano con l’ambiente montano, e di intervenire nello spazio urbano con progettualità condivise e partecipate.
www.bianco-valente.com