Nelle indagini filosofiche di Foucault svolge un ruolo fondamentale lo studio delle filosofie antiche, esaminate a partire dal periodo greco arcaico fino agli sviluppi in età ellenistica. Tramite un approccio “archeologico”, mirato a ricostruire una genealogia dell’atteggiamento critico della cultura occidentale, Foucault ha rinvenuto e custodito un concetto cardine dei sistemi filosofici di quel tempo, ossia l’idea della cura di sé, concepita come una pratica costante che il soggetto compie su sé stesso per trasformarsi, con lo scopo di avvicinarsi alla verità e alla virtù.
Nel 1984 Foucault discute Il coraggio della verità, ultimo corso tenuto al Collège de France prima della sua prematura scomparsa, in cui compie un passo avanti nell’analisi della relazione fra soggetto e verità, articolata intorno al rapporto fra cura di sé e parresia (“parlar-franco”), e dunque, fra forma di vita e discorso vero.
In particolare, il filosofo nota come la nozione di parresia, nata nel contesto politico dell’assemblea della polis ateniese, si sia sviluppata nel corso dei secoli[1] attraverso la pratica dell’interrogazione socratica fino a trasformarsi in una nozione prettamente etica[2].
L’etimologia del termine rimanda al verbo parresiazestai, che significa “dire tutto”, derivando, per l’appunto, da “pan” (tutto) e “rhema” (ciò che viene detto). La funzione della parresia è quella dire la verità – che coincide con la personale opinione del parlante – e manifestarla in tutta la sua interezza, non con lo scopo di dimostrarla a qualcun altro, ma di esercitare una critica che può essere rivolta all’interlocutore come a sé stessi.
Nel criticare un comportamento o un’idea, è fondamentale che colui che “dice tutto” – il parresiastes – si contraddistingua per la forma diretta nell’esprimersi all’interlocutore, trasmettendo il proprio pensiero nella maniera più chiara e immediata ed evitando, quindi, qualsiasi tipo di tecnicismo retorico. Oltre a ciò, affinché vi sia parresia, bisogna che il parlante, nell’esprimere una verità che coincide con la propria opinione, assuma un certo tipo di rischio, che potrebbe compromettere la sua relazione con il suo interlocutore, irritandolo o urtandolo, o, nei casi più estremi, mettendo a repentaglio la propria vita. “Se c’è una “prova” della sincerità del parresiastes, essa sta nel suo coraggio» (Foucault, 2016), e, in effetti, correndo vari tipi di rischi, colui che usa la parresia sceglie una specifica relazione con sé stesso, preferendo costituirsi come qualcuno che dice la verità, piuttosto che come un individuo che si racconta menzogne. Ciò accade proprio in virtù di una libera scelta che compie il parresiastes, derivante dalla necessità dell’adempimento di un suo dovere morale. La parresia è dunque da intendersi come: «una specie di attività verbale in cui il parlante ha uno specifico rapporto con la verità attraverso la franchezza, una certa relazione con la propria vita attraverso il pericolo, un certo tipo di relazione con sé stesso e con gli altri attraverso la critica (autocritica o critica di altre persone), e uno specifico rapporto con la legge morale attraverso la libertà e il dovere. Più precisamente, la parresia è un’attività verbale in cui un parlante esprime la propria relazione personale con la verità, e rischia la propria vita perché riconosce che dire la verità è un dovere per aiutare altre persone (o sé stesso) a vivere meglio. Nella parresia il parlante fa uso della sua libertà, e sceglie il parlar franco invece della persuasione, la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio di morire invece della vita e della sicurezza, la critica invece dell’adulazione, e il dovere morale invece del proprio tornaconto o dell’apatia morale» (Foucault, 2005).
Se inizialmente la parola designa il diritto di un cittadino ateniese di prendere parola nell’agora ed esprimere la propria opinione in merito alle sorti della città, con la crisi delle istituzioni democratiche, il termine progressivamente assume una diversa connotazione. Considerando la difficoltà di ricezione del discorso vero nella democrazia a causa della mancanza di una “differenziazione etica” fra i buoni e cattivi oratori, la parresia inizia a essere sempre più legata a un altro tipo di istituzione politica che inizia a sorgere nel periodo ellenistico: la monarchia.
Qui, la parresia si concentra nella relazione tra il sovrano e i suoi consiglieri o cortigiani, che devono usare questa modalità di veridizione per aiutare il re nelle sue decisioni e metterlo in guardia dalla tentazione di abusare del suo potere. Il punto di applicazione del parlar-franco non è più la città o il corpo di cittadini, ma la psykhe dell’interlocutore, e l’obiettivo di questa pratica, più che la salvezza della città, diventa l’ethos dell’individuo. Seguendo questo percorso, Foucault rintraccia, inoltre, una prima peculiare forma di parresia filosofica che influisce sullo spostamento di dominio del termine: si tratta della modalità di veridizione impersonata dalla figura di Socrate.
Nel metodo socratico il gioco parresiastico si esprime nel rapporto personale fra due persone, e non necessariamente nella relazione del parresiastes con il demos o con il sovrano. Inoltre, rispetto alla relazione fra logos, verità e coraggio nella parresia politica, attraverso la figura di Socrate emerge un nuovo e ulteriore elemento, ossia il bios. Il parresiastes, attraverso il dialogo con il suo interlocutore, assume il ruolo di “pietra di paragone”, avendo un ruolo guida all’interno del discorso. La sua funzione è di verificare l’armonia fra modo di vivere (bios) e discorso razionale che si è in grado di usare (logos). Mentre prima la parresia veniva esercitata con il fine ultimo del benessere della città, con Socrate «la problematizzazione della parresia prende la forma di un gioco tra logos e bios nel campo di un rapporto personale di apprendimento tra due esseri umani. E la verità che il discorso parresiastico pone in luce è la verità della vita di una persona, cioè il tipo di relazione che essa ha con la verità: come egli costituisce sé stesso in quanto individuo che deve conoscere la verità attraverso la mathesis, e come questa relazione con la verità è ontologicamente ed eticamente manifesta nella sua vita» (Foucault, 2016).
Occuparsi di sé attraverso l’esercizio critico della parresia diviene, da Socrate in poi, una pratica finalizzata non solo al governo degli altri, ma soprattutto alla realizzazione di una corretta forma di vita, un lavoro del sé e sul sé in grado di garantire l’accesso alla verità. La vita stessa e l’arte della sua costruzione divengono, attraverso l’insegnamento socratico, il banco di prova per la verità dei discorsi e l’autenticità dell’esistenza.
Foucault non limita la sua indagine al metodo socratico, ma si concentra sugli sviluppi che questo ha avuto presso le filosofie ellenistiche, in particolar modo mettendo in evidenza la derivazione del precetto della cura di sé e del proprio stile di vita formulata dalla corrente filosofica del cinismo antico, a cui dedica ampio spazio. Attraverso una radicale drammatizzazione del principio socratico, il rapporto fra forma di vita e discorso vero è trasfigurato e portato dai pensatori cinici al limite dell’accettabilità. Per indicare questo ulteriore sviluppo nei rapporti fra soggetto e verità nella pratica cinica, Foucault conia il concetto di estetica dell’esistenza, ossia una stilizzazione della vita mirata a ostentare la sua verità nuda, selvaggia e scandalosa. Lo stile di vita povero, errabondo, privo di ogni comodità e libero da ogni legame, è letto come la grande opera d’arte attraverso la quale i cinici costruiscono un rapporto inedito, e in un certo senso rivoluzionario, tra vita e linguaggio, tra etica ed estetica.
Anche in questo caso l’attività parresiastica comporta l’esigenza da parte dell’individuo di un esercizio di scoperta del sé e dei suoi rapporti con gli altri e, allo stesso tempo, di una messa in relazione del proprio discorso di verità con lo stile di vita adottato, assumendo la funzione di dispositivo critico. Rispetto a questa necessità, la parresia non appare in prima istanza come un mero concetto o un argomento nel campo dell’attività filosofica della cultura greco-romana, ma piuttosto come una pratica che cerca di modellare le specifiche relazioni che gli individui intrattengono con sé stessi e il mondo che li circonda.
In entrambe le correnti di pensiero sono evidenti i principi basilari che portano all’elaborazione nel mondo antico dell’esperienza della soggettivazione, che non avviene solo attraverso tecniche di dominio, ma anche attraverso quelle che Foucault chiama le “tecniche del sé” (Foucault, 1992).
Nell’ultima parte della sua carriera il filosofo rivede e amplia le premesse concettuali da cui era partito nelle sue precedenti analisi sul potere e sulle istituzioni totalizzanti, mostrando le potenzialità di una dimensione nuova, quella dell’etica, nella quale l’individuo stabilisce un certo tipo di rapporto con sé stesso che non si configura necessariamente nella forma del dominio e dell’indottrinamento, ma nella quale sono invece possibili spazi di auto-creazione, di edificazione di sé stessi, attraverso regole che l’individuo sceglie, allo scopo di creare sé stesso nel migliore dei modi.
La parresia nel dibattito artistico contemporaneo
Le analisi di Foucault sulla parresia sono stati riprese negli ultimi anni anche da esponenti del campo artistico. Il filosofo Gerald Raunig fa riferimento alla parresia come una “doppia strategia” da impiegare nell’ambito della critica istituzionale rispetto al tema della governamentalità, per le sue implicazioni politiche ed etiche. Nella visione dell’autore, il rischioso dialogo esplicito con il potere e il processo di costante auto-critica sono le caratteristiche che le ‘pratiche istituenti’ dovrebbero incorporare per avere un effetto sulla società (Raunig, 2009).
La studiosa Irit Rogoff, invece, usa la nozione di parresia in merito alla ‘svolta educativa’ in ambito artistico, sottolineando il valore del discorso vero non come presa di posizione, ma piuttosto come forma di guida nel processo di produzione di discorsi (Rogoff, 2008). Teorizzata da Paul O’Neill e Mike Wilson, oltre che dalla stessa Rogoff, la svolta educativa descrive una tendenza nell’arte contemporanea iniziata a partire dalla seconda metà degli anni ’90, in cui diverse modalità di forme e strutture educative, metodi e programmi pedagogici alternativi sono comparsi in pratiche curatoriali e artistiche. Le iniziative legate alla svolta educativa ruotano, in linea generale, attorno alla nozione di educazione, ricerca artistica e curatoriale, acquisizione e condivisione del sapere, produzione di conoscenza. L’enfasi non è sull’opera d’arte in quanto oggetto, ma sul suo processo e sull’impiego di metodi pedagogici e tecniche discorsive all’interno e all’esterno di contesti espositivi.
Rogoff usa come chiave interpretativa dell’educazione – e della svolta educativa – la parresia, sostenendo l’importanza di momenti di produzione e articolazione di verità, non intesi come corretti o verificabili, ma come eventi marginali, non già raccolti o riflessi da discorsi preesistenti e dominanti. Mettendo in luce come sia relativamente facile indirizzare il proprio discorso verso quei grandi temi o quelle grandi istituzioni dominanti nel panorama del regime di visibilità e di articolazione delle verità, la studiosa indica ciò che risulterebbe invece più difficile, ma anche più auspicabile: trovare il coraggio nell’esprimere la propria relazione con la verità e nel condividerla con gli altri, facendola confluire in una dimensione fruibile, anche se in uno spazio liminale (Rogoff, 2008).
Sulla base degli elementi emersi nella disamina condotta sinora, il presente testo vuole presentare tre esperimenti in ambito pedagogico iniziati da artisti contemporanei, che richiamano caratteristiche della pratica parresiastica. Tali progetti, scostandosi da modelli di insegnamento verticale, creano le condizioni per una condivisione del sapere finalizzata ad avere un impatto reale sulle vite dei suoi partecipanti. Si tratta di casi nati in contesti diversi dove forme di violenza minacciano l’espressione di libertà individuali e l’accesso alla sfera pubblica.
The Silent University
La Silent University, avviata dall’artista Ahmet Öğüt nel 2012 a Londra in collaborazione con Delfina Foundation e Tate, è una piattaforma autonoma per accademici che non possono condividere le loro conoscenze e utilizzare la propria formazione professionale a causa del loro status di residenza. È una scuola solidale di rifugiati, richiedenti asilo e migranti che contribuiscono al programma come docenti, consulenti e ricercatori. Lavorando insieme, i partecipanti sviluppano lezioni, discussioni, eventi, archivi di risorse e pubblicazioni.
Si tratta di una piattaforma nomade che viene ricreata in luoghi diversi – Stoccolma, Amburgo, Amman, Atene, Copenaghen – dove ci sono un’emergenza, una perdita d’identità e stati di crisi come emigrazione, guerre, carestie, violenza.
La Silent University propone una nuova istituzione al di fuori delle restrizioni delle università esistenti, delle leggi sulla migrazione e di altri ostacoli burocratici o giuridici che molti migranti devono affrontare. Allo stesso tempo adotta le stesse logiche rappresentative di un’università – visibili nella veste grafica e nei canali di comunicazione- nello sviluppo di strutture alternative di pedagogia che oltrepassano politiche di confine, forme di educazione normativa e l’idea di razza o etnia. L’obiettivo della Silent University è quello di sfidare l’idea del silenzio come stato passivo ed esplorare il suo potente potenziale attraverso varie attività, fra cui performance, sessioni di scrittura e riflessione di gruppo. Queste esplorazioni tentano di rendere evidente il fallimento sistemico e la perdita di abilità e conoscenze sperimentate attraverso il processo di silenziamento delle persone in cerca di asilo.
Il filosofo e scrittore Paul B. Preciado ci fornisce un’immagine della Silent University ad Atene: «Nella sala si parlano tante lingue quasi quante sono le persone presenti. Una catena di traduzioni spiega il funzionamento […] La frase “tutti hanno diritto d’insegnare” risuona una decina di volte, in urdu, farsi, arabo, francese, curdo, inglese, spagnolo o greco».
INSTAR (Instituto de Artivismo Hannah Arendt)
L’INSTAR (Instituto de Artivismo Hannah Arendt) è una piattaforma pedagogica fondata dall’artista Tania Bruguera nel 2015 a L’Avana, Cuba. La sua nascita, che ha coinciso con la celebrazione della Dichiarazione della Repubblica cubana il 20 di maggio del 1902, è stata sancita da un’azione pubblica, consistita in cento ore consecutive di lettura e discussione del libro “Le origini del Totalitarismo” di Hannah Arendt. Non si tratta del primo esperimento in ambito educativo iniziato dall’artista, in quanto Bruguera ha istituito e portato avanti la Catèdra Arte de Conducta (2002-2009), programma a lungo termine incentrato sulla discussione e l’analisi del comportamento socio-politico e la comprensione dell’arte come strumento di trasformazione sociale, oltre all’Immigrant Movement International (2010-2015), un movimento sociopolitico mirato ad ampliare le conoscenze sul ruolo del migrante in relazione al tema della cittadinanza, e il Migrant People Party, un partito politico con l’obiettivo di rappresentare la categoria e i diritti dei migranti (2010-2015).
La missione dell’INSTAR è di lavorare con la cittadinanza cubana, coinvolgendo persone con livelli di istruzione e età diversa, dalle casalinghe ai professionisti, dagli attivisti agli studenti. Invitando artisti e attivisti da tutto il mondo a cooperare con i cubani nella creazione di strumenti pacifici per il cambio della politica pubblica e la alfabetizzazione civica, l’istituto vuole creare ponti di fiducia fra singolarità diverse, sviluppare una risposta responsabile a forme di violenza e realizzare un luogo in cui persone con convinzioni politiche diverse possano riunirsi per cooperare al cambiamento sociale.
A livello strutturale, l’istituto si articola in tre aree principali.
Il Think Thank, concepito come spazio per ripensare la politica e il cambiamento costituzionale. Il lavoro in questa sede affronta il contesto cubano tramite riferimento diretto o fornendo esempi di lavoro che risuonano con le trasformazioni sociali e politiche in corso nel paese.
Il Do Tank, che consiste in una serie di workshop, dove si discutono casi studio e modalità per realizzare una cittadinanza attiva e che culminano in eventi e progetti espositivi pubblici. Il programma mira ad aumentare la libertà di espressione nella sfera pubblica e la responsabilità sociale tramite lo sviluppo di un linguaggio comune.
Il Wish Tank, un programma di residenze per artisti, attivisti e ricercatori. Durante la residenza i partecipanti organizzano un evento pubblico, lavorando a stretto contatto con agenti del luogo. I temi di ricerca non devono riguardare esclusivamente Cuba, ma sono selezionati per la loro vicinanza o riflessione sugli sviluppi politici dell’isola.
School of Engaged Art
La School of Engaged Art è una piattaforma educativa avviata nel 2013 dal collettivo Chto Delat, focalizzata sull’esplorazione di questioni urgenti della politica culturale russa in un contesto internazionale e sulla fusione di teoria politica, arte e attivismo.
Si tratta di un’iniziativa di educazione artistica radicale con l’obiettivo di creare una comunità di lavoratori creativi che utilizzano il linguaggio dell’arte come strumento per una trasformazione della società basata sui valori di giustizia e uguaglianza.
A partire dal 2015, la scuola lavora nello spazio della ROSA House of Culture a San Pietroburgo: La sua attività è sostenuta dalla Fondazione Rosa Luxemburg ed è parzialmente finanziata dal Fondo di mutuo soccorso di Chto Delat.
Operando all’interno di un contesto sociale e politico che minaccia le libertà democratiche e che non offre supporto per una cultura critica, l’istituzione pone al centro della sua attività lo sviluppo di metodi e strumenti per sopravvivere e rivendicare l’accesso a una sfera pubblica più ampia.
I programmi educativi sono indirizzati a circa 30 studenti ogni anni in forma gratuita e erogati attraverso un sistema modulare: le lezioni si tengono in forma intensiva una settimana al mese e vengono offerte borse di studio per il viaggio di partecipanti non residenti.
Il curriculum della scuola evidenzia un approccio transdisciplinare, unendo poesia e sociologia, coreografia e attivismo, economia politica e storia dell’arte militante, sperimentazione di genere e drammaturgia. Una componente centrale è l’attenzione alla pratica collettiva. Più che concentrarsi su programmi di sviluppo del singolo partecipante, la scuola mira a costruire nuove forme e metodologie di lavoro collettivo e di creazione di conoscenza, in grado di sfidare lo status quo della vita artistica e fare appello alla società in generale.
Note
[1] Il termine appare per la prima volta negli scritti di Euripide nel V secolo a.C. e le fonti attestano che rimane in uso fino al V sec. d.C., coprendo un arco temporale di dieci secoli.
[2] Questa trasformazione del senso della parola è di primaria importanza, poiché, nel suo ri-configurarsi, si assiste a «il passaggio da un assetto pratico, da un diritto, da un obbligo, da un dovere di veridizione – definiti in rapporto alla città, alle istituzioni cittadine allo statuto di cittadino- a un altro tipo di veridizione, ad un altro tipo di parresia, definito non in rapporto alla città (la polis), ma al modo di fare, al modo di essere e comportarsi degli individui (l’ethos), anche rispetto al loro costituirsi come soggetti morali» (Foucault, 2016).
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Ginevra Ludovici (Roma, 1992) è una curatrice, scrittrice e studentessa di dottorato presso l’IMT School for Advanced Studies di Lucca. Laureata in Economia e Management e in Storia dell’arte contemporanea, è membro fondatore del collettivo curatoriale CampoBase. La sua ricerca verte su programmi di pedagogia radicale e processi di auto-istituzionalizzazione nell’ambito artistico.