«Una convergenza stilistica
Con il primitivo preistorico
É l’attualità, è l’attualità, è l’attualità»
(CCCP, Fedeli alla linea, 1986)
Per parlare di patrimonio, tutela, conservazione, valorizzazione, eredità, beni culturali, di tutto questo insieme come beni comuni, bisogna individuare il corpo istituzionale, culturale e sociale che lo rende (ri)conoscibile. Di questo corpo l’arte contemporanea è parte integrale, anche se si tratta di un riconoscimento che non costituisce patrimonio comune e condiviso. Senso comune è infatti considerarla esterna a quel corpo e a quella funzione. Sullo sfondo di una tradizione italiana consolidata che collega il concetto di Patrimonio a quello di Nazione, da cui genera l’etichetta “patrimonio nazionale”, da un lato, e di una tradizione internazionale che fa capo all’UNESCO e che trasferisce la nozione di patrimonio dell’umanità sul piano astorico delle “meraviglie del mondo”, si stagliano due recenti dichiarazioni ancora UNESCO: i muretti a secco e i campanacci dell’Alentejo.
Da dove originano dichiarazioni così originali e in sostanziale controtendenza? Crediamo che l’arte contemporanea, nella fattispecie la corrente dell’arte povera, per i muretti, e quelle compagnie musicali di arte popolare degli anni Settanta che hanno unito ricerca musicale e ricerca antropologica, per i campanacci, abbiano svolto un ruolo fondamentale in tal senso.
Il presente contributo (si) interroga sulla parte che l’arte contemporanea ha svolto e continua a svolgere nell’ambito della definizione dell’eredità culturale. A tale scopo pone all’attenzione gli inizi del rapporto tra arte contemporanea ed eredità e suggerisce alcuni esempi/artisti particolarmente significativi per il riconoscimento di questo rapporto, ai quali nella seconda parte è dedicata una indicativa rassegna accompagnata da breve commento.
1. Beni culturali come beni comuni
Non sappiamo dire da dove origini il concetto italiano di bene culturale, elaborazione matrice di un dibattito di caratura internazionale di cui siamo debitori alla Commissione parlamentare Franceschini (1964-1966) e che segna una svolta nel riconoscimento del comune e della funzione sociale del patrimonio inteso come eredità culturale. Fatto sta che l’universo dei beni che la nozione comprende viene in seguito a far parte della galassia dei beni comuni al centro dei lavori della Commissione Rodotà (2007) incaricata di redigere un decreto legge per la riforma dei beni pubblici. Il nostro punto di vista al proposito parte dalla ricostruzione che ne fece Stefano Lucarelli poco meno di dieci anni fa in occasione di un convegno dedicato alla promozione del riconoscimento di Brera come sito UNESCO in quanto complesso culturale dell’Illuminismo lombardo. L’economista traccia l’orizzonte keynesiano per cui l’investimento in beni culturali come beni comuni non sia da considerare improduttivo; discute la plausibilità dell’autogoverno dei commons teorizzata da Elinor Ostrom e richiama l’importanza anche per l’economia pubblica della teoria dei valori configgenti di Alois Riegl.
Proviamo a estendere e attualizzare le implicazioni per la formazione della nostra idea di patrimonio della teoria riegliana, secondo la quale la tensione che spinge alla cura, alla presa in carico dell’eredità, è il riconoscimento della conflittualità dei valori che ne sono alla base. Il riconoscimento in questione trasforma la conflittualità da elemento di disturbo, se non di impedimento, in valore. La teoria dei valori configgenti di Riegl ci dispone al riconoscimento del comune come orizzonte aperto, non qualcosa di già predefinito, in modo che, secondo François Jullien «non si trasformi in frontiera, non diventi il suo contrario: l’esclusione da cui deriva il comunitarismo» (2018, p. 24). Si apre quindi l’orizzonte per considerare i beni culturali come scarti tra le culture, l’eredità e il patrimonio in base al riconoscimento dell’alterità come risorsa, in un dialogo che valorizzi la tensione alla base del processo, secondo una postura dinamica che Jullien individua nel tra: «Nel tra che apre – tra attivo, inventivo – lo scarto produce lavoro perché i due termini che da lui si distaccano, e che lo scarto stesso mantiene l’uno di fronte all’altro, non smettono, nello spazio vuoto che si è aperto tra loro, di interrogarsi […] non è forse da questo che il rapporto tra culture può trarre un vantaggio, anziché ripiegarsi in “differenze”?» (p. 36).
Fernando Aramburu, che ci ha messo sulle tracce del pensiero anti-comunitarista e anti-identitario di Jullien, così ne sintetizza la portata per quanto interessa il tema del presente contributo: «Propone […] il procedimento di fare dell’eredità culturale una risorsa per la creazione di opere, oggetti, idee, che, per la loro stessa novità, per la loro insistenza precedente infrangono la norma identitaria» (Aramburu 2021, p. 321). Sempre all’interno della Scuola di Vienna come palestra della profezia retrospettiva, erano stati Max Dvořák e Hans Tietze a postulare la funzione imprescindibile dell’arte per contrastare la crisi della cultura e promuovere la salvaguardia dell’eredità culturale, ponendo l’accento sul vettore contemporaneo all’opera nella valorizzazione e postulando un rapporto originale tra arte contemporanea e patrimonio. Nella conclamata presa di distanza dal passato dell’arte contemporanea, a partire dalla Secessione e dalle Avanguardie, in questo “scarto” si celerebbe pertanto la possibilità fondamentale di non pensare l’eredità culturale come dato, ma di illuminarne zone, ambiti, momenti finora poco o nulla considerati, fino al punto di renderne inedito il profilo. In questo senso crediamo possa essere interessante riconoscere il contributo che l’arte contemporanea nella sua autonoma ricerca, sicuramente debitrice nei confronti della tradizione in quanto a sua volta “scarto”, risorsa, offre alla formazione della nostra idea di eredità culturale.
2. Il tra dei Beni Culturali come Beni Comuni
«Fra l’arcaico e il moderno c’è un appuntamento segreto, e non tanto perché proprio le forme più arcaiche sembrano esercitare sul presente un fascino particolare, quanto perché la chiave del moderno è nascosta nell’immemoriale e nel preistorico» (Agamben 2008, p.21). Giorgio Agamben sostiene che per riuscire nella difficile impresa di comprensione della contemporaneità sia necessario assumere una postura che preveda la presenza nel proprio tempo e allo stesso tempo una sfasatura da esso, un posizionamento che coincide con lo stare nel qui e ora e allo stesso tempo in ciò che è inattuale.
Questa ricerca di comprensione ed equilibrio ha come ambito di esercizio l’insieme delle testimonianze del passato, le produzioni artistiche e più in generale il patrimonio culturale. La convergenza nell’oggi, con ciò che vi è di primitivo, di originale (inteso come momento più vicino all’origine) e di arcaico (prossimo all’arkè) nelle testimonianze del passato crea lo slancio necessario per comprendere e creare il contemporaneo, in quanto proprio nell’arcaico si trova l’elemento del passato che resta presente, che non è sottoposto alla velocità e ai mutamenti del moderno per il semplice motivo di esservi sopravvissuto.
Questa (continua) ricerca all’interno del bacino del patrimonio culturale ha alimentato, in modalità più o meno esplicita e con diversa fortuna, lo sviluppo della tradizione artistica occidentale. La storia dell’arte fa coincidere il rinascimento con un moto di riscoperta della cultura antica e il neoclassicismo come il tentativo di far coincidere la contemporaneità con il mondo classico che via via si andava a disseppellire dal sottosuolo, ma non si può che osservare il ruolo fondante dell’immagine della Nike di Samotracia nell’immaginario di Marinetti durante la stesura del Manifesto del futurismo o la presenza di un passato dal quale prendere le distanze nelle produzioni del ‘900. Questo dialogo/scontro tra patrimonio e contemporaneo è presente, contrariamente a quanto si è soliti pensare, anche in ciò che definiamo arte contemporanea.
«L’artista contemporaneo si trova, al di là dei gusti di critica e pubblico, a maneggiare e utilizzare “tutto”, colori, materie, computer, telecamere, macchine fotografiche, proiettori, post produzione, stampe al plotter, mixer audio, calcoli di statistica per creare degli ambienti, tecniche di respirazione in caso di performance e di happening, pappagalli vivi, piccioni impagliati, lenzuola ricamate, frutta e verdura» (Vettese 2010. pp.20-21).
Le produzioni artistiche degli ultimi decenni ci mostrano come gli artisti contemporanei, accanto allo sconfinamento verso medium non propri della tradizione artistica, siano consapevoli di vivere in un contesto globalizzato, che se da una parte spinge le culture a omogeneizzarsi e far scomparire ogni scarto e differenza tra di esse, d’altra parte ha come tendenza quella di considerare un sempre maggior numero di testimonianze particolari come “beni culturali” e dunque allargare il confine di tutela del patrimonio culturale a sempre più ambiti.
In tale contesto le opere contemporanee si inseriscono e dialogano con tutto il patrimonio e non solo con la storia dell’arte, e al loro interno non contengono più solo valori estetici, ma anche e soprattutto valori culturali e storici. Esse stabiliscono un tale rapporto con la cultura di conservazione che consente a Jean Pierre Cometti di individuare in esso un tratto specifico della contemporaneità.
I punti d’appoggio per trovare l’equilibrio nella postura/sfasatura necessaria a conoscere e creare l’oggi non sono più solo quelli della tradizione storico-artistica occidentale, ma soprattutto quello sterminato insieme di testimonianze che la contemporaneità definisce come bene culturale o, in alcuni casi, quello ancora più sterminato composto da ciò che è sfuggito o rischia di sfuggire a tale definizione; ciò che non ha ancora attirato o non attirerebbe mai quel tipo di interesse. Ciò che sarebbe destinato all’oblio.
Tutto il patrimonio culturale, le testimonianze della mano dell’uomo, gli ambienti naturali, le scoperte scientifiche, gli archivi, gli oggetti quotidiani, gli imballaggi dei prodotti commerciali, i cartoni animati, le vicende storiche… integrano il “tutto” descritto da Angela Vettese, assumendo spesso il ruolo ibrido di medium e di oggetto di ricerca artistica.
Così come il neoclassicismo si nutriva della ricerca di “nuove” opere antiche da estrarre dal sottosuolo, oggi, le testimonianze del passato (spesso anche molto prossimo) sopravvissute grazie a una azione di salvataggio dalla consunzione capitalistico-consumista, acquisendo valore artistico, divengono di riflesso un importante ambito di ricerca, oltre che rappresentare una salvifica rassicurazione sia per l’artista che per chi osserva. Testimonianze destinate a non essere salvate e dunque prossime a scomparire, vengono così riconosciute e rielaborate in diverse forme, e restituite cariche di un nuovo conflitto intorno ai propri valori e alle pretese di conservazione.
L’attenzione degli artisti alla conservazione delle testimonianze del passato è presente in varie vicende della storia dell’arte e, proprio sulla base di quelle esperienze, si sono edificati i primi pensieri intorno al restauro e alla conservazione del patrimonio. Nel 1519, Raffaello e Baldassarre Castiglione scrivono una lettera a Papa Leone X per sensibilizzare verso la tutela dell’arte antica romana. Nel 1649 Borromini conclude il restauro della pericolante Basilica di San Giovanni in Laterano senza abbatterla, com’era prassi dell’epoca, ma occupando i medesimi volumi originari e ricollocando elementi decorativi in pietra e vecchie lapidi all’interno della “nuova” basilica. Antonio Canova nel 1803 rifiuta l’incarico per il restauro dei marmi del Partenone, facendo sì che questi venissero, per la prima volta per un’opera di tale importanza e dimensione, esposti come frammentari e lacunosi ma originali.
Questo moto del contemporaneo, contribuisce e ha contribuito dunque a una capillare opera di ricerca, selezione, scoperta in grado di ridefinire i valori delle testimonianze del passato oltre che a costituire intorno a esse nuovi e inauditi valori contemporanei.
Riguardo all’arte informale Umberto Eco scriveva: «non possiamo ignorare che l’artista non ci invita semplicemente […] ad andare a osservare per conto nostro selciati e ruggini, catrami e tele di sacco abbandonate in un solaio, ma usa questo materiale per fare un’opera e, così facendo, seleziona, mette in evidenza, e quindi conferisce una forma all’informe, e vi pone il suggello del suo stile. È solo dopo aver visto un’opera d’arte informale che possiamo sentirci incoraggiati a esplorare con occhio più sensibile anche macchie veramente casuali, il disporsi naturale del pietrisco, lo spiegazzarsi di alcuni tessuti mangiati o tarlati. Ed ecco dunque che questa esplorazione della materia, e questo lavoro su di essa, ci porta a scoprirne la segreta Bellezza » (Eco 2008, p. 405).
Allo stesso modo, dopo aver assistito alla trasfigurazione delle testimonianze del passato all’interno di opere contemporanee, non potremo che considerarle diversamente. Saremo portati/costretti a indagarle nuovamente, a ripensarle sforzandoci di includere in esse i nuovi valori e di conseguenza, a pensare/ripensare come necessaria la loro tutela e conservazione.
La produzione artistica contemporanea, attraverso la sua libertà espressiva e di ricerca, contribuisce con forza, anche se talvolta inconsapevolmente, ad un moto di continua ri-definizione di ciò che è patrimonio culturale. Molte testimonianze del passato, già considerate “patrimonio” vengono ri-definite e aggiornate nel corredo di valori dopo essere state esplorate dallo sguardo dell’arte contemporanea. Altre testimonianze, destinate a essere considerate perse, vengono “salvate” dall’azione dell’arte, mettendo in pratica una nuova definizione di valori, primo passo fondamentale per ogni azione di conservazione e tutela del Patrimonio.
3. Alcuni esempi paradigmatici
Il contributo didatticamente e pedagogicamente più incisivo per una valorizzazione del patrimonio come scoperta, non semplice ri-scoperta, fonte inesauribile di costruzione di un pensiero artistico e visivo contemporaneo è certamente il lavoro di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi sull’archivio, in grado di ridare valore a frammenti e reperti fotografici e cinematografici abbandonati o poco conosciuti: “Il lavoro di Gianikian e Ricci Lucchi -come sottolinea Marie Rebecchi- non smette mai di rammentarci che l’archivio non custodisce le tracce morte del passato, ma è anzitutto la testimonianza più che mai viva di ciò che oggi siamo” (Rebecchi 2015). Già Rinaldo Censi aveva proposto di avvicinare il diritto d’uso che “mette in movimento questo materiale trovato, questi stracci, questi pezzi di pellicola” cioè il loro reimpiego ad una dimensione del volere artistico (Kunstwollen): “La storia viene messa in movimento, le immagini vengono aperte, ricevono nuova luce. È quello che pensava Alois Riegl”(Censi 2010).
I prossimi tre esempi li estraiamo dalle Incursioni di Salvatore Settis. Il primo (pp. 147-163) riguarda il contributo di Tullio Pericoli e del fotografo Mario Giacomelli, del loro rispettivo lavoro artistico, al riconoscimento del territorio delle Marche come bene culturale, un lavoro che aggiunge qualcosa di insostituibile alla lettura del territorio e agli studi sul paesaggio agrario della regione, su cui ci hanno istruito le diverse generazioni della scuola storica marchigiana. Il secondo (pp. 164-185) prende in considerazione un lavoro di invenzione di Grisha Bruskin, relativo alle rovine del comunismo sovietico, in particolare dello stalinismo, che getta luce su un processo storico di cui si rischia di perdere la memoria. Si tratta di un contributo importante, che accenna ai due versanti della memoria comunista, quello dell’aberrazione secondo cui la tendenza rivoluzionaria si trasforma in annientamento dell’umano, come ne Il ritratto negato, l’ultimo film di Andrzej Waida, e quello della storia materiale, cui ha dedicato importanti studi Giampiero Piretto. Infine la scultura di Giuseppe Penone, «una profezia anticipatrice, un baluardo contro la catastrofe imminente» (Settis 2020, pp. 187-231, spec. 228).
L’esempio di Penone ci avvicina al tema dell’accennato riconoscimento UNESCO dei muretti a secco, di quella prossimità di eredità culturale e naturale che già storici come Emilio Sereni e Alberto Caracciolo avevano fatto oggetto di studio. Ma chi ci mette sul sentiero di questo patrimonio materiale e immateriale, con la postura dello scarto e del tra, camminandoci sopra, è ancora un artista, Pier Paolo Pasolini, che accenna al valore di saper fare, della cultura contadina nella fattispecie, in una sequenza del suo documentario Le forme della città 1974, dedicato appunto alla perdita della cultura materiale che ha segnato il territorio italiano tutto insieme considerato come bene culturale, mentre spiega a Ninetto Davoli proprio l’esempio e l’importanza dei sentieri contadini come tracce del terremoto culturale che si verifica tra la costruzione della città di antico regime e quella della città capitalistica, in particolare del secondo dopoguerra.
4. Un possibile percorso
Proponiamo di seguito una raccolta di materiali in cui abbiamo riscontrato alcuni degli elementi del rapporto tra arte contemporanea e patrimonio culturale che abbiamo descritto nel testo.
Giorgio Andreotta Calò, CittàdiMilano, Pirelli Hangar Bicocca, Milano, 14 Febbraio-21 Luglio 2019
Nicola Samorì, Sfregi, Palazzo Fava, Bologna, 8 Aprile- 25 Luglio 2021
Roberto Cuoghi, MIRACOLA, Luci d’Artista festival, Piazza San Carlo, 24 Novembre 2019- 12 Gennaio 2020
Tullio Pericoli, PAESAGGI, Galleria Civica, Trento, 2 -11 Dicembre
Grisha Bruskin, Icone Sovietiche, Gallerie d’Italia Palazzo Leoni Montanari, 18 Ottobre 2017- 15 Aprile 2018
Giuseppe Penone, Penone Versailles, Chateau de Versailles, 11 Giugno – 31 Ottobre 2013
Video intervista a Anselm Kiefer, History and Mythology, SFMOMA San Francisco 2016
Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Frammenti elettrici n°7 e n°8
Nota
anche se le riflessioni sono frutto di un lavoro comune, i paragrafi 1. 3. sono di Sandro Scarrocchia, 2. 4. di Mauro Manzoni.
Bibliografia
Agamben G., Cos’è contemporaneo?, Nottetempo, Milano 2019
Aramburo F., Il rumore di questa epoca, Guanda, Milano 2021
Caracciolo A., L’ambiente come storia : sondaggi e proposte di storiografia dell’ambiente, Il Mulino, Bologna 1989
Censi R., Karagoez, in «Nazioneindiana», 22 maggio 2010. visitato il 26.8.2021
Cometti J.P., Conserver /Restaurer, Editions Gallimard, Paris 2015
Eco U., Storia della Bellezza, Bompiani, Milano 2008
Jullien F., L’identità culturale non esiste: ma noi difendiamo le risorse di una cultura, Einaudi, Torino 2018
Lucarelli S., Profilo giuridico di Brera bene comune, in: Per Brera Sito UNESCO, Atti del convegno internazionale 29 novembre-1 dicembre 2012, Bergamo, Sestante 2013, pp. 63-71. Visitato il 26.8.2021
Piretto G., Gli occhi di Stalin : la cultura visuale sovietica nell’era staliniana, Raffaello Cortina, Milano 2010
Piretto G., La vita privata degli oggetti sovietici. 25 storie da un altro mondo, Sironi, Milano 2012
Rebecchi M., Gianikian e Ricci Lucchi, il canto dell’archivio, in «Alfabeta», 6 dicembre 2015. Visitato il 26.8.2021
Sereni E., Storia del paesaggio agrario italiano, G. Laterza e F., Bari 1961
Settis S., Incursioni. Arte contemporanea e tradizione, Einaudi, Torino 2020
Vettese A., Si fa con tutto, Editori Laterza, Bari 2010
Sandro Scarrocchia (1952) è stato docente di Metodologia della Progettazione e Teoria e Storia del Restauro all’Accademia di Belle Arti di Brera, insegna attualmente Storia dell’Arte al Politecnico di Milano. Tra le sue pubblicazioni: Albert Speer e Marcello Piacentini. L’architettura del totalitarismo negli anni Trenta (1999, 2013); Leopardi e la Recanati analoga (2001); Oltre la storia dell’arte. Alois Riegl vita e opera di un protagonista della cultura viennese (2006); (con Domenica Primerano), Il duomo di Trento tra tutela e restauro 1858-2008 (2008); Max Dvořák. Conservazione e Moderno in Austria (1905-1921) (2009, 2018); e la curatela di Alois Riegl, Teoria e prassi della conservazione dei monumenti (1995, 2003); Alois Riegl, Il culto moderno dei monumenti (2011, 2017); Max Dvorák, Schriften zur Denkmalpflege (2012); (con Giuseppe Arcidiacono), Il Memoriale italiano ad Auschwitz (2014); Camillo Boito moderno (2018); (con Sergio Nannicola e Marco Pellizzola) Sesto Stato. La rappresentatività del lavoro oggi (2020).
Mauro Manzoni (1987) ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Brera, laureandosi nel 2012 in Restauro dell’Arte Contemporanea con la tesi Il Partenone di John Henning, progetto per un restauro condiviso, finalista al concorso Miglior Tesi dell’IGIIC. Ha collaborato a progetti di conservazione e restauro in Italia e all’estero. Attualmente si occupa di Restauro con una particolare attenzione al dialogo tra Arte Contemporanea e Conservazione del Patrimonio Culturale. Tra le sue pubblicazioni: Il Partenone di John Henning. Progetto per un restauro condiviso in (atti del convegno) “Lo stato dell’Arte 10”, Accademia Nazionale di San Luca (con B. Nicoletti) (2012); Il Paesaggio Sonoro di Brera in “Per Brera Sito UNESCO” (2013); John Henning Rilievi miniaturizzati dei fregi panatenaici e dei bassorilievi del tempio di apollo a Phigalia. Studio della tecnica esecutiva e problemi di conservazione, in “Lo Stato dell’Arte 12”, Accademia di Belle Arti di Brera (2014); Modelli per il Sacro Monte di Varallo in Dario Trento. Una storia Aperta, a cura di Elisabetta Longari (2020).