«Nell’estate 2018, da una bancarella del mercato d’antiquariato di Marina di Modica, in provincia di Ragusa, ho comprato una macchina fotografica Zenit del 1990. Insieme ad essa, il mercante mi ha regalato due rullini usati scattati dalla stessa macchina, uno dei quali ancora inserito al suo interno. Le pellicole – di marca Perutz e fuori produzione da vent’anni – erano piuttosto datate, le ho quindi sviluppate senza l’aspettativa di trovarvi nulla, per pura curiosità. Sorprendentemente è invece emersa una collezione di scatti privati che ruotano intorno al compleanno di un signore di nome Biagio: il nonno di una sconosciuta famiglia del ragusano» (Cereda, 2022).
La ricerca di Giorgia Agnese Cereda (1992), artista che opera a Venezia, si concentra sul ricordo, in particolare quello di famiglia, e su ciò che esso rappresenta; attraverso memorie, racconti personali o altrui, Cereda realizza un archivio di molteplici realtà rivolto alla creazione di possibili narrazioni.
La scoperta casuale di queste pellicole abbandonate è diventata l’occasione per scavare nei ricordi di una famiglia sconosciuta. La semplice curiosità nel sviluppare questi rullini, ha fatto sì che il ricordo, apparentemente rifiutato dal proprietario, acquisisse una sua forma reale e materiale.
Il concetto di eredità e di responsabilità di una memoria familiare ottiene, nell’operazione artistica, dei connotati differenti: da memoria privata destinata agli eredi di una famiglia assume qui il valore di una scoperta archeologica (Cereda, 2022).
Il risultato è quello di un’indagine che l’artista ha compiuto attraverso un’analisi minuziosa delle pellicole; una ricerca caratterizzata da un sentimento di empatia verso una famiglia sconosciuta, investigandone le coordinate che collocano la scena in uno spazio e in un tempo definiti: la torta è decorata con la scritta “Buon 68° Compleanno Biagio”, la felpa di un nipote riporta il nome di un’associazione calcistica di Scicli, alle spalle di un ragazzino appare il calendario del 2000.
Gli scatti fotografici, per la loro stessa natura, possiedono una temporalità precisa e definita, raccogliendo immagini ed eventi di un momento proprio ed inequivocabile.
Lo stile è tipicamente familiare, in entrambe le accezioni del termine, e vicino alla sensibilità di ognuno di noi, proprio perché possiamo immediatamente leggere il contesto in cui le foto sono state scattate oltre che immaginare le relazioni e i rapporti che intercorrono fra i diversi membri della famiglia.
Nonno Biagio, l’indiscusso protagonista, posa con lo sguardo impassibile in quasi tutte le fotografie, statuario al centro dell’inquadratura insieme alla torta di compleanno intatta che aspetta di essere tagliata e mangiata, dopo aver esaurito la sua funzione di oggetto di scena; accanto a lui si alternano vari personaggi, parenti e amici di cui possiamo intuire il grado di parentela e i legami che intercorrono tra loro.
Il linguaggio implicito della ritrattistica familiare permea in questi scatti e allo stesso tempo in ognuno di noi: ripensiamo alle pose infinite per le foto dei nostri primi compleanni, impazienti di fronte alla torta così appetitosa, ripeschiamo dagli album le foto ricordo con i nonni del giorno di Natale.
La necessità di fermare un momento attraverso il mezzo fotografico è un metodo di rappresentazione che possiamo ritrovare nella stragrande maggioranza di tutte le famiglie; l’esigenza e la volontà di sospendere quell’attimo della storia della propria famiglia sopravvivono in maniera ostinata all’evoluzione della tecnica. Non importa se lo strumento sia la pittura del Rinascimento, la macchina fotografica di grande formato di Thomas Struth negli anni ’90 o l’Iphone di ultima generazione, la volontà di fissare quel presente, nel creare un ricordo da archiviare nello scatolone in soffitta o nell’archivio digitale del telefono cellulare, si mantiene vivo ancora a oggi.
La messa in posa dei soggetti della fotografia analogica, per via dei tempi dilatati che essa richiede, costituisce l’interruzione di un momento con l’intento di creare un ricordo; con i mezzi a nostra disposizione, oggi non occorre più interrompere quel dato istante, possiamo scattare foto in sequenza senza porre più troppa attenzione alla costruzione della scena.
La fotografia analogica nella sua origine faceva sì che quel tempo di posa conservasse il suo valore e il suo significato più intrinseco, che mantenesse quella magia singolare della creazione della fotografia, proprio perché quando si è in posa ognuno mette in mostra quello che vuole; ad oggi la necessità di fermare un ricordo rimane, ma l’azione ha assunto un carattere per lo più documentaristico, in cui l’aspetto creativo e la messa in pausa del momento sono ridimensionati, in favore di una maggiore accidentalità.
La fotografia digitale odierna esclude talvolta la partecipazione attiva del soggetto fotografato; viceversa, nel ritratto fotografico analogico, la partecipazione del soggetto è a tutti gli effetti un impegno, una “messa in scena” come appare negli scatti di Biagio. Tuttavia, nonostante siano cambiati i mezzi a nostra disposizione, l’intento e la necessità di possedere il ricordo di un determinato momento persistono, anche se probabilmente, ad oggi, ciò che si è perso maggiormente è il desiderio di vivere quel momento.
Solo successivamente al lavoro di indagine Cereda, attraverso una serie di disegni, genera una nuova storia familiare. Isolando i personaggi stereotipati presi dalle fotografie dai dettagli identificativi del contesto, risulta una narrazione di stampo fumettistico, dove ciò che risalta non è più l’insieme delle coordinate spazio-temporali, bensì il contorno delle figure. I disegni realizzati tramite il ricalco su un supporto cartaceo rivelano, attraverso il segno frammentato dell’artista, un ritratto familiare che non può più essere considerato sconosciuto o privato, ma che assume una narrazione altra.
Le dinamiche tra i personaggi rappresentati appaiono così comuni che chiunque può ritrovare sé stesso ed identificarvisi; non rientrando più nell’immagine originaria della fotografia, i personaggi emergono come partecipi di un’altra possibile storia, unica ed indipendente. Ogni faccenda familiare viene vissuta in una sfera privata ed intima, ma qui scompare questa forma di privatizzazione, l’egocentrismo viene meno a favore di una concezione universale di vissuti famigliari.
La serie Archive of personal desires III: Teresa, un archivio visivo iniziato nella Primavera del 2019 e non ancora terminato, rappresenta un frammento della vastissima collezione di oggetti appartenuti alla nonna dell’artista. Un progetto nato come un ritratto della nonna Teresa e della sua ossessione per gli oggetti, oltre che come una sorta di identificazione dell’artista nella sua figura. Il progetto si propone di catalogare centinaia di soprammobili, cimeli e chincaglierie accumulate negli anni e lasciate in memoria alle sei figlie; il processo di catalogazione e archiviazione inizia dagli oggetti ereditati alla madre dell’artista.
L’archivio è un mezzo utilizzato in tutte le epoche, partendo dalla necessità di ricordare in modo organizzato la Storia, privata o sociale che sia, conservando tuttora un grande fascino e una propria aura, poiché possiede lo straordinario potere di parlare a persone temporalmente, geograficamente o anche culturalmente lontane da chi li ha creati, pur portando ancora con sé i propositi e i linguaggi originari. Ora, il lavoro di Cereda rispetto all’archivio è quello di recuperarlo e rielaboralo sia come oggetto d’indagine sia come archetipo formale ed espressivo; questo viene utilizzato come medium per realizzare nuove visioni e ricostruzioni del mondo. Non lo si considera più come un portatore passivo di un’eredità, ma piuttosto come un dispositivo attivo che dà forma all’identità personale e rimodella la memoria, che sia familiare, sociale o culturale.
Archiviare per Giorgia Agnese Cereda, non significa solo raccogliere, classificare e conservare, ma soprattutto ripensare, mostrare e raccontare, oltre che l’occasione per attivare il pensiero e incoraggiare un dialogo comune ed universale. L’artista diventa così «l’onnivoro creatore e consumatore di immagini che, dotato di uno sguardo antropologico, si fa difensore del nostro saper vedere e ricordare» (Baldacci, 2017).
Il metodo utilizzato da Cereda per la realizzazione dei disegni si traduce in una riproduzione il più possibile oggettiva, ossia ancora una volta distaccata dalla raffigurazione reale degli oggetti: il processo può essere decifrato come una denaturalizzazione che crea una sorta di traccia digitale di questi.
La scelta di annullare ogni valore e scala e di seguire linee verticali quasi sempre identiche tra loro, che si vanno a sovrapporre e che mutano di intensità, si può interpretare prima di tutto come uno studio dell’oggetto che dà origine a una rappresentazione definibile come “copia infedele” dell’originale. Questo processo costringe l’artista a procedere in maniera lenta ed analitica, ripetendo le linee innumerevoli volte, così che l’oggetto si traduca in immagine attraverso la sua memoria: un processo meditativo e di riconoscimento di oggetti intrisi di storie familiari, racconti ed esperienze passate.
Le collezioni di oggetti, anche i più assurdi e privi di importanza, spesso sopravvivono grazie all’attaccamento di una famiglia; ora, togliendo l’oggetto dalla sua collocazione originaria e spogliandolo del possesso e del valore che aveva in passato, esso viene investito da nuove connotazioni e significati da chi lo eredita. L’oggetto del ricordo prelevato dal reale viene alterato, ad esso si aggiunge una nuova forma e un nuovo valore attraverso un processo di risignificazione e ricontestualizzazione, perdendo così quell’aura che lo legava a un determinato “qui e ora”. L’oggetto e la sua materialità giocano, in questo caso, un ruolo in secondo piano, tanto da pensare che non sia più una questione di oggetto ma di qualcosa di “altro”.
L’oggetto porta così un valore intrinseco da diventare “cosa”[1]; ora, ciò che conta è sia essere oggetto del desiderio sia essere oggetto del ricordo: una cosa materiale che allo stesso tempo non può essere riducibile alla sua stessa materialità.
Ancora una volta, l’operazione di Giorgia Agnese Cereda restituisce una versione più generalizzata e sintetizzata dell’oggetto, dove i dati anagrafici, ossia le caratteristiche fisiche, si perdono con l’intento di riconsegnare un’idea nella quale l’osservatore possa in qualche modo ritrovarsi. Questa esigenza nasce dalla volontà dell’artista di assecondare la tecnica, lasciando spazio all’agire diretto del metodo espressivo; sottraendo la gestualità dal processo di realizzazione è la materia stessa ad influire sul processo artistico.
L’atto artistico che definiamo ora come un dispositivo agisce attraverso la produzione di nuovi soggetti; un processo soggettivante ha però certo (di per sé) implicito un processo di desoggettivazione o meglio è solo attraverso la negazione del soggetto di partenza che può aver luogo la ricomposizione di un nuovo soggetto (Agamben, 2006). In questo caso particolare, attraverso la desoggettivazione della memoria famigliare privata si determinano nuove soggettivizzazioni, ovvero nuove possibili narrazioni.
Il lavoro documentaristico Ciao Zia consiste in una serie di fotografie scattate durante la prima visita alla cappella funeraria della famiglia materna dell’artista, un’ambiente privato e accessibile solo ai suoi membri, situata nel cimitero di Falcone, in provincia di Messina.
La narrazione si concentra sulla figura della zia Giuseppina, morta all’età di 27 anni e nota per la sua bellezza; l’attenzione ricade sul volto sfocato della foto e sulla scritta riportata sull’epitaffio: “Ciao Zia”. Questa breve e semplice dicitura è riconducibile ad un messaggio di affetto, dolce ed anacronistico, lasciato dai parenti nei suoi confronti, ma non solo: quest’ultimo, in chiave moderna, può ricondursi al gergo colloquiale usato per salutarsi. Un messaggio che viaggiando nel tempo può portare con sé valori differenti, dove il significato rimane ad ogni modo quello originale di un ultimo saluto, ma che assume un’eccezione dissimile all’interno di una serie di fotografie.
Ancora una volta, una semplice scritta così privata di un epitaffio, diventa un’occasione per narrare nuovi significati e valori, per legare un passato con un presente, per mettere in comunicazione una sfera intima e personale con una sociale e generazionale. Dalle foto traspare lo stato di leggera trascuratezza della cappella, nella quale, allo stesso tempo, si notano piccole tracce di cura e vicinanza agli antenati: oggetti e omaggi che diventano un eco materiale dell’intimo “ciao”.
Il denominatore comune nelle opere di Giorgia Agnese Cereda si ritrova in un forte attaccamento al suo vissuto, sia che riguardino storie personali e familiari sia, d’altro canto, racconti paralleli verso cui è percepita una vicinanza emotiva.
L’elemento che però in qualche modo si impone in questa ricerca artistica è l’esigenza di consegnare all’osservatore la possibilità di riconoscersi in quel racconto spogliato di ogni intimità, così da apporvi una sua personale narrazione: un modo di operare che può essere recepito come un atto di profanazione. Profanare, un termine che proviene dalla sfera del diritto e della religione romana, significa restituire al libero uso degli uomini ed è così che l’atto artistico di Giorgia Agnese Cereda, da un ricordo inviolabile perché privato e famigliare, diventa un ricordo pubblico e universale.
Note
[1] «L’italiano “cosa” è la contrazione del latino causa, ossia di ciò che riteniamo talmente importante e coinvolgente in grado di mobilitarci in sua difesa» (Remo Bodei, La vita delle cose, Editori Laterza, Roma-Bari 2011, p. 12). «“Oggetto” è, invece, un termine più recente, che risale alla scolastica medievale e sembra ricalcare teoricamente il greco problema, problema inteso dapprima quale ostacolo che si mette avanti per difesa, un impedimento che, interponendosi e ostruendo la strada, sbarra il cammino e provoca un a arresto. In latino, più esattamente, obicere vuol dire gettare contro, porre innanzi» (Ivi, p. 19).
Bibliografia
Agamben G., Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Milano 2006.
Baldacci C., Archivi impossibili. Un’ossessione dell’arte contemporanea, Johan & Levi, Monza 2017.
Bodei R. La vita delle cose, Editori Laterza, Roma-Bari 2011.
Cereda G.A., Portfolio, 2022.
Martina Piantoni laureata in Scienze Filosofiche all’Università Ca’ Foscari di Venezia con uno studio sull’anima nel pensiero del francescano Pietro di Giovanni Olivi. I suoi interessi di ricerca si articolano attorno all’antropologia filosofica e alla filosofia morale, in particolare nel pensiero medievale. Vive e lavora a Venezia. Ha pubblicato Itineratio come vita. Sulla concezione Kierkegaardiana della ripresa in Instoria, Rivista online; oltre che il testo introduttivo alla fanzine Dieta, 2020, realizzata durante la residenza artistica In-Edita, Venezia.
Giorgia Agnese Cereda nasce a Bergamo nel 1992, al momento vive a Venezia e lavora presso lo studio Kadabra, Mestre (VE). Ha frequentato il corso di Pittura di Carlo Di Raco e ha conseguito il Diploma di II livello in Pittura nel 2019, presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia. Nel 2018/19 è assegnataria di uno studio presso la Fondazione Bevilacqua La Masa. Tra le mostre collettive a cui ha partecipato nel 2021 si ricordano: Venice Time Case, Galleria Tommaso Calabro, Milano; Opus Focus, Calle Corte Legrenzi, Mestre; Whatever it takes, A plus A Gallery, Venezia; 103ma Collettiva Giovani Artisti e i vincitori della 102ma, Galleria di San Marco, Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia.