Questo testo nasce dalla fascinazione per i cammini, le vie, il wandering, il camminare lungo itinerari creati dal ripetersi più o meno frequente di un atto collettivo.
Il titolo è una rielaborazione di un passo che mi ha catturato, tempo fa: «I sentieri sono le consuetudini di un paesaggio. Sono atti di creazione consensuale […] anche perché senza manutenzione collettiva e collettivo impiego spariscono» (Macfarlane, 2013).
Trovo il “cammino” – inteso nel senso più generale possibile – e nello specifico il sentiero, uno dei paradigmi più complicati e al tempo stesso affascinanti per provare a spiegare dal punto di vista giuridico l’evoluzione che i cosiddetti “beni comuni” hanno avuto e stanno avendo in Italia.
Questo testo spera di riuscire a illustrare la seguente tesi.
Tra tentativi riusciti e non dell’Amministrazione Pubblica e dell’iniziativa privata, tra autonomia e “statalizzazione” di organizzazioni storiche, i cittadini hanno pian piano scoperto la categoria dei beni comuni come chiave per acquisire dignità di controparte nelle dinamiche strategiche pubbliche di valorizzazione e conservazione
Oggi, con l’introduzione delle particolari procedure di co-programmazione e di co-progettazione, il Codice del Terzo Settore sembra spingersi oltre, fino ad affidare agli enti privati l’iniziativa per definire i bisogni, condividere le risorse anche pubbliche e proporre progetti per la soddisfazione delle necessità della comunità.
Il sentiero
In origine i sentieri erano piste di caccia o di transumanza, portavano all’acqua o offrivano erbe commestibili e frutti spontanei, convergevano verso luoghi sacri, univano le comunità e creavano reti di rapporti [1].
Anche oggi sono definiti da una natura essenziale e dall’essere il risultato di una sapienza di comunità. Sono da sempre, e ultimamente sono sempre più valorizzati come, strumenti di conoscenza e di memoria.
La definizione giuridica di sentiero è contenuta nel Codice della Strada (D. Lgs. 285/1992), secondo il quale si intende per «“strada” l’area ad uso pubblico destinata alla circolazione dei pedoni, dei veicoli e degli animali» (art. 2, comma 1) e per «Sentiero (o Mulattiera o Tratturo): strada a fondo naturale formatasi per effetto del passaggio di pedoni o di animali» (art. 3, n.48).
È evidente che la definizione di sentiero nel Codice della Strada è molto più ristretta di quella che generalmente è assunta nel linguaggio comune.
Approfondendo la lettura del Codice della Strada, ci sono altre due definizioni che compongono il concetto generale di “sentiero”:
1) «Itinerario ciclopedonale: strada locale, urbana, extraurbana o vicinale, destinata prevalentemente alla percorrenza pedonale e ciclabile e caratterizzata da una sicurezza intrinseca a tutela dell’utenza debole della strada» (art. 2, lett. F bis)[2].
2) «Strada vicinale (o Poderale o di Bonifica): strada privata fuori dai centri abitati ad uso pubblico» (art. 3, n. 52).
Questa elencazione di definizioni non vuole scoraggiare il lettore, bensì fornirgli una prima chiave per cogliere una utile differenza di caratterizzazione: se l’itinerario ciclopedonale è definito sulla base della sua destinazione e dell’uso di alcune particolari categorie di fruitori, la differenza tra sentiero e strada vicinale è tutta esclusivamente basata sulla qualità della proprietà, pubblica nel primo e privata nella seconda.
Questa differenza – basata sull’appartenenza – è uno degli aspetti fondamentali della natura e dell’evoluzione del concetto giuridico di “bene comune”; il primo grande fondamentale nodo da affrontare per comprendere l’atteggiamento che nel tempo si è avuto nei confronti di quello che alcuni dei migliori osservatori del diritto hanno chiamato “un altro modo di possedere” (Cattaneo, 1956; Grossi, 2017).
Un altro modo di possedere
I fenomeni rivoluzionari che chiedevano la “liberazione della terra” hanno portato nell’Ottocento all’approvazione del Code Civil francese (ricordato come il primo codice civile moderno) e, con esso, della cancellazione di ogni tipo di manomorta o simile retaggio, anche feudale, attraverso l’introduzione della proprietà privata, intesa come manifestazione della libera volontà del soggetto proprietario.
In tale contesto, quindi, il proprietario era colui che aveva il diritto di usare una cosa come meglio voleva e credeva, conservandola o distruggendola, preservandola o regalandola, essendone l’unico responsabile.
Il soggetto – e non più l’oggetto – era l’assoluto protagonista del sistema giuridico privato; con l’attribuzione di diritti e volontà si rivoluzionava quanto era stato fino ad allora. Il soggetto non aveva più valore di fronte alla legge solo per la sua relazione con una cosa (perché, ad esempio, coltivava una parte del patrimonio dell’autorità ecclesiale o di quello aristocratico), ma perché riconosciuto come soggetto dotato di diritti sulle cose e di libertà economica.
Seppure resistevano esempi di dominii collettivi e di diritti d’uso in tutta Europa e anche in Italia[3], tutte le codificazioni civili moderne – e con esse la costruzione dell’impianto giuridico dell’Ottocento e del primo Novecento – si imperniano sul sistema della proprietà privata come strumento di affermazione dell’individuo, attorno al quale costruire il diritto, relegando ai margini (se non cercando di eliminare) quanto di differente esisteva (Grossi, 2017).
I frutti più immediatamente visibili di questa impostazione giuridica sono – per quanto interessa a questa ricerca – le recinzioni, la costruzione di opere idriche private e più in generale tutte quelle opere limitative e protettive della proprietà. I sentieri tra i campi diventano di uso esclusivo, al massimo condiviso con i proprietari confinanti, e la possibilità di utilizzo delle risorse comuni (ad esempio, pozzi o polle d’acqua) tra terreni diventa suscettibile di scambi economici tra i loro proprietari.
La collettività è quindi messa in secondo piano dalla concezione di individuo come centro del mondo – giuridico e non – come fulcro dell’iniziativa privata. Negli anni Venti e Trenta del Novecento, con la crisi della civiltà borghese e la spinta a una visione corporativista, in Italia si è assistito a un cambiamento di rotta.
Se lo stato liberale si proponeva di lasciare libertà quasi assoluta all’iniziativa privata e di non intervenire nella materia economico-sociale, il fascismo crede che nella comunità statale l’individuo esprima e realizzi tutto se stesso e che ogni sua determinazione, economica e sociale, abbia una qualifica morale e politica (Bottai, 1938).
Lo stato fascista riconduce a sé tutte le forze sociali ed economiche espresse e realizzate dai cittadini, ordinandole e regolandole secondo i propri fini. Riordinare gli enti già esistenti, disciplinarli unitariamente e far confluire le categorie sociali in associazioni di diritto pubblico diviene la soluzione per assicurare una partecipazione consapevole della comunità (Bottai, 1938).
Nel 1942 si approva il Codice Civile italiano (ancora oggi per larga parte in vigore), nel quale i beni dello Stato sono sottoposti ad uno schema di “dominio” proprietario molto simile alla proprietà privata, pur godendo di una tutela rafforzata.
Anche oggi l’art. 823 del Codice Civile indica infatti che i beni che fanno parte del demanio pubblico sono inalienabili e non possono essere l’oggetto di diritti a favore di terzi, a meno che non sia la legge a prevederlo. Inoltre spetta all’autorità amministrativa la tutela dei beni che fanno parte del demanio pubblico mediante una duplice modalità: la via amministrativa, tipica del diritto pubblico, e l’utilizzo dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso regolati dal presente codice, come un proprietario “privato”.
Un buon esempio di questa evoluzione storico-politica, in linea con l’oggetto della presente ricerca, è il Club Alpino.
Nato nel 1863 per iniziativa privata di illustri componenti della società italiana «all’insegna di un sentire e vivere la montagna in forma elitaria» (Salsa, 2015), il primo statuto del Club Alpino, aveva quale scopo quello di far conoscere le montagne e di agevolare le escursioni, le salite e le esplorazioni scientifiche.
Lo Statuto del Club Alpino Italiano [4] del 1931, approvato dal CONI [5], riporta per la prima volta tra gli scopi statutari quello di «collaborare con le autorità centrali e locali per dirigere e controllare lo sviluppo dell’alpinismo con tutti i mezzi opportuni, quali: costruzione di rifugi, bivacchi d’alta montagna, mulattiere e sentieri alpini, posti di soccorso, pubblicazione di carte e guide, collocazione di segnavie, di cartelli indicatori, ecc.» (art. 2, lett. f).
La Repubblica […] tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione, (art. 9 della Costituzione)
Con l’approvazione e l’entrata in vigore della Costituzione, la proprietà si trasforma da limite invalicabile a «base materiale su cui tessere legami sociali di libertà» (Capone, 2020).
Per il tema che interessa questa ricerca, la Costituzione rappresenta un tangibile cambio di pensiero e di paradigma che, prima di tutto, si manifesta in una precisa scelta semantica: i membri della Costituente decidono di utilizzare la parola “paesaggio”, intesa come un sistema complesso e dinamico di elementi naturali e culturali (Settis, 2013).
Non si tratta quindi di panorama, bensì della «forma del paese, creata dall’azione cosciente e sistematica della comunità umana che vi è insediata, in modo intensivo o estensivo, nella città o nella campagna, che agisce sul suolo, che produce segni nella sua cultura» (Predieri, 1969).
I beni che costituiscono il paesaggio sono quindi emancipati dalla pura logica di appartenenza espressa nel Codice Civile [6], e sono collocati in una posizione sovraordinata a quella occupata dalla proprietà, pubblica o privata che sia, in quanto diritti fondamentali costituzionalmente garantiti (Capone, 2020).
Da questo enorme cambio di prospettiva, si è cominciato a proporre un diverso approccio anche nel definire i beni pubblici e la loro finalità, sottolineandone – al pari della qualifica pubblica del soggetto proprietario – il carattere oggettivo legato alla loro utilità a una collettività (Giannini, 1963; ma anche Cons. Stato, sent. 29/1997).
Tale approccio è stato poi confermato dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (D. Lgs. 42/2004), che indica espressamente la valorizzazione del paesaggio come modalità di promozione dello sviluppo della cultura; pertanto la Pubblica Amministrazione deve promuovere e sostenere attività di conoscenza, informazione e formazione, riqualificazione e fruizione del paesaggio nonché, ove possibile, la realizzazione di nuovi valori paesaggistici coerenti ed integrati (art. 131, comma 5).
Inoltre, lo Stato, le Regioni, gli altri enti pubblici territoriali nonché tutti i soggetti che, nell’esercizio di pubbliche funzioni, intervengono sul territorio nazionale, informano la loro attività ai principi di uso consapevole del territorio e di salvaguardia delle caratteristiche paesaggistiche e di realizzazione di nuovi valori paesaggistici integrati e coerenti, rispondenti a criteri di qualità e sostenibilità (art. 131, comma 6).
Nella stessa direzione è sembrata andare anche la giurisprudenza che, in tema di beni pubblici, ha dato atto dell’esigenza interpretativa di andare oltre una visione prettamente patrimoniale-proprietaria, per giungere a una prospettiva personale-collettivistica (Cass. Civ., sent. 3665/2011).
Oggi si è affermato molto lucidamente il pensiero che «i diritti creano i beni» (Rodotà, 2018) e che pertanto «i soggetti che reclamano strumenti per rendere effettivo l’esercizio dei diritti fondamentali non solo generano lo spazio entro cui e attraverso cui soddisfare i diritti rivendicati, ma una volta che questi spazi-comuni sono istituiti – riconosciuti – questi stessi soggetti conservano un ruolo attivo; non sono meri fruitori di servizi, come avviene nel caso dei beni pubblici, ma piuttosto sono la condizione stessa per cui un determinato spazio o bene esiste» (Capone, 2020).
Nel recupero di una dimensione più armoniosa dei diritti e degli spazi, anche per i sentieri si sviluppa una nuova sensibilità: non sono più solo strumenti per raggiungere un luogo, ma acquistano anche – se non prevalentemente – la dignità di memoria collettiva e culturale, diventano simbolo di eventi storici e di comunità vissuta e vivente [7].
Lo strumento della consensualità
Questa nuova prospettiva consente di evidenziare quello che è stato il punto di partenza di questa ricerca: la consensualità nella creazione di uno spazio comune.
Perché, se è vero che sono i diritti e i soggetti che ne reclamano l’esercizio a creare i beni e gli spazi, da parte della Pubblica Amministrazione occorre un’adesione e un atteggiamento culturale coerente.
Occorre quindi, nella Pubblica Amministrazione, una forte competenza tecnica e una struttura idonea alla ricerca dei dati reali in modo da garantire indipendenza di valutazione; una capacità di programmazione e gli strumenti anche economici per attuarla e, contemporaneamente, un alto grado di discrezionalità, con la possibilità di un rapido adattamento delle decisioni al mutare delle situazioni; la trasparenza delle scelte e il coinvolgimento della collettività (Olivi, 2014).
In realtà, l’apparato pubblico statale ha nel tempo modificato il proprio atteggiamento di fronte ai problemi di gestione dei beni pubblici e di quelli comuni.
Dapprima ha cercato di acquisire competenze con processi di statalizzazione non sempre fruttuosi [8]; poi ha inaugurato una fase piuttosto lunga di privatizzazione dei beni pubblici facenti parte sia del patrimonio disponibile dello Stato che di quello indisponibile; successivamente – soprattutto a livello locale – ha favorito l’iniziativa autonoma della collettività con bandi e collaborazioni aventi quale specifico oggetto i beni comuni [9].
È con l’ultima fase che la cittadinanza, che quindi si definirà “attiva”, ha manifestato la volontà di assumere un ruolo diverso e qualificato nei confronti della Pubblica Amministrazione, mediante iniziative di sensibilizzazione e coinvolgimento “dal basso” [10] degli enti pubblici [11].
Tutto questo oggi ha portato a un ulteriore avanzamento delle dinamiche nei rapporti pubblico-privato: il Codice del Terzo Settore (D. Lgs. 117/2017) ha introdotto due nuovi strumenti (co-programmazione e co-progettazione), la cui adozione combinata va ancor più, a mio avviso, nella direzione della consensualità.
La co-programmazione è l’attività svolta dall’ente pubblico quando ha necessità di conoscere e individuare i bisogni da soddisfare e gli interventi necessari per soddisfarli, nonché le modalità di realizzazione e le risorse disponibili.
La co-progettazione è l’attività svolta dall’ente pubblico per definire e realizzare progetti di servizio e di intervento specifici, che soddisfano i bisogni definiti secondo la procedura di co-programmazione.
Più in particolare, co-programmazione e co-progettazione sono procedure amministrative a evidenza pubblica che si articolano in fasi e che mirano, la prima, all’elaborazione con gli enti del Terzo Settore interessati di un documento di sintesi condiviso e, la seconda, alla sottoscrizione di una convenzione tra amministrazione procedente ed enti del Terzo Settore, singoli o associati, o al loro accreditamento per attività volte a soddisfare i bisogni individuati nella precedente fase.
Il meccanismo della consensualità è qui massimamente perseguito, anche perché agli enti del Terzo Settore è attribuito potere di iniziativa: essi possono quindi stimolare la Pubblica Amministrazione nell’attivazione di processi partecipati di programmazione e, sulla base dei bisogni da soddisfare così individuati, proporre, da soli o in rete, un progetto specifico, oppure sollecitare nuovamente l’apertura di procedimenti di progettazione partecipata.
A parte la migliore trasparenza delle decisioni avvenute in modalità condivisa, è l’assunzione da parte degli enti del Terzo Settore di un ruolo riconosciuto di interlocutori qualificati che appare oggi decisivo soprattutto nella logica dei beni comuni, nella soddisfazione di necessità condivise e collettive e nell’esercizio di diritti da parte dell’intera comunità.
Note
[1] Vi sono casi in cui il concetto di sentiero è addirittura svincolato dalla materialità. Per gli aborigeni australiani, le Vie del Sogno sono state percorse dagli antenati totemici che crearono il mondo e con il canto diedero nome e identità a cose e luoghi. Tali vie continuano a possedere la presenza virtuale e immanente dell’eredità primordiale degli antenati e ripercorrerle consente agli aborigeni di entrare in sintonia con gli elementi rituali, di orientarsi e riconoscersi in un territorio sconfinato, altrimenti indecifrabile e potenzialmente ostile (Chatwin, 1988).
[2] Per “utenza debole della strada” lo stesso Codice della Strada indica che essa è composta da «pedoni, disabili in carrozzella, ciclisti e tutti coloro i quali meritino una tutela particolare dai pericoli derivanti dalla circolazione sulle strade» (art. 3, n. 53 bis).
[3] Per l’appunto il “diverso modo di possedere” già citato nel testo (Cattaneo, 1956, Grossi, 2017).
[4] L’aggettivo “Italiano” è introdotto alla fine dell’Ottocento e comunque nello Statuto del 1902.
[5] Nel 1927 fu modificato lo statuto del CONI così da renderlo ente alle dipendenze del Partito nazionale fascista, con controllo sulle società sportive, tale da poter proporre, se del caso, alle federazioni di riferimento soppressioni, fusioni e modifiche statutarie e di organigramma (Landoni, 2015).
[6] L’art. 822 del Codice Civile prevede infatti che «Appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti; i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia; le opere destinate alla difesa nazionale.
Fanno parimenti parte del demanio pubblico, se appartengono allo Stato, le strade, le autostrade e le strade ferrate; gli aerodromi; gli acquedotti; gli immobili riconosciuti d’interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia; le raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche; e infine gli altri beni che sono dalla legge assoggettati al regime proprio del demanio pubblico».
[7] Si veda, ad esempio, la Legge 78/2001 per la tutela del patrimonio storico della Prima Guerra Mondiale.
[8] Con Legge 91/1963, per esempio, lo Stato ha assegnato al “CAI Organizzazione centrale” la natura giuridica di Ente di diritto pubblico non economico a base associativa, assegnandogli specifici scopi tra i quali: realizzare, manutenere e gestire i rifugi alpini e i bivacchi d’alta quota di proprietà del Club alpino italiano e delle singole sezioni, fissandone i criteri e i mezzi; tracciare, realizzare e manutenere i sentieri, le opere alpine e le attrezzature alpinistiche; promuovere ogni iniziativa idonea alla protezione e alla valorizzazione dell’ambiente montano nazionale.
[9] Gli esempi in questo caso sono tanti e qui se ne citeranno solo alcuni e comunque relativi ai sentieri: il percorso partecipativo Acque, sentieri, beni comuni. La comunità di Camaiore scrive il regolamento co-finanziato dall’Autorità regionale per la garanzia e la promozione della partecipazione; il bando Giovani e beni comuni, promosso da Cesvot e finanziato da Regione Toscana – Giovanisì, in accordo con il Dipartimento della gioventù e del servizio civile nazionale, per recuperare e restituire alla collettività beni immobili dismessi, giardini e spazi abbandonati ma anche memorie, tradizioni e saperi andati perduti; il patto di collaborazione tra il Comune di Condove e l’Associazione sportiva dilettantistica Freemount, avente per oggetto la cura e la manutenzione del sentiero 569 Condove-Collombardo.
[10] Utilizzo il termine, nonostante non apprezzi la sottintesa gerarchia che comporta, solo perchè d’uso nel linguaggio comune.
[11] Gli esempi anche in questo caso sono molti. Si prenda a paradigma l’esperienza di Borgofuturo, un’Associazione di promozione sociale che lavora per la rigenerazione del territorio della vallata del Fiastra (Macerata), con le passeggiate di riscoperta degli antichi sentieri contadini durante il festival omonimo, supportate dall’amministrazione locale che ha accettato di partecipare a tavoli di incontro sul tema.
Bibliografia
Bottai G., Corporativismo in «Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti Treccani», I Appendice, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1938
Capone N., Lo spazio e la norma. Per una ecologia politica del diritto, Ombre Corte, Verona 2020
Cattaneo C., Sulla bonificazione del Piano di Magadino a nome della Società promotrice. Primo rapporto, in Bertolino A, a cura di, Scritti economici, Le Monnier, Firenze 1956
Chatwin B., Le vie dei canti, Adelphi, Milano 1988
Giannini M.S., I beni pubblici, Bulzoni Editore, Roma 1963
Grossi P., “Un altro modo di possedere”. L’emersione di forme alternative di proprietà della coscienza giuridica postunitaria, Giuffré, Milano 2017
Landoni E., CONI e federazioni sportive nel dibattito politico-parlamentare del secondo dopoguerra, in «Rivista di Diritto sportivo», n°1 (2015)
Macfarlane R., Le antiche vie, Einaudi, Torino 2013
Olivi M., Beni pubblici tra privatizzazione e riscoperta dei beni comuni, in «Amministrazione In Cammino», 1,1 (2014)
Predieri A., Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio, in «Studi per il XX anniversario dell’Assemblea Costituente», Vol. II, Vallecchi, Firenze 1969
Rodotà S., I beni comuni. L’inaspettata rinascita degli usi collettivi, in Preterossi G. e Capone N., a cura di, La Scuola di Pitagora Editrice, Napoli 2018
Salsa A., introduzione alla Relazione del gruppo di lavoro “Volontariato nel CAI di oggi”, atti del 100° Congresso Nazionale – Firenze 2015
Settis S., “A titolo di sovranità”. Cittadinanza, paesaggio, tutela, in Leone A., Maddalena P., Montanari T., Settis S., Costituzione incompiuta. Arte paesaggio ambiente, Einaudi, Torino 2013
Claudia Balocchini è avvocato specializzato in diritto del Terzo Settore e delle società, diritto d’autore e dei beni culturali. Svolge funzione di consulente in materia di costituzione, modifiche statutarie, governance, tutela dei patrimoni e gestione di diritti, occupandosi anche di fundraising e project management per organizzazioni culturali. Nell’Aprile 2021 ha inaugurato Gettoni per il Terzo Settore, una newsletter e un blog di informazione per il Terzo Settore.