i non-detti del museo
I muri non sanno tacere
Esperienze memoriali nel Museo Sitio de Memoria ESMA a Buenos Aires
di Viviana Gravano

Memorie difficili a “confronto”
Le ricerche teoriche e le pratiche sulle memorie traumatiche sono a un punto di svolta concettuale e teorico, che deriva dalla possibilità di mettere a confronto traumi che l’Europa considera centrali come il nazismo, il fascismo o le dittature dell’Est Europeo, e esperienze più recenti, vissute in altri paesi come ad esempio le dittature in Centro e Sud America, o in Asia. Il confronto tra la lettura delle tracce e le scelte memoriali che sono state fatte, e che si stanno facendo oggi, tra realtà che affrontano traumi della stessa potenza, ma accaduti a distanza di oltre mezzo secolo le une dalle altre e in luoghi diversi, fa sì che alcune esperienze già vissute appaiano a tratti non sufficienti, o addirittura inadeguate, per chi affronta ora, a volte persino in contemporanea agli eventi traumatici stessi, il tema della loro memorizzazione. In altri casi le domande che ci si pone davanti alle conseguenze dei traumi e alla loro possibile rappresentazione come forma di “cura” della comunità che le ha subite sembrano richiedere una rilettura o almeno una revisione, nata proprio dal confronto con le nuove attitudini prese da chi lavora su traumi collettivi più recenti. È chiaro che le pratiche museali, le strategie di memorizzazione e le politiche memoriali, così come sono nate e si sono sviluppate nell’Europa post-seconda guerra mondiale, e poi post-muro di Berlino, sono una sorta di filo rosso per chi affronta oggi traumi più recenti, ma la loro impostazione non può più essere vista come la sola soluzione, o la sola lettura possibile in chiave museografica in particolare.
Una questione che appare essenziale è capire perché ad esempio le esperienze di memorializzazione legate al nazi-fascismo in Europa non siano divenute automaticamente “esempi” per i siti di memoria e i musei nati in Sud America, dopo le dittature degli anni Settanta e Ottanta del Novecento. Non solo perché evidentemente ogni forma dittatoriale, a parte alcuni dati comuni, mostra una sua specificità e sviluppa delle aberrazioni, delle forme di comunicazione e persino delle estetiche diverse da paese a paese, ma anche perché le scelte sul come affrontare il “dopo” dittatura non sono state le stesse, e le une, le più antiche cronologicamente, non hanno segnato sempre e obbligatoriamente una strada per chi è arrivato dopo in una condizione “simile” di post-trauma. Leggendo alcune esperienze in Argentina ci si può rendere conto che anzi queste ultime stanno ora ponendo questioni e segnando possibili percorsi delle politiche memoriali che, a ritroso, potrebbero aiutare a rivedere alcune scelte fatte nei siti di memoria e nei musei dedicati ai traumi inferti all’Europa dal nazi-fascismo.
Questo mio intervento tende quindi a riconsiderare in che modo l’Argentina sta dicendo, o non dicendo, sta mostrando o opacizzando alcuni dati memoriali della sua esperienza traumatica della dittatura, proponendo una ricerca e delle possibili soluzioni che ridiscutono alcuni assunti delle politiche memoriali, e in particolar modo museali, in Europa.
Un dato per me essenziale in questo momento è la necessità di aprire con schiettezza e trasparenza una questione sulla etnocentricità, o se si vuole sull’atteggiamento eurocentrico, che si è manifestato persino in un tema così drammatico come le eredità traumatiche. In Europa si è in qualche modo stabilito che la Shoah, l’esperienza dello sterminio di massa nazista, sia il più importante fenomeno, a livello mondiale, in ambito di traumi collettivi. Ovviamente la questione non è stabilire se lo sia stato o meno, ma capire che tutti i traumi di massa, ciascuno con una propria specifica violenza ed estensione, hanno generato e generano un’esperienza unica, che a sua volta non può che produrre un unico e diverso approccio memoriale. E occorre anche considerare che il genocidio nazista non è stato il primo vero sterminio sistematico di massa nel mondo, ma il primo perpetrato da europei su europei, ed ha quindi assunto un valore comunicativo più esteso e più alto. Non dico questo, ripeto ancora, con l’intento di sminuire l’atroce portata devastante che ha avuto la Shoah, ma per aprire una riflessione sul fatto che questa sorta di “primato negativo” degli eccidi nazi-fascisti ha anche generato una tendenza a considerare tutte le ricerche e tutte le pratiche in materia di memorializzazione riferita ai traumi come derivanti dalle scelte fatte in relazione al trauma fondamentale del XX secolo in territorio europeo.
Aimé Césaire, nel Discours sur le colonialisme del 1950, scriveva: “Ci si stupisce, ci si indigna. Si dice: «Come è curioso! Mah! È il nazismo, passerà!». E si aspetta, si spera; si nasconde a se stessi la verità che è una barbarie, la barbarie suprema, quella che corona, quella che riassume la quotidianità delle barbarle; che è il nazismo, si capisce, ma che prima di esserne stato vittima se ne è stato complice. Che lo si è sopportato — quel nazismo — prima di subirlo, lo si è assolto, lo si è svisto e legittimato perché finora era stato applicato ai soli popoli non europei; che quel nazismo lo si è coltivato, e se ne è responsabili, e che esso assorda, perfora, pervade goccia a goccia, prima di inglobare nelle sue acque rosse di tutti i crimini della civiltà occidentale e cristiana. Sì, vale la pena di studiare, clinicamente, nei dettagli, le tattiche di Hitler e dell’hitlerismo e di svelare al molto distinto, al molto umanista, cristiano borghese del XX secolo, che custodisce in sé un Hitler nascosto, che Hitler abita in lui ed è il suo demone, che se lo rifiuta, è per mancanza di logica e che in fondo, ciò che non perdona ad Hitler, non è il crimine come tale, il crimine contro l’uomo; non è l’umiliazione dell’uomo in sé, ma il crimine contro l’uomo bianco, il fatto di aver applicato all’Europa metodi coloniali finora riservati agli arabi di Algeria, ai coolies dell’India e ai negri d’Africa” (Césaire, 1950).
Questa lettura di Césaire non serve a stabilire un primato, ma a dire che la totale rimozione del passato coloniale europeo come un trauma collettivo, per la stessa Europa e non solo per i colonizzati, ha fatto si che la stessa politica di memorializzazione non abbia tenuto in nessuna considerazione i pregressi, le storie già vissute, che sono state cancellate, rimosse, da qualsiasi sito memoriale o da qualsiasi ambito museale, creando una sorta di punto zero, di inizio “mitico” dell’eredità traumatica europea dal nazismo in poi. Questo ha determinato una mancanza di profondità storica, un silenziamento colpevole e anche dannoso, sulle radici del razzismo e della violenza cieca che ne è conseguita, costruendo modelli memoriali che hanno fatto partire la storia del trauma dagli anni venti/trenta del Novecento.

Il confronto con altre realtà traumatiche recenti, spesso figlie proprio di quella visione coloniale, occidentale e etnocentrica, dominata da un “white power” molto radicato ormai nel mondo, non da ultimo appunto nelle dittature di centro e Sud America, ha posto e sta ponendo sul piano la relazione opaca che l’Europa ha messo in campo con il suo passato coloniale. Un passato che va inteso come grande fucina, come luogo di sperimentazione non solo della feroce violenza che sarebbe poi stata replicata all’interno dello stesso continente europeo, ma anche delle pratiche di rimozione e occultamento, di negazionismo e revisionismo storico, che già nell’immediato secondo dopoguerra hanno trovato forza in Europa, essendosi già formate e sperimentate nella rimozione della memoria coloniale. Basti pensare, per fare un esempio molto pratico, che i generali argentini che realizzarono la cosiddetta guera sucia (guerra sporca), cioè lo sterminio di migliaia di oppositori, furono “istruiti” dai nazisti espatriati nel paese, ma anche, specie per la pratica della “sparizione”, da militari francesi reduci dalle guerre coloniale in Algeria.
Dunque rimettere in connessione il passato coloniale europeo non funziona come risarcimento per i colonizzati, ma è divenuto un dato essenziale per poter risalire alle radici del nazismo e del fascismo (in ogni nazione europea), e serve da cartina tornasole per combattere le forme di obsolescenza e opacizzazione che, come allora e ancora oggi di fatto, la cultura capitalista occidentale ha applicato al colonialismo, e che da tempo, e di nuovo ancora oggi, applica al nazi-fascismo.
L’esperienza dell’Argentina è quella di una dittatura feroce, iniziata con un colpo di stato militare capeggiato dal generale Jorge Rafael Videla il 24 marzo 1976, che durerà fino al giugno 1983. Durante la dittatura vengono costantemente violati i diritti umani, vengono detenuti/e, torturati/e e poi fatti/e sparire (i/le noti/e “desaparecidos/as”) oltre 30.000 oppositori e oppositrici al regime o semplici militanti in movimenti politici, studenteschi e sindacali. I corpi delle vittime della dittatura vengono restituiti dal fiume Rio della Plata, ancora per anni dopo il ritorno della democrazia, per la pratica, detta dei “voli della morte”: cioè persone ancora vive venivano sedate e poi portate in volo sopra al fiume per essere poi lanciate nel vuoto e finire cadaveri in acqua.
Un dato essenziale distingue in maniera chiara il processo di memorializzazione, e quindi le pratiche museali, in Argentina. Alejandra Naftal, direttrice del Museo y Sitio de memoria della Ex-ESMA a Buenos Aires, in una conversazione privata mi ha detto: “Il giorno che le madres e le abuleas de Plaza de Mayo si sono messe il fazzoletto verde sulla testa, quel giorno è iniziato il processo di memoria in Argentina”. Questa affermazione ha segnato la mia ricerca nel periodo che ho passato a Buenos Aires, nel marzo di quest’anno, studiando i siti di memoria e i musei dedicati alle vittime della dittatura.
Un movimento dal basso, molto presto organizzato, visibile e con una propria “estetica” e comunicazione, ha agito perché tutto quello che la dittatura stava facendo fosse messo in vista, fosse evidente e rappresentabile pubblicamente. Il movimento delle madres e delle abuelas di Plaza de Mayo è nato poco dopo l’inizio della dittatura, e le prima sparizioni degli/delle oppositori e oppositrici politiche. Le donne, madri e nonne delle vittime, iniziarono a fare una sorta di presidio costante nella centralissima Plaza de Mayo, centro nevralgico della città, e anche luogo simbolico del potere di stato. Indossavano sempre sulla testa un piccolo fazzoletto bianco, un pañuelo che altro non era che il vecchio pannetto con cui si fasciavano i bambini, a ricordare a tutt* che erano lì per i loro figli e figlie, mostrando sempre le foto dei desaparecidos e delle desaparecidas. Il movimento costruì delle ritualità collettive importanti, disegnò una sorta di memoria in divenire, di monumento vivente, un memoriale vivo. Fu una forma di protesta molto evidente e non violenta, una spina nel fianco della dittatura, perché prese ben presto prese una rilevanza a livello mondiale. Io personalmente, che allora militavo nel Partito Comunista italiano, ricordo perfettamente le nostre marce per le madri e le nonne argentine, e ricordo la presenza di questi fazzoletti in testa che le rappresentavano.
Plaza de Mayo divenne uno spazio di memorializzazione attiva, creata dalle stesse vittime, dai loro parenti e ben presto dai/dalle loro figli/e, ancor prima che la democrazia permettesse di svelare al mondo cosa era accaduto in Argentina, attraverso un processo molto lungo e doloroso che solo dal governo, prima di Nestor e poi di Cristina Kirchner, ha davvero prodotto sentenze e condanne. Dunque la partecipazione al processo di “verità e giustizia” come si dice in Argentina, e poi la necessità di memorizzare, trasmettere alle nuove generazioni e rendere definitivamente pubblico il trauma collettivo subito davanti al mondo intero, non è un processo a posteriori, non è un processo istituzionale di stato, o almeno che parte dallo stato, ma è un processo dal basso, che si attiva per spingere le istituzioni ad agire, e che ha una sua coscienza, ritualità e -insisto su questo- una sua visione estetica e comunicativa che appare come pressoché unica.
Nel momento in cui si decide di iniziare una politica memoriale, che tracci anche una mappa fisica dei luoghi di detenzione, tortura e sparizione delle vittime, i primi interlocutori sono le vittime e i loro parenti, non come fruitori ma come edificatori, costruttori e ricercatori. Diversamente dalle esperienze europee, dove le vittime sono di fatto intese certo come attori e attrici, ma fondamentalmente nel ruolo di “testimoni” a posteriori, in Argentina le madri e le nonne, e poi figli e figlie, sono coloro che in prima persona come comitati, gruppi, collettivi partecipano in maniera diretta non per dire cose mai dette, ma per continuare a dire quello che avevano gridato in Plaza de Mayo per tutto il tempo della dittatura. La condizione di partenza è molto simile: così come la Shoah e tutti i genocidi di civili si sono perpetuati nel totale silenzio, coperti dall’omertà anche dei possibili testimoni al tempo dei fatti, così in Argentina i centri clandestini di detenzione, tortura e sparizione, sono segreti e i militari non ammetteranno mai (e a tutt’oggi mantengono la consegna del silenzio) la loro esistenza. Ma la differenza radicale è nel fatto che, mentre durante il nazismo la popolazione civile tace, non denuncia, non racconta e non chiede, in Argentina un potente movimento popolare dice, chiede, sta in piazza e disegna una propria iconografia della dittatura e delle sue vittime, che sarà resa la base delle recenti politiche di verità e giustizia, e memoriali. In altre parole costruire un museo in un sito di memoria in Argentina non ha a che vedere con l’idea di raccontare un passato seppure recente, ma si confronta con una sorta di presente continuo che ha attraversato e attraversa ancora il paese dalla dittatura all’oggi.

Museo Sitio de Memoria ESMA, Buenos Aires, foto di Viviana Gravano, 2019.

Il caso del Museo e Sitio de Memoria della Ex-ESMA a Buenos Aires
L’Argentina ha avuto nel tempo della dittatura oltre 600 luoghi di detenzione e tortura clandestini, fatto che ha determinato la definizione dell’azione del governo come “terrorismo di stato”. In molti di questi luoghi, dopo il processo di giustizia sostenuto dai governi Kirchner che ha di fatto reso pubbliche le pratiche eversive dello stato contro i/le suoi/sue oppositori e oppositrici, è iniziato da alcuni anni un lavoro sulla memoria che ha prodotto, o sta producendo, archivi, siti di memoria, musei, istallazioni, centri culturali, e siti archeologici.
La caratteristica essenziale da porre in primo piano è che ognuno di questi luoghi ha iniziato questi processi di messa in luce dei crimini che ha ospitato e della loro memoria per il futuro sempre partendo da una negoziazione chiara e costante con chi è sopravvissuto dopo un periodo di detenzione in quei luoghi, con i/le parenti delle vittime che qui sono stati/e uccisi/e. Questo dato è tutt’altro che collaterale per capire cosa questi siti possano o non possano dire oggi, cosa si sia scelto che mostrino e cosa no. L’approccio prima di tutto concettuale, e di conseguenza allestitivo e comunicativo, non dipende da una politica di stato centralizzata, non è il frutto di un processo ministeriale imposto dall’alto e non risponde a logiche accademiche, ma arriva dalla contrattazione e dalla negoziazione costante con chi, fin dal primo giorno, ha reso possibile che quel “terrorismo di stato” non fosse cancellato ma fosse, al contrario, rappresentato.
La ESMA, Escuela de Mecánica de la Armada, era una delle caserme più importanti del sistema militare argentino. Collocata a Buenos Aires, ospitava ufficialmente una scuola militare, alloggiamenti e altri edifici della marina militare. Durante tutti gli anni della dittatura, subito dal 1976 fino al 1983, funzionò come centro clandestino di tortura di stato. Nel 2004 Nestor Kirchner riesce a fare un accordo con le gerarchie militari per restituire lo spazio alla comunità civile e trasformarlo in Espacio para la Memoria y para la Promoción y Defensa de los Derechos Humanos –Ex Esma, dove trovano la loro sede Museo Sitio de Memoria ESMA, l’Archivo Nacional de la Memoria, la Casa por la Identidad, il Centro Cultural de la Memoria Haroldo Conti, lEspacio Cultural Nuestros Hijos (ECuNHi) e il Museo Malvinas.
Paradossalmente l’ultimo edificio ad essere liberato dalla marina, nel 2007, è il Casino de Oficiales, cioè il luogo di residenza delle alte gerarchie della marina, ma anche il luogo specifico dove si eseguivano le torture sui prigionieri, dove alcuni prigionieri erano ridotti a lavoratori schiavi, dove venivano accumulati i beni trafugati alle vittime e dove si perpetrava una pratica di stupro quotidiano, ad opera dei militari stessi, sulle donne prigioniere. Il Museo Sitio de Memoria Ex-ESMA, diretto dalla museologa e attivista Alejandra Naftal, con un giovane e qualificato gruppo di esperti che arrivano da diverse discipline, sorge in questa palazzina. Oggi l’edificio è prova giudiziaria, cioè è considerato come un luogo inalterabile in quanto prova delle attività criminose di membri delle forze armate e del governo nei processi ora in corso contro di loro. Questo dato già pone delle questioni importanti sulla inviolabilità legale di un luogo, e nello stesso tempo sulla necessità di aprirlo al pubblico perché possa essere un sito simbolico di memoria e conoscenza del trauma collettivo.
Nel 2007, quando l’edificio viene recuperato dai militari, viene aperto al pubblico, con visite guidate per persone comuni, realizzate da vittime, sopravvissuti/e e associazioni di parenti, come madres e abuelas. L’unica forma di comunicazione e di racconto in quel momento è la parola, il luogo non conserva nessuna traccia evidente delle atrocità che ha ospitato, appare come uno squallido edificio vuoto riempito solo dalle parole delle guide che lo attraversano, e che raccontano, spesso in prima persona, cosa accadeva là dentro. I corpi che attraversano come visitatori camminano nelle stesse sale dove per giorni, mesi e persino per anni sono stati/e tenuti rinchiusi prigionieri/e dai 16 ai 35 anni per lo più, sempre totalmente nudi/e, incappucciati/e, e torturati/e costantemente. Come trasformare quel luogo in un sito di memoria e in un museo? Che strategia adottare con quelle persone che lo attraverseranno nel tempo, un tempo che lentamente ma inesorabilmente si andrà allontanando da quei fatti? Come conciliare la necessità di aprire ad un pubblico il più ampio possibile quelle sale, che devono essere viste proprio per confutare il possibile negazionismo costruito ad arte dai perpetratori grazie al loro silenzio anche dopo la fine della dittatura, grazie alla clandestinità dei centri di tortura e grazie alla sparizione sistematica dei corpi delle vittime? Gli edifici non sono solo luoghi, ma diventano gli unici testimoni parlanti, gli unici organismi in grado di restituire un racconto di quello che hanno dovuto ospitare. Non si tratta quindi di costruire un monumento, non si tratta di edificare un nuovo edificio museale, ma di rendere fruibile uno spazio che non contiene nulla, e che per di più non può essere toccato in nessun modo nella sua struttura.

I ricercatori forensi che lavorano per le cause nella ex-ESMA sono potuti arrivare a costruire prove inconfutabili della presenza di un centro di detenzione e tortura in quell’edificio attraverso i racconti “sensoriali” dei e delle sopravvissuti/e. Con delle tecniche innovative, i frammenti di ricordi delle vittime – un suono proveniente dall’esterno, il colore intravisto delle mattonelle dei bagni, il materiale del pavimento sotto i piedi nudi, un dettaglio di un colore di un muro intravisto da sotto il cappuccio, tutti elementi citati da più prigionieri/e -, hanno permesso di ricostruire virtualmente degli spazi che coincidono con i luoghi sotto accusa. In sostanza i luoghi divengono i contenitori riconoscibili che permettono di dire che chi li abitava e li governava lì compiva i suoi atti di violazione. Dunque il Casino de Oficiales parla contro gli “oficiales” che ospitavano e diviene testimone degli orrori che perpetravano. Questa singolare condizione dello spazio fa capire l’estrema difficoltà nell’immaginare di costruire qualsiasi cosa dentro o intorno a questo, che potesse raccontare a un pubblico comune cosa vi accadeva.
Durante la mia seconda visita al Museo Sitio de Memoria Ex-Esma, ho fatto un giro da sola, senza nessuna delle qualificate guide che accompagnano chi vuole visitare il museo. Arrivata nella capucha, che è la sala più in alto, dove si veniva torturati/e, ma anche dove si stava a terra seduti/e ascoltando le torture altrui, ci sono diverse finestre. Naturalmente i/le prigionieri/e non potevano vederle essendo appunto a capo e volto coperti, ma potevano ascoltare i rumori esterni: una scuola forse, una partita di pallone poco distante nello stadio, certi tipi di uccelli e così via. Quando sono entrata ero completamente sola, e dopo un po’ mi sono istintivamente seduta a terra. La sala non conserva nulla se non due piccolissimi graffiti, fatti da due prigionieri su una parete. Dopo poco che ero lì ho iniziato ad ascoltare, e mi sono resa conto che i suoni dall’esterno erano come leggermente amplificati, come se potessi sentirli bene e nitidi. Ho pensato a una mia suggestione o forse che qualcuno li stesse amplificando per me, come visitatrice, per farmi capire che per poter sopravvivere a quel momento bisognava acuire i sensi, provare a capire dove ci si trovava aumentando la percezione acustica, forse anche per non sentire i lamenti del dolore degli/delle altri/e torturati/e. In realtà fuori della sala sono stati istallati 4 microfoni che semplicemente catturano i suoni attuali, cioè quelli che produce l’ambiente intorno alla ESMA oggi, che vengono restituiti all’interno leggermente amplificati. Questa semplice e invisibile istallazione non altera in nessun modo l’ambiente e che non spinge alla banale immedesimazione, di per sé assolutamente improponibile in un luogo di tortura, ma racconta fisicamente una delle strategie di sopravvivenza di chi in quel luogo è stato davvero recluso/a.
Il Museo viene progettato dal 2012 e sarà poi aperto nel maggio 2014 sotto la direzione di Alejandra Naftal, con la co-curatela di Hernán Bisman, e dei due architetti Carlos Campo e Roberto Busnelli, a cui si unirà in seguito la giornalista Alejandra Dandan, e con una équipe interdisciplinare e in costante e fondamentale dialogo con tutte le associazioni che hanno lottato contro la dittatura. I principi da cui si parte sono chiari: non toccare l’edificio, in quanto prova giudiziaria; non ricostruire nulla e non usare oggetti o possibili resti del periodo in cui l’edificio fu centro di tortura; usare come principio generale il motto “creare un luogo dove il comodo si senta scomodo e lo scomodo si senta comodo”. Il processo di progettazione prevede una partecipazione diretta delle vittime e dei parenti, con oltre 200 incontri, la diffusione di una serie di domande ai diretti e alle dirette interessati/e in maniera da ricevere feedback su un possibile progetto, ma anche chiedendo idee e proposte. Come dice Alejandra Naftal, ciascun partecipante a quelle riunioni aveva una sua idea di come trasformare o non trasformare affatto quel luogo. Dunque la progettazione museale non parte solo dal fruitore generale, ma prende le mosse da chi è in diritto di “possedere” metaforicamente quel luogo, che è stato il luogo della sua sofferenza.
La prima soluzione essenziale è costruire un sistema museografico di allestimento che permetta diversi livelli di fruizione contemporanei, che parli sia alla percezione immediata, emotiva, sia alla voglia di sapere e conoscere dati. Gran parte dell’edificio ospita una serie di pannelli in vetro trasparente su cui sono inseriti testi, alcune foto che spiegano lo spazio in cui ci si trova e le pratiche di tortura, incarcerazione, omicidio e persino le azioni burocratiche che vi venivano svolte. I pannelli hanno una base di cemento che Carlos Campo ha fatto realizzare appositamente, con un particolare tipo di cemento, da una fabbrica di Buenos Aires. Questo dettaglio tecnico conserva una traccia concettuale essenziale. Per il museo sono stati stanziati soldi pubblici, e Carlos Campo in una conferenza a Bologna alla Scuola di Alti Studi Umanistici nell’ambito del progetto europeo SPEME, ha spiegato che il suo chiedere una specifica cosa, far lavorare diversi operai per fare un particolare tipo di cemento e speciali supporti solo per quel museo, diviene una sorta di impegno collettivo, un investimento che l’intera comunità decide di fare per una cosa che riguarda tutti/e. I pannelli trasparenti incastrati nei basamenti di cemento permettono a tratti di vedere le mura originali dietro, e al contempo le proteggono dall’essere toccate. Quelle sottili membrane trasparenti fondono in una stessa immagine i resti reali di quel luogo, che parlano una loro lingua, e le notizie, i testi, le foto che dicono esplicitamente. Le voci sommesse delle mura dell’ESMA entrano in risonanza con le voci dei racconti dei pannelli. Un oggetto trasparente, che racconta su una superficie attraversabile con lo sguardo un luogo opaco, tenuto nascosto, clandestino. Quelle mura che avevano solo bisbigliato ai sensi delle vittime dettagli che potevano servire a dire loro dove erano, si amplificano in una voce netta e chiara nei testi che sono loro sovrapposti. Mi sono resa conto che, mentre leggevo. ogni tanto una crepa, uno sbaffo di colore, un buco nel muro mi facevano incantare, mi portavano nelle profondità di quelle stanze senza però dirmi cosa vedere, cosa immaginare, lasciandomi in uno spazio di scomodità che non mi dava pace. I pannelli sono tutti rimovibili e sostituibili: questo non per dire che poi forse ci potremo ripensare, che forse la verità non era proprio quella, che le vittime e i perpetratori potrebbero scambiarsi di posto (come sta accadendo nel revisionismo storico europeo, e italiano in particolare), ma solo per dire che tutto può essere ampliato e che nessuno, nemmeno il “museo”, ha preso possesso di quel luogo, ma lo ha solo sottolineato con dolcezza, temporaneamente.
Entrando nell’edificio del museo si è accolti da una facciata completamente coperta di volti di desaparecidos e desaparecidas detenuti all’ESMA, stampati su pannelli trasparenti in bianco e nero. Le immagini mostrano un “popolo” di vittime, per lo più giovani, che guarda il visitatore e la visitatrice ancora prima che possa entrare nel museo. La direttrice Naftal racconta che i ritratti fotografici in un primo momento dovevano essere posti all’interno dell’edificio, ma una delle madres disse semplicemente che suo figlio, che era stato detenuto torturato e assassinato là dentro, non voleva che restasse per sempre in quel luogo terribile, anche solo con l’immagine del suo volto. Un episodio che però serve a dire cosa il Museo della ex-ESMA può dire e cosa no, cosa può rendere visibile e in luce, e cosa deve rispettare che resti fuori, che venga mantenuto opaco. I volti delle figure all’esterno, essendo trasparenti, si fondono a tratti, guardando da certe prospettive, con il magnifico parco che paradossalmente contornava e contorna ancora quei luoghi di estrema sofferenza. In altri momenti i volti si fondono tra loro, si sovrappongono, quasi si confondono a raccontare quell’intero piccolo popolo, tutto più o meno della stessa età, con molte similitudini nelle pettinature, le barbe, le forme degli occhiali, che il terrorismo di stato ha deciso di cancellare. Dunque la scelta di farci guardare da quegli occhi che sono stati spenti in quel luogo, come primo atto prima di poter entrare nel museo, ci chiama a un senso di responsabilità, chiama noi visitatori, uno per uno, per nome, perché ci dice che chi è sparito lì non sono 30.000 persone ma sono: Juan, Dominga, Rachel etc. etc. Una delle tecniche messe in atto dal revisionismo storico è proprio la massificazione dei dati, la riduzione dei fatti a numeri a statistiche, è la cancellazione delle storie singole, la non-riconoscibilità delle singole vittime, che fa sparire qualsiasi forma di possibile empatia. Entrando all’ESMA i capelli di quei ragazzi che si fondono con una chioma di un albero, o le labbra di due ritratti che sembrano baciarsi a distanza, ci richiamano a una vita che avevano e non hanno più. Nessuna retorica, ma di nuovo una leggera ma incisiva sottolineatura, che si appoggia appena appena a quell’edificio mostrando quello che si è provato a cancellare.
Il museo ha due sale multimediali: una sala iniziale dove si spiega come l’Argentina sia arrivata alla dittatura civico-militare di Videla, parlando anche dei precedenti colpi di stato militare, così come del peronismo e dell’inizio del processo di ritorno alla democrazia; la sala finale dove vengono raccontati, in tempo reale, sempre aggiornati, i risultati delle incriminazioni e delle condanne o delle prescrizioni dei reati dei militari al potere. Questa seconda sala ha proiettati i ritratti virtuali incorniciati dei perpetratori, esattamente come i classici ritratti ufficiali appesi nei muri delle sale di governo, che vengono posti qui però a terra, mentre viene illuminato un chiodo, sempre virtuale, in alto. Questa immagine fa riferimento al gesto simbolico che compì Nestor Kirchner quando chiese ai capi militari di togliere dalle pareti i ritratti dei gerarchi del periodo della dittatura. Quello spodestamento virtuale racconta di un gesto di “governo” della democrazia noto a tutto il popolo. Nella parete di fondo vengono riportate, come con una vecchia macchina da scrivere, le accuse, e poi le relative sentenze. Una sorta di tribunale del popolo virtuale dal vivo, dove ogni visitatore può vedere la giustizia in azione. Questa sala compie un processo di “riconciliazione”, che nulla ha a che vedere con il perdono, ma che al contrario dona un senso diverso anche a quel luogo che è stato un centro clandestino. Lo sforzo di ricostruzione, di testimonianza, di memoria, dà risultati concreti che non sono solo di per sé le condanne, ma prima di tutto l’ammissione che tutto quanto detto è accaduto davvero.
Nella parte alta dell’edificio, nel sottotetto vi sono due aree fondamentali per capire le scelte allestitive del museo. In una parte, detta pecera, si ricostruisce il lavoro schiavo imposto ai prigionieri e alle prigioniere, che venivano costrette a produrre materiali propagandistici a favore della dittatura, e di fatto contro loro stessi e loro stesse, con l’intento non solo di umiliarli e fiaccare la loro resistenza, ma anche per poter parlare di un presunto processo di “rieducazione” che i militari, in particolare il generale Massera che sovrintendeva alla comunicazione all’ESMA, “proponevano” alle vittime. La sale è divisa in diversi ambienti, sempre molto temporanei, chiusi ancora da vetri che riportano giornali, articoli, storie distorte dalla dittatura, storie di prigionieri intellettuali schiavi e un rumore di fondo di macchina da scrivere, di lavoro, accompagna questa parte della visita. In molti punti del museo si piomba in una paradossale “normalità” quotidiana, in una sorta di schizofrenica costruzione di un ambiente di lavoro, proprio per far immaginare come in quel luogo per noi inimmaginabile molte persone hanno passato anni, nel tentativo di sopravvivergli accettando, almeno in parte e certo non volontariamente, di far parte di una macchina che aveva trasformato quel luogo di orrore in un luogo di “produzione”, esattamente come nei Lager nazisti. Una realtà nascosta, emersa solo dopo la caduta della dittatura, che il museo mette in luce, ricostruendo quegli ambienti in cui veniva costruita sistematicamente l’opacizzazione del sistema di oppressione. In questa parte di museo di nuovo le vittime non sono più i 30.000, ma sono tutti gli scrittori e le scrittrici, gli studenti e le studentesse, i professori e le professoresse, costretti/e a subire torture e stupri e poi a sedersi a un tavolo per scrivere che non era vero nulla, e per giustificare le proprie stesse sparizioni.
Poco oltre, nello stesso spazio, delle proiezioni video mostrano cataste di oggetti di tutti i generi: libri, vestiti, borse, giocattoli, oggetti quotidiani. Sono il bottino dei militari, che al momento del rapimento delle vittime trafugavano loro di tutto, anche ricattando in un secondo momento le loro famiglie chiedendo di cedere loro beni e proprietà, in cambio del rilascio dei/delle loro cari/e, che ovviamente poi non avveniva. In un secondo momento, dopo la caduta della dittatura, anche il riconoscimento di propri oggetti personali nei depositi dei militari, è servito come prova giudiziaria. Sia Carlos Campo che Alejandra Naftal ci hanno raccontato che in origine l’istallazione doveva essere fatta con dei gonfiabili che avrebbero come occupato lo spazio, su cui andavano proiettati gli stessi oggetti che ci sono ora, e attraverso cui i visitatori avrebbero dovuto passare come stretti/e tra queste pareti esorbitanti colme di oggetti. Ma le varie organizzazioni non approvarono al tempo l’istallazione, perché troppo invasiva, perché copriva lo spazio, diventava come un corpo estraneo. E di nuovo la negoziazione museografica ha lasciato traccia delle cose senza però imporre una nuova spazialità.
In tutta questa parte dell’ultimo piano corre a terra una passerella di legno, stretta, che costringe gli spettatori a camminare quasi in fila indiana e che fa spostare a fatica quando si incontra un’altra persona. Questa sottile riga lignea a terra è un’altra istallazione del museo, un’altra lieve sottolineatura. Ricorda l’attimo fugace e emozionante in cui i/le prigionieri/e, magari andando dal dormitorio alla stanza di tortura, capitava che si incrociassero e si sfiorassero, o magari riuscissero a scambiare una parola. Quel legno ricorda appena appena, con lieve emozione, quel calore momentaneo. Ma ricorda anche la “scomodità” di cui ho parlato poco fa, principio del museo. Quel senso di precarietà e di fastidio nel dover camminare su una pedana stretta, angusta. La difficoltà di stare in equilibrio in un luogo dove è “proibito” andare fuori percorso. Ma la cosa più importante è che in quelle sale non è vietato scendere dalla pedana, nessun cartello lo chiede, nessuno lo dice, eppure i fruitori non scendono, la seguono e non violano quel pavimento che è stato calpestato da piedi nudi di vittime. In maniera più che virtuosa la pedana diviene uno spazio simbolico, empatico, e allo stesso tempo protegge almeno in parte il pavimento originale. Carlos Campo nel suo intervento al convegno a Bologna parla qui della volontà di creare un’esperienza di percezione aptica per il visitatore. Provare a costruire un meccanismo visuale, e di attraversamento, che non tocca i luoghi con il tatto ma con lo sguardo, che sente il caldo della materia e lo trasmette al corpo solo attraverso la sua visione.
Una piccolissima sala, sempre in questa parte dell’edificio ha a terra una scritta che recita: “como era posible que in este lugar nacieran chicos?” (come è stato possibile che in questo luogo siano nati dei bambini?). Il fenomeno delle nascite di bambini/e durante la prigionia è ormai più che comprovato e riconosciuto. Bambini e le bambine nate da ragazze catturate già in stato interessante, o rimaste incinte a causa delle violenze sessuali continue subite nella prigione. Figli e figlie date in adozione a militari, o famiglie vicine ai militari, che per decenni hanno mosso madres e abuelas alla ricerca dei propri nipoti “regalati” come pacchi subito dopo la loro nascita. La stanza racconta uno degli eventi più devastanti messi in atto dalla ferocia della dittatura di Videla, e di nuovo, con quella semplice scritta, sposta la questione dall’atto violento, irracontabile, alla capacità di vita e di sopravvivenza dei prigionieri. I pannelli intorno riportano testimonianze di sopravvissute delle condizioni delle donne incinte, ugualmente stuprate e torturate, e delle terribili condizioni del parto. La scritta non si chiede dove sono finiti i bambini e le bambine o a chi sono stati dati/e – domanda che poi si pone ancora invece nei pannelli esplicativi – ma ci dice che in quel luogo di orrore e morte delle donne hanno persino saputo partorire. E quella minuscola sala è dedicata alla loro forza e a quegli hijos che ancora oggi combattono per le loro madri morte là dentro dopo averli/e partoriti/e.

In questo museo non si parla solo di chi ha saputo e voluto compiere il peggiore dei mali, ma si racconta di chi ha saputo resistere, a volte purtroppo morendo a volte invece sopravvivendogli. E questo spostamento del protagonismo dal bene al male, dai carnefici alle vittime, ma anche e prima di tutto dei testimoni vittoriosi/e, e oggi voci parlanti, è un aspetto essenziale di questa visione museografica.
Il 24 marzo 2019 ho partecipato alla grande marcia che ricorda tutti i desaparecidos e le desaparecidas della dittatura. La cosa che più mi ha colpito è stato il senso di un marciare “felice”, di unione, di dolore certo e di memoria, ma anche di presente da costruire. Il museo all’ESMA non racconta solo quello che è accaduto, ma parla di quello che accade, e che ora si deve dire e non si deve mai nascondere, e di quello che ancora si dirà senza mai tacere.
Salendo al piano mediano del museo si incontrano le sale dove abitavano i militari, spesso con le loro famiglie. Si vedono ancora resti delle carte da parati, decorazioni murarie, la cucina di un appartamento, che raccontano una vita normale, svolta subito sotto le sale della tortura dove quegli stessi “impiegati” dello stato andavano a seviziare e stuprare prigionieri e prigioniere. Un cartello all’ingresso, nel corridoio solo in parte aperto, recita: “los detenidos desaparecidos no tenìan aceso a estos espacios pero pasaban costantemente por la escalera central engrillados e encapuchados, mientres eran conducidos a capucha o al sòtano” (i detenuti desaparecidos non avevano accesso a questi spazi però passavano costantemente per la scala centrale ammanettati e incappucciati, mentre venivano condotti alla capucha e al sotterraneo, (due luoghi di tortura ndr). In una delle sale degli ex-alloggi ufficiali, un video mostra la testimonianza di una ragazza, amica della figlia di uno dei generali residenti nella casa, che racconta che un giorno essendo stata invitata aveva visto dalla finestra una ragazza nuda ammanettata e incappucciata portata via su una macchina. Gli alloggi sono luoghi nascosti, il museo li mostra solo in parte, e pone pannelli che spiegano la vita agiata dei torturatori e delle loro famiglie, a volte totalmente ignare.
Durante il mio soggiorno a Buenos Aires ho avuto il grandissimo piacere di condurre un breve workshop teorico pratico a cui ha partecipato tutto lo staff del museo. Nella parte laboratoriale ho semplicemente chiesto a tutti di realizzare una foto, non di qualità anche solo con il cellulare, di un luogo che potesse rappresentare per loro l’essenza del museo. Una delle guide ha portato una foto di un’ombra che una finestra semiaperta proiettava sul muro di una delle case dei militari non aperte alla visita del pubblico. La sua motivazione, per me illuminante, è stata che quella immagine rappresenta il fatto che, nonostante il museo dica molto, ancor ci sono zone di ombra, cose non dette, segreti non svelati. Questa immagine e la sua spiegazione sono per me la perfetta sintesi di ciò che ho provato nell’entrare in quest’area del museo dove la vita dei militari viene accennata ma non svelata, in cui per rispetto non li si trasforma in protagonisti, in cui non si dà visibilità alla loro vita “confortevole” in un contesto di una violenza inaudita. E il non aprire tutte le loro case, l’eliminazione di troppe tracce della loro vita, fa parte di quelle cose che il museo non può dire, perché certo provocherebbe sdegno, ma darebbe a quelle figure orrende per un attimo un posto di primo piano che in questo museo è riservato solo alle vittime e alla loro voce. Dunque per noi visitatori e visitatrici, arrivare davanti a quel cordone che ci impedisce il passaggio è di nuovo una condizione di “fastidio” che ci serve per non sentirci troppo comodi in questo spazio di dolore, che non ostenta se stesso, ma non sopporta addolcimenti o aree rassicuranti dove riprendere fiato.

Vorrei quindi chiudere citando un evento a cui ho partecipato direttamente in questo viaggio. L’apertura della mostra Ser mujeres en la ESMA, donne all’ESMA, dove si affrontavano le questioni legate alle detenute, torturate e violentate, e desaparecidas. La mostra, oltre a portare una documentazione molto interessante sulla presenza massiccia di donne vittime, spinge il museo a fare un lavoro di “autocritica”, che testimonia la sua totale coerenza nell’essere non un luogo di esposizione della memoria, ma di negoziazione. Tutti i testi del museo per l’occasione sono stati rivisti, perché nonostante il museo abbia dato grande rilievo alle vittime donne, nei testi nelle frasi usate per indicare genericamente uomini e donne, come si usa comunemente nello spagnolo, così come nell’italiano, il termine plurale era sempre e solo declinato nel genere maschile. Nei pannelli del museo quindi sono apparse delle vistose correzioni in magenta che restituiscono a ciascuna parola plurale il doppio genere maschile e femminile. L’aspetto essenziale non è solo aver riconosciuto, a soli quattro anni dalla propria apertura, già la possibilità di rivedere e discutere le scelte fatte, ma anche il trasformare le “correzioni” non in un elemento da accettare ma nascondere, bensì invece da mostrare, da trasformare in un elemento museografico. Come dire: ogni trasformazione nel museo è un segno simbolico della nostra volontà di essere uno spazio di discussione permanente. Inoltre il titolo del pannello che introduce queste “correzioni” porta il titolo: cuando un museo no habla. el silencio del guión museográfico acerca de la violencia sexual sobre las mujeres, in riferimento alla recente battaglia legale vinta dalle avvocatesse argentine, che ha determinato che gli stupri subiti dalle vittime della dittatura non vanno più definiti come reati genericamente uniti ad altre forme di tortura, ma come reati a sé stanti, per i quali vengono richieste distinte cause e condanne.