«L’ebraismo ha un rapporto speciale con le parole. Dare nome ad una cosa è darle vita.
“Sia la luce” disse Dio “E la luce fu”.
Nessuna magia. Niente mani alzate e tuoni. Dirlo l’ha reso possibile.
È forse la più potente di tutte le idee ebraiche: la parola è generatrice.»
J.S.Foer, Eccomi
In tutti i miei traslochi porto con me una vecchia fotografia.
Ritrae una giovane donna, agli inizi del secolo scorso, nella sua camera.
È in posa, ben vestita e pettinata. Dietro di lei, sul muro, sono appese delle fotografie. Credo che siano dei suoi famigliari, e che metterle lì accanto al letto glieli faccia sentire vicini nella sua nuova vita.
Facciamo tutti così, quando partiamo.
Quella giovane donna è la mia bisnonna, Lisaveta Ghelfenbein, e la fotografia è stata fatta a Torino, dove si era trasferita da Odessa nel 1908. Era partita con due amiche, Rozina e Nadia, si erano tutte iscritte alla Facoltà di Medicina.
Immagino che la foto l’abbia fatta una di loro, che si siano volute bene in quegli anni così lontane da casa e dal loro mondo.
Non ho conosciuto Lisa. In famiglia si è sempre parlato poco di lei, aleggiava come una leggenda russa. Mia nonna Marussia, sua figlia, aveva fatto della traduzione dal russo la sua professione, e ci aveva insegnato il saluto di fede ortodossa a Pasqua: “Kristos Voscres!” a cui si deve rispondere: “Vaistinu voscres!”. Marussia proponeva a noi nipoti di andare da lei a prendere lezioni di russo, la lingua dei nostri antenati. Ma io non l’ho mai fatto, non ne capivo il senso e avevo un rapporto debole con Marussia, che, al mio avviso di nipote, non si comportava “da nonna”. Sentivo con lei una distanza, che invece non c’era con la mia nonna materna, Gina, con cui invece ho sempre avuto uno stretto legame di cibo, giochi, canzoni, confronti duri e risate.
Tra Marussia e me è cambiato qualcosa proprio grazie a Lisa. Nel 2002, il Museo Storico della Città di Bergamo mi ha chiesto di realizzare un breve video sulla vicenda di Lisaveta Ghelfenbein. L’ho realizzato come un compito, senza ben capire la materia che avevo in mano, utilizzando principalmente le fonti depositate all’ISREC (Istituto Storia e Resistenza Età Contemporanea). Il mio racconto si basava principalmente su quello in cui io mi riconoscevo di più in quella mia fase di vita, e insistevo quindi sul fatto che Lisa aveva avuto il coraggio di lasciare un posto sicuro e conosciuto per un sogno di emancipazione personale e che, per questo, aveva attraversato il mondo.
Dopo la proiezione, Marussia mi ha scritto un biglietto, l’unica comunicazione intima della nostra vita. In questo biglietto dice: “Ora c’è un filo tra noi: Lisa, Marussia, Chiara.”
Marussia ed io non abbiamo mai più parlato di questo argomento.
Ma ho capito che ero entrata in una porta segreta.
È grazie a quel video che, qualche anno fa sono stata contattata da uno storico, Sergio Luzzatto. Aveva intenzione di scrivere un libro ambientato in Val Gandino, in provincia di Bergamo, su diversi ebrei che lì si erano nascosti a causa delle leggi razziali.
Lisa, in effetti, è stata nascosta in un convento di suore, a Gandino. È così che si è salvata.
Per il suo libro, Luzzatto mi chiedeva come fosse composta la famiglia di Lisa e se qualcuno di loro si fosse salvato. In particolare, diceva, il fratello Volodia, che sembra vivesse a Parigi, dove è finito? Luzzatto era a Parigi ed era stato al Mémorial della Shoah, secondo lui non c’era traccia di nessun Ghelfenfein.
Ho realizzato di non avere nessuna risposta a queste domande.
Però i miei traslochi mi avevano portato a Parigi. Potevo cominciare da lì: da Volodia, dal Mémorial e dal fatto che non mi ero mai posta nessuna domanda.
Lisa era di famiglia ebrea. Ed è vero, durante le leggi razziali si era dovuta nascondere.
Nel frattempo, suo marito aveva chiesto ed ottenuto per i loro figli un certificato che permettesse loro di continuare ad andare a scuola, nonostante fossero di “razza mista”.
Ma le testimonianze di famiglia raccontavano il suo essere ebrea come un incidente, un fraintendimento.
Le interviste rilasciate dai figli di Lisa e depositate all’ISREC erano molto chiare sull’argomento.
Noi non sapevamo niente. Fino a quel giorno, per me, mia madre era russa e ortodossa.
Mia nonna Marussia ormai non c’è più, ma le sue carte sono conservate da sua figlia Gabriella. Già durante la realizzazione del video, Gabriella mi aveva mandato delle brevi trascrizioni dell’epistolario della famiglia Ghelfenbein, tradotte da Marussia. Gabriella ha realizzato, nel 1992, insieme alla storica Giuliana Bertacchi, delle interviste audio a Marussia, a sua sorella Marcella e ai suoi fratelli ancora viventi: Luciano, Andrea e Nicola [1]. Quando la incontro, e vedo tutti i materiali, mi rendo conto che c’è molto di più: il primo passaporto di Lisa, i suoi permessi di soggiorno, attestati di studio, molte lettere e biglietti.
Ma è tutto in cirillico. E io il russo non l’ho mai studiato.
Però le lettere mi aiutano a trovare l’ultimo indirizzo di Volodia a Parigi. Lo scrivo al Mémorial de la Shoah, per capire perché lo storico Luzzatto non aveva trovato Vladimir Ghelfenbein. Il mittente è scritto su una busta del 1939: Vladimir Helfenbein, 4 rue Cardinet 75017 Paris. Ci spero, perché anche Lisa, nel passaporto, si firma Helfenbein.
Madame,
Je regrette mais nous n’avons aucune trace de Vladimir / Wladimiro Ghelfenbein/Helfenbein dans nos archives. Ni dans les listes des convois de déportation, ni dans le fichier du camp de Drancy, ni dans le fichier de la Préfecture de Police (qui correspond au recensement de la population juive parisienne effectuée à partir de 1940 à la demande des autorités occupantes). Peut-être ce monsieur a-t-il été arrêté et déporté sous une autre identité ? Ou il n’a pas été déporté. Pour reprendre les recherches dans notre fonds documentaire nous aurions besoin de plus d’informations. Je vous conseillerais de contacter les organismes et centres d’archives suivant susceptibles de vous renseigner. Les archives de Paris, qui conservent les recensements par adresses de la population parisienne. S’il avait des activités commerciales, une entreprise, ses biens auront peut-être été aryanisés. Il faudrait voir auprès des Archives nationales dans le fond AJ38 et le Bottin des spoliés.
Et surtout les archives du ministère de la Défense qui conservent les dossiers des internés et des déportés de France. Si vous parvenez à rassembler des documents qui attestent de la déportation depuis la France pour raison raciale de Vladimir Ghelfenbein, nous pourrons ajouter son nom sur le Mur des Noms.
Je regrette de ne pouvoir vous renseigner davantage. Si vous avez d’autres questions, je reste à votre disposition.
Inizio a disegnare sul muro una mappa. È la mia Carte de tendre [2].
Grazie a mio papà, mi arrivano nuovi materiali, da suoi fratelli, sorelle, cugini e cugine. Quasi nessuno sa chi sono i Ghelfenbein nelle foto e cosa c’è scritto in quei biglietti e attestati. Però me li mettono a disposizione. Arrivano da Claudio, Silvana, Marco e Bianca, figli di Marussia; Lisa, figlia di Andrea; Giorgio, figlio di Marcella, Marco, figlio di Nicola.
Sergio è un fratello di mio padre. È l’unico tra i figli e le figlie di Marussia che ha studiato il russo. Gli chiedo se può guardare quelle lettere e quei documenti.
Sergio aveva già cercato Volodia e anche una sorella di Lisa, Nina, che viveva a Chisinau e lavorava come giornalista. Ma non sapeva delle lettere. Comincia a tradurre tutto e, man mano, mi manda [3].
Trovo una famiglia. Persone che non si sono viste per decenni, o mai più, che continuano a scriversi, raccontandosi piccoli avvenimenti quotidiani, chiedendo consigli medici, misure del corpo per fare un maglione, piangendo a distanza, gioendo di un ricordo lontano o cercando tratti comuni in una foto che ritrae i nipotini.
Torno all’ISREC, per cercare Volodia nelle interviste ai suoi nipoti.
Sapeva 7 o 8 lingue bene, poi, quando uno ne sa 7 o 8 poi impara subito …quasi parlava anche il dialetto bergamasco!
Ho ancora un bel libro di favole francesi che mi aveva portato.
Era musicista nell’animo, noi giocavamo sempre: alla radio si sentiva una musica e alla fine dicevano che musica era. Ma lui lo diceva immediatamente che musica era e andava avanti a canticchiare.
Quando arrivava voleva dire a merenda alle 4: prendere il tram, scendevamo poi alla chiesa di Santa Lucia e di fronte c’era la torrefazione …e là, cioccolata con le veneziane!
Ma chère Maroussinka,
C’est avec le plus grand plaisir que j’ai reçu ta lettre ; j’ai appris que tu es entrée dans l’université de Milan et que c’est la nouvelle vie qui commence pour toi. Je te souhaite de tout mon cœur le grand succès.
Je regrette que je ne puisse pas t’exprimer en italien toute la joie que j’éprouve mais je crois que tu comprends bien le français. Je voulais venir cet été à Bergame pour vous voir tous, mais les affaires me retenaient à Paris. Pourquoi n’êtes-vous venus à Paris pour voir cette belle exposition, qui a si bien réussi ? – certainement elle sera prolongée en 1938 ; – au point de vue d’art et de technique elle pourrait intéresser Luciano. C’est dommage que tu ne puisses pas venir en auto pour voir ton oncle – nous pourrions aller aux bons concerts – tu sais que j’aime toujours de la belle musique et j’entends souvent jouer mes compositeurs préférés comme Beethoven, Schubert, Liszt, Scarlatti.
Tanti baci de ton oncle Volodia
Al n.4 di rue Cardinet, ora c’è una banca. Quando chiedo notizie sull’albergo che c’era decenni prima, nessuno sa rispondermi. Nessuno si ricorda nemmeno che lì ci fosse un albergo. Però quello è l’unico indirizzo di Volodia rimasto nei documenti.
Infatti, un biglietto su carta intestata di Ferruccio Galmozzi, il marito di Lisa, testimonia che è con quell’indirizzo che ha cercato suo cognato Volodia presso il Nunzio Apostolico a Parigi, Angelo Roncalli. La risposta è molto chiara:
Nel 1941 La Gestapu venne un giorno: e lo accompagnò alla concentrazione di Drancy. Per qualche mese la signora dell’Albergo gli mandava dei colis. Poi ricevette una preghiera di non volersi più occupare di lui, perché doveva partire, pare, per la Germania. Da allora nessuna notizia. Pochi giorni dopo l’arresto a Parigi la stessa Gestapu ritirò dall’Albergo tutti gli effetti, documenti ecc. E non si poté più avere traccia di nulla. Queste le informazioni assunte presso l’Hotel Europe.
Continuo a cercare Volodia negli archivi parigini e, una volta capito che il suo cognome è stato scritto in modo diverso ad ogni censimento, trovo i suoi indirizzi in città, la sede di una società di vini che ha fondato con altri russi, un permesso di soggiorno che dichiara che lavorava in banca.
Sulla mappa tiro dei fili tra le città: la Simferopoli da cui arrivano i genitori, Nicola e Rachele, Volodia partito per Kiev, Pietroburgo, Londra e infine Parigi; Sasha a Mosca; Olga sempre a Odessa; Nina a Chisinau, in Romania (ora Moldavia); Vera che, quando resta vedova la raggiunge lì, con la figlia Ira; Misha che era un ballerino, sempre in tournée, anche lui con una figlia, Mira.
La mia famiglia nasce a Bergamo. Lisa, una volta laureata ottenne il posto di Direttrice dell’Istituto delle tubercolotiche. Ferruccio la raggiunse, era “il marito del Dottore”.
Anche noi, i loro discendenti, siamo tanti e ormai sparsi in diverse città e nazioni. Ma tutto parte da Odessa.
Nelle audiocassette sento Marussia che racconta:
Mia madre voleva tornare in Russia. È morta nel ’50 senza sapere niente. A un certo punto allora ho deciso: andiamo noi a Odessa. Perché è uscita la notizia che da Genova facevano un gemellaggio con Odessa.
Siamo arrivati a Odessa, con la nave, ed è stata una commozione fortissima. Io avevo gli indirizzi, perché ho raccolto tutte le lettere scritte dai miei. Le ho tradotte tutte. Avevo quindi vari indirizzi, l’unico sicuro era quello di zia Olga, che era la sorella maggiore. E allora appena siamo scesi abbiamo detto: andiamo a trovarli, andiamo a vedere cosa c’è a questo indirizzo. Siamo andati tutti insieme. Però io ho detto: voi fermatevi qui, se no si spaventano. Era un periodo in cui si era controllati. Allora sono salita io e c’erano tre cognomi…c’era ancora la kommunalki, l’appartamento in cui si vive in parecchie famiglie, una stanza per ognuno. Allora ho suonato a tutti e tre, solo uno ha risposto. Ho pensato: speriamo che sia quello. E viene una signora, un po’ più giovane di me. Si chiama Nora. Le ho spiegato. E le ho detto che volevo sapere qualcosa di loro, dei miei, se è possibile sapere. E che avevo l’indirizzo di questa casa. E lei a un certo punto mi dice: io li conoscevo tutti. Io vivevo qui e nell’altra stanza viveva Olga. Misha era molto amico della mia famiglia e la sua bambina Irocka, era mia amica. Veniva sempre a trovarmi. Quando è scoppiata la guerra, mio padre e mia madre hanno deciso di scappare. Siamo andati in Armenia. Invece i vostri dicevano: ma cosa ci faranno qui? A noi non fanno niente, ci vogliono tutti bene. Sono arrivati. Li hanno fatti uscire da casa e gli hanno sparato. Degli altri, mi ha detto Nora, se non si sono più fatti vivi, cosa vuoi pensare? Ora siamo noi cugine, io e te: Nora e Marussia.
Nora e Marussia si sono scritte per tutta la vita, raccontandosi piccoli e grandi eventi quotidiani. Hanno continuato la corrispondenza di Lisa e la sua famiglia.
Mi colpisce questo legame, mi colpisce il “voi” usato da Nora rispetto ai Ghelfenbein, che diventa un “noi” con Marussia. Un rapporto tra “cugine”, una sorellanza che nasce da una sparizione, da sopravvivenze.
Non so se Marussia li abbia cercati in altro modo, non so se si è mai rivolta alle sedi che mi ha indicato il Mèmorial. Non so niente del suo legame tra quella famiglia sconosciuta, ma cara, e la Shoah.
Scrivo al Capo Rabbino di Odessa, che mi risponde gentilmente che si informerà.
Ed è da Torino che riparto. Mia cugina Elena vive lì. Le invio gli indirizzi e le lettere. Purtroppo, però l’Archivio della Sinagoga è stato bombardato durante la guerra. Questo ha fatto sì che molti documenti andassero perduti. Elena non riesce a trovare nulla, ma esplora strade di Torino e ricette di Odessa.
Mi immagino che stiamo costruendo un caleidoscopio, un puzzle, un mosaico: stiamo pian piano mettendo un pezzetto dietro l’altro, formando un disegno, un quadro più ampio… un romanzo famigliare.
Sulla mappa metto uno stralcio di lettera ricevuta da Lisa a Torino:
Quando ho ricevuto la tua lettera, sono andato subito dal rabbino per farmi dare il certificato di stato libero e lui mi ha risposto che non poteva darmi un tale certificato ma solo il permesso di sposare una persona di religione ebraica e che inoltre devo presentargli un testimone che ti conosca; io gli ho portato il biglietto di Zesarskij che scrive che ti conosce bene e sa che non sei sposata; allora il rabbino mi ha dato il nulla osta per il matrimonio. Gli ho poi chiesto e sono riuscito a convincerlo a mettere per scritto che tu puoi sposarti con chi vuoi. Dopo aver ricevuto il certificato dal rabbino, ho dovuto rivolgermi al sindaco per avere l’autenticazione della firma del rabbino. Ricevuta questa carta dal sindaco, sono dovuto andare al Consolato italiano per il visto e finalmente sono riuscito a concludere tutto. Ti mando la mia benedizione paterna. Baci a te e al tuo futuro sposo e auguri di ogni bene per la vostra vita famigliare.
Ti mando molti, moltissimi baci.
Il tuo affezionato padre.
Mia cugina Anna decide di andare dove tutto è iniziato.
Anna, Lisa, Maria è il mio nome completo e oggi vado a Odessa.
Odessa è la città natale di Lisa Ghelfenbein che nacque 99 anni prima di me e venne in Italia, per studiare Medicina perché in Russia le era proibito in quanto donna …e per giunta ebrea. A Odessa, dal momento che non poteva iscriversi all’Università, Lisa fece una formazione post diploma in fisioterapia. Dopo la laurea in Medicina in Italia, Lisa diede alla luce Marussia, madre di mia madre Silvana. Mia madre è medica …io ho scelto di diventare osteopata. Sento fortemente una linea di collegamento transgenerazionale e porto con orgoglio il nome Lisa, nascosto dietro al mio nome.
Sono sull’aereo da Venezia. Arriverò a Kiev tra un paio d’ore. Da lì salirò su un treno notte per trovarmi domattina a Odessa. Ho gli indirizzi di famiglia che mi hai dato.
Sulla mappa appendo un finto biglietto da visita: ANNA Lisa Maria
Ma anche la ricerca di Anna non porta a nulla.
Dal Capo Rabbino non arrivano risposte. Forse perché ho scritto in inglese? Forse il problema è proprio il russo?
Mio cugino Andrea vive in California, lui a lezione da Marussia c’è andato.
Andrea: Posso provare a informarmi su quei documenti dell’ARA, (American Relief Administration), in cui si comunica a Lisa che i pacchi da lei spediti sono stati recapitati. I pacchi sono indicati con un codice, è indicata solo la città del destinatario: due sono per Odessa, uno per Kiev. L’archivio dell’ARA è ora a Stantford, non è lontano.
Chiara: Come te la cavi con il russo?
Andrea: Per un po’ i mercoledì pomeriggio ero affidato alla nonna perché mi insegnasse a parlare russo. Le lezioni erano faticose. Riempivo il mio quaderno di disegni, uno per lettera dell’alfabeto cirillico, e mandavo a memoria sedie, numeri, tavoli e animali. Mi stancavo presto e non vedevo l’ora di esplorare il giardino, profumato dal ciliegio e dai tralci di uva americana, e infatti tra le poche frasi che ricordo so ancora come chiedere il permesso di uscire a giocare: Можно мне выйти?
Ora che non vivo più in Italia quei racconti di famiglia acquistano, nuovi significati: vivere in un paese di lingua diversa, mantenere contatti a distanza con famigliari ed amici, non sono più racconti astratti, ma si caricano del mio vissuto. In quanto al russo, purtroppo dopo qualche lezione con la nonna dev’essere apparso evidente a tutti che io non l’avrei mai imparato, e le lezioni sono state sospese.
Però a Stanford ci vado.
Sulla mappa scrivo: Можно мне выйти? Vicino al certificato di razza ariana
È a mio cugino Davide, l’unico che tra noi ha seguito le lezioni di Marussia con dedizione, che mi rivolgo per chiedere se può aiutarmi nelle ricerche negli archivi russi. Gli scrivo una mail di richiesta titubante, so che è pieno di lavoro e ha due bambini molto piccoli. Mi manda una risposta.
Al mare in campeggio, notai la nonna scrivere con dei caratteri strani. “E’ un’altra lingua. Il russo”, mi spiegò. Fu allora che decisi: dovevo assolutamente imparare la lingua dei miei antenati. E così feci. Anche se non sempre mi applicai nello studio con costanza e la mia conoscenza del russo conosce alterni successi. Ma questo patto con la nonna, da quel giorno d’estate, giurai di difenderlo sempre a testa alta. Anche di fronte a chi – come un giorno una maestra alla scuola elementare – si disse fermamente convinta che fosse impossibile che mia nonna si chiamasse Marussia. “Che razza di nome è?”, chiese la maestra davanti ai miei compagni di classe. “E’ un nome russo”, ribattei io con orgoglio. “Mia nonna viene da lì. E anche io”.
È così che inizia tutto. Io a Parigi, e gli altri dove arrivano. Man mano invio indirizzi, documenti, fotografie, lettere …e loro in risposta mi inviano messaggi vocali, video, fotografie. Penso che non abbiano ben capito dove ci stiamo avventurando. Non lo so bene neanche io. Ma la mia mappa comincia ad essere ricca di frasi, immagini, pensieri.
È notte. Lascio sempre il telefono acceso con la vibrazione, pensando che i miei possano sapere che possono sempre rintracciarmi, se succede qualcosa.
È proprio la vibrazione a svegliarmi. Un messaggio whatsapp.
Davide: Ho trovato in un archivio online una Elisaveta Gelfenbein.
Ha fratelli Aleksandr e altri 5. È di Odessa ed è del 1887
Chiara: È lei.
Davide: Ma il padre si chiama Israil.
Chiara: Allora no, il padre in tutti i documenti è Nicola.
Davide: c’è anche Vera, Aleksandr, Vladimir.
Ci sono anche Nina e Olga.
Chiara: Mi sembra troppo per una coincidenza.
Davide: È lui, è Nikolaj. Registrato all’anagrafe di Odessa come Israil Klement’evic.
Figli: Vladimir 17, Alessandro 16, Olga 14 anni, Nina 12 anni, Elisabetta 10 e Vera 6. Mikhail 5 mesi.
Impiegato negli uffici Ljashenko.
Entrambi nati a Simferopoli, anche Rebekka.
Come mezzo di sostentamento mette “grazie al marito”.
Vladimir e Aleksandr studiavano commercio.
Dichiarano tutti di saper leggere.
Knjashevskaja 30/12. Appartamento n.26. Zona abitata da ebrei.
Penso: chissà se il marito di Lisa sapeva che Nicola non era il vero nome, chissà se sapeva che il suocero si chiamava Israel, chissà se avrebbe chiamato comunque suo figlio Nicola, sapendolo. O forse Lisa teneva quel segreto tutto per sé e la sua famiglia di Odessa.
Finalmente ho appuntamento all’Archivio della Préfecture de Paris.
Ho spiegato loro per mail tutte le questioni del cognome di Volodia e l’archivista si è mostrata molto disponibile. Infatti, mi accoglie gentilmente, mi spiega che spesso queste persone non vengono più trovate, sono stati anni confusi. Gli arresti venivano eseguiti dalla polizia francese, ma i comandi venivano dall’alto, erano zona occupata.
Le mostro l’ultima lettera di Volodia, è in francese. Lei legge con attenzione.
Cari Lizochka e Ferruccio
Vi sono Infinitamente grato e vi ringrazio per gli auguri per il compleanno. Pensate! Ho compiuto 60 anni, un’età molto avanzata, quando le persone ritengono di essere, se non proprio vecchie, almeno anziane. Ho conservato, per quanto strano possa sembrare, a dispetto di tutte le difficoltà, insicurezze, difficili condizioni materiali, il buon umore e l’amore per la vita.
Ho manifestato questo stato d’animo in una passione ormai fortissima per la musica classica. In alcuni caffè ora suonano dei musicisti di grande talento e sono molto lieto di assistere ai loro concerti 2-3 volte a settimana.
Ogni volta che ascolto Rossini e Donizetti mi dispiace che Marussia e Marcella non abbiano imparato a suonare.
Le serate musicali mi danno il diritto di considerarmi più giovane.
Che grande dispiacere non venire da voi.
Perché non mi scrivi come stai tu di salute? Naturalmente la vita adesso sarà più piacevole, la vita in campagna lontano dal rumore delle voci che corrono e dalle notizie schifose.
Un bacione a tutti i figli. Vi bacio tutti quanti.
Il vostro affezionatissimo
Volodia
L’archivista torna con un altro librone. È il registro degli arresti fatti nel 1940 e 1941, mi spiega. Se non troviamo qui, andiamo avanti, con il 1942 e 1943.
Passa il tempo, noi sfogliamo e leggiamo quei nomi scritti a mano, uno dietro l’altro.
Siamo arrivate all’inizio del 1943, quando lo vedo.
Riesco solo ad indicarglielo. Ci emozioniamo entrambe.
Notiamo che è una piccola retata, ma molto precisa: gli arrestati sono tutti provenienti dall’est Europa, e hanno tutti almeno 60 anni. Ognuno di loro come causa dell’arresto ha banalmente: juif, ebreo.
È così che imparo che, dopo l’arresto, avvenuto nell’hotel in cui viveva, Volodia è stato portato a Drancy. Erano le 00.40 di notte dell’8 gennaio 1943 e gli hanno chiesto di depositare la somma di denaro che aveva quando è stato arrestato. Gliel’hanno restituita, togliendo le spese di vitto e alloggio, un mese dopo, alla sua partenza. Lui ha firmato chè la somma venisse data a Jeanne, la giovane padrona dell’hotel dove viveva.
Madame,
Faisant suite à notre échange récent, et en vous remerciant pour les indications contenues dans votre dernier message, je vous confirme qu’on ne retrouvait pas le nom de Vladimir Ghelfenbein dans le Mur des Noms, car son identité a été erronément enregistrée sous un nom de famille bien différent : Gelferden. Voici l’inscription sur le Mur des Noms, sur les dalles de 1943, à la lettre G, comme suit:Wladimir GELFERDEN 1879
Car il était bien mentionné sur la liste du convoi 46 parti de Drancy le 09/02/1943 à destination d’Auschwitz comme suit: Wladimir GELFERDEN né le 20/07/1879 à Odessa. Il était réfugié russe. Il résidait 4, rue Cardinet à Paris 17è. Sa fiche du camp de Drancy (AN F/9/5694) apporte les informations suivantes : Wladimir GERFERDEN né le 20/07/1879 à Odessa. Réfugié russe. Il est interné à Drancy le 08/01/1943 sous le matricule 31685. Célibataire. Sans profession. Nous n’avons pas d’autres documents le citant dans nos archives.
Si la famille souhaite faire corriger le prénom et / ou le nom gravé sur Mur, c’est possible.
Alla cerimonia di correzione del nome sul Muro scelgo di far scrivere il suo nome nello stesso modo in cui intestava le lettere: Vladimir Helfenbein.
E sulla mappa gli metto accanto la ninna nanna di Lisa:
AAAai liuli / AAAai liuli / ciujim dietkam duli / nashim dietkam kalachi / chtobi spali u noci
Non ho staccato la mappa dal mio muro, però.
Note
[1] Le interviste sono depositate all’ISREC-Bergamo.
[2] La Carte de tendre è una mappa immaginaria disegnata e scritta nel 1654 da Madame de Scudéry. É un paesaggio allegorico, una mappa di sentimenti in cui ogni emozione ha un nome e una posizione geografica.
[3] Tutte le citazioni di lettere qui riportate sono tratte dall’epistolario tradotto da Sergio Cremaschi.
Chiara Cremaschi è laureata in Filmologia e si è formata agli Ateliers Varan. È stata più volte Finalista al Premio Solinas. Con Il cielo stellato dentro di me ha vinto il Premio per la Migliore Sceneggiatura di Rai International. Ha ottenuto l’Étoile de La Scam per la scrittura del film Les enfants en prison. Nel 2017 è in residenza a L-EST/European Performing Arts and Transmedia Lab per il progetto Krisi. Nel 2020 è in residenza a Villa Medici- Académie de France a Roma, per il progetto Remake. Nel 2022 sarà in residenza alla Fondation Camargo per il progetto Manuale di viaggio per donne sole. Conduce laboratori di cinema nei contesti più diversi, soprattutto quelli in cui il cinema non arriva.