Liceo Classico, 1993: “Vi è chiaro il punto? Padron ‘Ntoni non era in grado di capire il nipote…ma perché?” la voce ruggente si disperde nella classe silenziosa, nessuna mano si alza. Il prof spinge di scatto la sedia indietro, cammina verso la porta e poi verso la finestra, in modo quasi cadenzato, in attesa di una risposta che non arriva. Ad un certo punto si volge verso la parete più lontana e la raggiunge; con la mano destra chiusa – tutte le dita che premono sulla punta del pollice – ne tocca la superficie più volte, insistendo su una piccola porzione e dice: “per immaginare ci vuole la capacità di aprirsi al diverso, al nuovo…lui non può storicamente capire la modernità perché non sa come immaginarla”.
Osservare quel corpo in movimento era, all’epoca, la mia chiave per andare “proiettivamente” da una storia all’altra, da un’analisi del testo ad un racconto sugli autori, trovando uno spazio mio, del tutto autonomo, nelle poetiche dentro cui il prof De Rossi ci invitava a camminare. Il suo corpo faceva parlare una condizione di presenza dentro la letteratura che liberava la mia, anche se ero sempre lì, ancorata alla mia sedia.
Se Freud ha scritto sul meccanismo della proiezione, partendo da un’emozione negativa che non si riesce a metabolizzare o a riconoscere e si attribuisce ad un altro per poterla esteriorizzare e dunque “vedere”, è il concetto di transfert che invece spiega perché si attribuiscono sentimenti e pensieri che nascono altrove ad una persona che è attivamente parte del proprio contesto relazionale. Quanti hanno inconsciamente chiesto al proprio maestro o maestra, in diversi momenti della propria crescita, quell’essere visti e quella comprensione che, indipendentemente dal meccanismo dell’apprendimento, probabilmente indicava mancanze affettive da parte delle figure genitoriali? Eppure, osservare il professore muoversi in modo a-logico era il vero momento di gioco in classe; un’attività fisica – la sua – dedita ad un fare e disfare simbolico e concettuale di racconti/lezioni che, attraverso i suoi movimenti, diventavano mondi aperti; una rete di connessioni da esplorare per comprendere cosa volesse dire attivare un proprio senso critico, anche solo nel chiedersi perché toccasse il muro in quel modo.
Ivano Gamelli, studioso di pedagogia del corpo, spiega come i neuroni-specchio (identificati nella corteccia frontale del cervello delle scimmie e poi riconosciuti all’interno del cervello umano) ci portino a sovrapporre la nostra esperienza a quella di altri quando ne osserviamo l’attività motoria. Studiare questa capacità ha condotto allo sviluppo della “simulazione incarnata”, una teoria che dimostra come l’intersoggetività – la condivisione di stati soggettivi da parte di due o più soggetti – non si realizza in virtù di un’elevata capacità empatica verso l’altro ma “attraverso un vero e proprio rispecchiamento di stati corporei…la parola intersoggettività avrebbe quindi una forte assonanza con la parola intercorporeità…in altre parole, grazie all’attivazione dei neuroni-specchio riusciamo a comprendere il comportamento altrui senza aver bisogno di pensare, codificando gli atti motori altrui come se fossero compiuti dal nostro stesso corpo”.
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Riflettere sulle reazioni immediate che provoca osservare un corpo in movimento non può che riportare al teatro: fin dall’antichità è esistito ed esiste in virtù del guardare e dell’essere guardati, come ben sapeva lo scenografo Cecoslovacco Josef Svoboda nel ricordare che basta spegnere le luci per annullare il teatro, facendo scomparire ciò che accade sia in scena che in platea.
La similitudine tra teatro e pratica dell’insegnamento è resa immediata dall’architettura: le aule magne di molte università sono costruite come veri e propri teatri in cui lo spazio dell’arena è quello deputato al docente. Necessariamente, avere la capacità di abitare lo sguardo degli studenti diventa a quel punto un esercizio fisico di presenza, di retorica e direi di potere, amministrato con movimenti e gestualità che raccontano non solo chi li compie ma anche il bisogno e la necessità di tenere l’attenzione viva per poter espletare al meglio “la consegna” delle informazioni. Il corpo in quel contesto veicola semioticamente sé stesso ma al centro dell’aula magna, dall’inizio alla fine, ne rimane soltanto uno – come quello dell’attore sul palcoscenico – difronte a tanti altri a cui non viene dato altro ruolo che il co-esistere in un ascolto muto, come spesso succede per gli spettatori.
Matthew Reason, teorico di Teatro e Performance all’Università di Bath, ha prodotto ricerche sulla fenomenologia delle esperienze che si fruiscono dal vivo, ragionando sulla definizione di “audiencing” come quella complessità di percezioni che determinano il comportamento e l’attitudine di chi compone un pubblico, che sia per attività ricreative o di formazione. Il termine circoscrive come il pubblico presta attenzione, come viene colpito/emozionato da ciò che sta recependo, come produce e attribuisce significato, come ricorderà cosa ha vissuto e come partecipa di una dinamica collettiva. A seguito delle sue ricerche, Reason sostiene che uno spettacolo è ben riuscito non in virtù di come la performance è stata pensata ed eseguita ma in virtù di una mutua relazione di sorpresa che si attua tra attori e spettatori. Dichiaratamente, egli abbraccia ciò che sosteneva il filosofo e teorico dell’educazione Martin Buber: che una lezione, per essere viva, dovesse bandire ogni routine e permettere invece una mutua sorpresa, ovvero uno scambio relazionale in cui docente e studenti fossero nella condizione di fare delle scoperte reciproche su come porsi verso l’altro, creando insieme la possibilità di essere trasformati da ciò che era stato condiviso.
Ragionare sui processi di audiencing a partire dagli aspetti più immediati e inconsci della percezione, o più prosaicamente, porsi il problema del corpo degli altri in teatro come in arte, è ciò che, al termine dei miei studi teatrali, mi ha fatto comprendere quanto fosse più interessante cosa avveniva in platea piuttosto che in palcoscenico, scegliendo da quel momento in poi di attivare e proporre momenti di trasformazione in virtù di presenza e reciprocità reali, potendo agire da corpo tra corpi che rispondono. Ho scelto la Performance Art e le pratiche relazionali non solo come medium ma come appartenenza ad una storia e fenomenologia delle Arti Visive che ha promosso dal secolo scorso un lungo percorso verso la dematerializzazione dell’oggetto e la valutazione estetica dell’esperienza artistica. John Dewey argomentava come per esperienza estetica si intende il fare esperienza del mondo, nel senso di aprirsi ad una partecipazione diretta che permette al visitatore di attivare tutte le sue risorse razionali e sensoriali per rispondere al contesto. Oggi come ieri, in accordo con questo principio, penso il mio pubblico come l’altra/altro da me in una interazione – spesso concepita per una visitatrice/visitatore alla volta e senza dare molte anticipazioni sul da farsi – che rende l’opera viva perché aperta a ciò che non posso del tutto prevedere: gli spettatori/partecipanti infatti sono invitati a reagire alla situazione che ho creato e spesso la loro risposta ne attiva una mia non prevista, arricchendo il processo artistico e permettendomi una nuova chiave di comprensione dell’opera, a volte più distante o a volte più puntuale di come l’avevo considerata in fieri.
Condividendo il pensiero di Buber, l’opera è riuscita quando la relazione con il pubblico mi ha sorpreso ed ha sorpreso chi ha scelto di farne parte; la prossimità fisica ed emozionale che può scatenarsi per entrambi – artista e partecipante –, che sia in modo conflittuale o fusionale, diventa un mezzo per abitare il momento e fare esperienza del corpo, dei corpi come spazio per un processo di scoperta e condivisione del qui ed ora, nella speranza di trasformare anche solo temporaneamente come si osserva il resto.
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Non potendo dimenticare quella me ancorata al banco, quando mi trovo nella condizione di insegnare, anzi di facilitare la Performance [1], centro il mio lavoro sul coinvolgimento necessario e fondante del corpo degli studenti, promuovendo esperienze non verbali e training fisico con l’obiettivo di sviluppare processi di embodiment, ovvero imparare ad abitare oggetti, situazioni, persone, emozioni o semplicemente lo stare insieme. La Terapia della Gestalt è una fonte preziosa per capire come la consapevolezza corporea, il gioco di ruolo, il movimento e il dialogo possano costruire scenari di rappresentazione del proprio teatro interiore, permettendo una elaborazione fisica di concetti e percezioni sia in modo individuale che collettivo. L’obiettivo della terapia è quello di generare consapevolezza e possibilità di cambiamento; nel contesto di una formazione artistica le stesse tecniche possono introdurre gli studenti ad approfondire i confini che si stabiliscono con gli altri, lavorando su dinamiche di confluenza, proiezione, rispecchiamento, introiezione: il corpo è il luogo deputato per far parlare ogni parte di sé. Quando ho formato le guide di Palazzo Strozzi per la mostra retrospettiva di Marina Abramovic The Cleaner (2018), ho scelto di proporre al gruppo di Storiche e Storici dell’Arte non un corso veloce sul percorso dell’artista ma un workshop intensivo su come loro potessero praticare Performance Art, partendo dal concetto della pedagogia deweyana che l’esempio diretto è il miglior insegnamento possibile. Li ho dunque invitati a scegliere una statua a testa di quelle presenti in Piazza della Signoria e abbiamo lavorato su come interpretare e relazionarsi ad ognuna, producendo performance individuali che sono state poi realizzate in piazza, in mezzo ad un pubblico più o meno consapevole di ciò che stava accadendo. In questo caso, coinvolgere il corpo delle guide nel processo di embodiment era un esercizio mirato a comprendere come durante un’azione prestabilita i corpi di tutti, performer e visitatori, abitano lo stesso spazio e come sia importante veicolare una presenza che sappia accogliere e valutare cosa succede intorno.
La pedagogia teatrale è ricca di insegnamenti che propongono esercizi di percezione dello spazio e degli altri, ma una fonte altrettanto valida è quella dei giochi per l’infanzia. Durante un laboratorio realizzato all’Accademia di belle Arti di Firenze (10=Shì, 2018), centrato su un esercizio collettivo di traduzione culturale in atto tra studenti Italiani e studenti Cinesi, ho utilizzato giochi d’infanzia e di gruppo provenienti dalla Cina rurale per attivare uno scambio fisico tra loro. In questo modo abbiamo rotto la barriera dei diversi linguaggi corporei e della distanza relazionale attivando un processo di embodiment centrato sui movimenti primari; correre, spingere, tirare e quindi rincorrere, scappare, tenersi all’altro o cercare di prenderlo. Quanto più cresciuti e lontani si è dalla semplicità di questi movimenti nel gioco e tanto più sono efficaci nel promuovere uno scambio empatico con chi partecipa: si riconosce il corpo dell’altro come il proprio, tornando piccoli insieme e scoprendo dinamiche note a tutti.
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Negli ultimi 5 anni ho progressivamente integrato la dimensione pedagogica e laboratoriale nel mio processo artistico ed è talmente rilevante oggi da non immaginare la mia ricerca senza. Cruciale in questo passaggio è stata la mia residenza al Macro Asilo nel 2019, in cui ho avuto la possibilità di lavorare per un mese con 5 donne cieche dalla nascita; abbiamo investigato insieme come tradurre l’immaginario di chi non fa esperienza del mondo attraverso la percezione visiva in un linguaggio tattile e corporeo diverso per ognuna (Listen To Me).
Durante il laboratorio che ho condotto per 10 giorni, abbiamo esplorato insieme come poter arrivare alla creazione di una performance per una visitatrice-visitatore alla volta: abbiamo elaborato le storie che loro volevano raccontare di sé usando il corpo e non la voce, abbiamo investigato il movimento con giochi espressivi e di contatto, abbiamo costruito una “partitura fisica” per ogni racconto e deciso come articolare le loro presenze nello spazio condiviso. Il risultato di questo processo sono stati 10 giorni di performance e circa 300 visitatori che, dopo le necessarie istruzioni, varcavano una soglia accompagnati, uno alla volta, ad incontrare la propria performer in un luogo scuro e silenzioso e con la consegna di non parlare per alcun motivo. Limitare la visibilità è stato un passaggio fondamentale per favorire l’abbandono: ai visitatori era richiesto di chiudere gli occhi e di lasciarsi andare alla guida del corpo delle performer, accettando di mettersi completamente a disposizione di quel contatto senza giudizio e senza sguardi, seppure lo spazio fosse illuminato da due luci fioche agli angoli. L’opera, articolata in virtù delle esperienze di diversità sensoriale ed emozionale delle performer, è diventata velocemente un vero e proprio dispositivo di messa al centro del corpo dei visitatori, permettendo loro un ascolto interno e profondo attraverso l’abbandono del proprio sguardo e del proprio equilibrio. Il laboratorio condotto con Rosanna, Francesca, Simona, Giuditta e Veronica è stato un percorso di scoperta e di elaborazione per me radicale, in cui ho sperimentato come raccontare storie attraverso corpi che non necessitano di parole né dell’esistere nella trama dello sguardo altrui per produrre condivisione. L’intensità e la forza comunicativa delle scelte che abbiamo fatto è passata ai visitatori partecipanti, provocando delle reazioni emotive intense e rendendo utile la piccola stanza di decompressione a disposizione di chi usciva dall’opera, in cui potersi sedere, scrivere e bere tè caldo.
Il processo creativo dentro il quale mi muovo oggi parte dal com-prendere la prossimità fisica ed il tatto come luoghi di incontro della diversità, come spazi di sperimentazione per investigare cura, consenso, rischio e conflitto. Il tipo di esperienza estetica che mi interessa creare investe l’uso della sensorialità in chiave empatica ed a favore dei sensi meno praticati rispetto alla vista; lo sguardo ci permette un controllo immediato del contesto ma non sempre equivale ad una comprensione reale di ciò che intercorre tra noi e gli altri. Nel momento in cui l’opera che creo apre ai corpi degli altri, posti al “al centro” come il mio, non mi basta più soltanto vederli: ho bisogno di sentirli ed esplorare, in funzione della relazionalità che ci unisce, il mondo di percezioni e pensiero che si apre intorno a noi.
In particolare, approfondire le teorie e gli studi sull’Affetto mi permette di “mettere in luce sia il nostro potere di influenzare il mondo che ci circonda sia la nostra capacità di esserne influenzati” come sostiene Micheal Hardt [2], allo scopo di investigare momenti di intensità condivisa, spesso difficili da esprimere oralmente eppure talmente immanenti da condizionare il ricordo e l’effetto dell’opera sul nostro sistema corporeo e psichico.
Portare i corpi degli altri al centro vuol dire, inoltre, assumersi l’onere della cura e la responsabilità etica dello scegliere in funzione di quale obiettivo operare con loro. In passato ho realizzato delle performance che considero fisicamente e psicologicamente violente ed ho scientemente utilizzato la conflittualità come strumento per stimolare un pensiero ed una conversazione intorno ad alcune tematiche che per me non erano e non sono (ancora) affrontabili diversamente. Arrogarsi il diritto di parlare/agire senza paura, seppure da una posizione di fragilità o di non particolare forza, non autorizza a mettere in pericolo gli altri. Al contempo, condivido ciò che Nicholas Ridout ha detto sulla condizione etica dell’arte e del teatro: “un lavoro che aspira a produrre una reale risposta etica dovrebbe essere proprio quello che non ne possiede alcuna ambizione, in grado di offrire a chi partecipa qualcosa di radicalmente diverso e non comprensibile attraverso la chiave di lettura di cosa sia bene e cosa male”. Quindi da artista mi pongo ogni volta su una soglia critica: proteggendo chi lavora con me con la costruzione logistica di un’opera che rispetti spazi e tempi personali; offrendo ai visitatori la scelta di partecipare a ciò che propongo, spiegandone il possibile e chiedendo un atto di fiducia che si può accogliere o rifiutare; ma non mitigando l’intensità di ciò che mi interessa comunicare. Scelgo di fare arte in quanto incapace di sottrarmi al desiderio e alla necessità di provocare trasformazioni e credo si possa crescere con gli altri nello spazio relazionale che l’opera offre solo se si è disposti ad accoglierne ogni contraddizione.
Note
[1] «Si può insegnare la performance? Io non credo…penso che la performance sia simile a molte altre discipline delle arti visive e non credo che queste, o le Belle Arti in generale, possano essere insegnate. Però esibire, condividere, facilitare l’apprendimento di conoscenze e del processo creativo aiuta a progredire, a fare domande e a trovare risposte» (Franko B, in Mu, Martore, 2018, p.123).
[2] Riferimento a Hardt, M.; The Affective Turn (2007) presente in Roberta Langhi, Un’ introduzione critica alle teorie contemporanee sugli affect studies, Enthymema XXIV 2019
Università del Piemonte Orientale, pagg.175, 176.
Bibliografia
Buber M., Between Man and Man, Routledge, 2002.
Franko B, Io (non) ero presente in Mu C., Martore P., Performance Art: traiettorie ed esperienze internazionali, Castelvecchi, Roma 2018, Pagg.123
Gamelli I., Mirabelli C., Non solo parole. Corpo e narrazione dell’educazione e nella cura, Raffello Cortina Editore, Milano 2019.
Langhi R., Un’introduzione critica alle teorie contemporanee sugli affect studies, in «Enthymema XXIV», Università del Piemonte Orientale, 2019.
Reason M., Molle Lindelof A., Experiencing Liveness in Contemporary Performance, Routledge N.Y., 2020.
Ridout N., Theatre and Ethics, Palgrave Macmillan, London 2009.
Chiara Mu è un’artista e ricercatrice. Si è formata a Roma (Scenografia, Accademia di Belle Arti, 2001) e a Londra (Post-Graduate Diploma in Fine Art, 2006 e Master in Fine Art al Chelsea College,2009). Si occupa di produrre e divulgare perfomance site-specific e pratiche relazionali; negli ultimi dieci anni ha mostrato il suo lavoro in molteplici contesti istituzionali e no-profit ed ha collaborato con università ed accademie in Italia, Inghilterra e Cina. È ideatrice e curatrice con Paolo Martore Performance Art: traiettorie ed esperienze internazionali (Castelvecchi, Roma, 2018).