Nel 1999 Monica Bonvicini, insieme a Bruna Esposito, Paola Pivi, Luisa Lambri e Grazia Toderi, rappresenta l’Italia alla Biennale di Venezia curata da Harald Szeemann e intitolata dAPERTutto ottenendo il Leone d’Oro per il miglior padiglione nazionale. In questa occasione, Bonvicini espone l’opera I Believe the Skin of Things as in That of Women, un’installazione costituita da una piccola stanza realizzata con pareti in cartongesso, alcune danneggiate o addirittura sfondate, sulle cui superfici interne sono riportate citazioni sessiste tratte da testi classici di storia dell’architettura affiancate da disegni caricaturali di figure maschili ritratte in atti sessuali. Il titolo dell’opera richiama esplicitamente una frase attribuita a Le Corbusier emersa in un dibattito con l’architetto Auguste Perret circa il design delle finestre negli edifici modernisti: se il primo prediligeva le finestre orizzontali, Perret sosteneva che dovessero essere verticali, “come un uomo” (Le Corbusier, 1923). La frase di Le Corbusier esprimeva bene la sua concezione dell’architettura come assimilabile al corpo umano, dotata di una “pelle” con funzioni estetiche, protettive e strutturali.
Bonvicini parte da questa metafora per sollevare una riflessione critica sui ruoli di genere e sulla percezione del corpo femminile come presenza passiva, pari a un oggetto, all’interno del contesto architettonico modernista, interrogandosi sul modo in cui il genere influenzi la percezione e la rappresentazione degli spazi costruiti. Attraverso l’adozione di tale titolo, anche lei suggerisce un legame indissolubile tra spazio e corpo, ma ne sovverte il significato, rivelandone i connotati sessisti e mettendo in crisi la tradizionale concezione dell’architettura come neutrale.
I Believe in the Skin of Things as in that of Women, 1999
Drywall panels, aluminum studs, wood panels, graphite
Photos: Frank Kleinbach
L’opera si propone dunque come una critica dissacrante alla disciplina architettonica e ai meccanismi di condizionamento, inclusi quelli spaziali, che hanno oppresso la donna nel corso dei secoli: l’erezione di pareti aggiuntive all’interno dello spazio espositivo, che ne altera la configurazione, consente all’artista di riappropriarsi, da parte femminile, di tali spazi, mentre le aperture squarciate presenti sulle pareti sembrano evocare una forma di lotta e resistenza contro il potere fallocratico. Infine, una chiara presa in giro nei confronti di un’architettura tradizionalmente appannaggio degli uomini emerge dai disegni stilizzati che accompagnano l’installazione I Believe the Skin of Things as in That of Women, seppur appartenente a una fase iniziale del percorso artistico di Bonvicini, segna un importante momento di riconoscimento nella sua carriera e ne enuclea perfettamente la ricerca focalizzata, sia allora che in seguito, su un’analisi critica delle strutture di potere e delle dinamiche di genere nell’architettura.
Oggi è ampiamente riconosciuto che lo spazio architettonico non è mai neutrale o privo di connotazioni di genere; i nostri corpi interagiscono con un sistema di coordinate che influenzano le possibilità di azione e determinano codici comportamentali. Pur non essendo sessuato di per sé, lo spazio rappresenta il contesto che contribuisce alla produzione dell’identità personale, un ambiente socioculturale che forma i corpi che lo abitano. Il nodo critico è che gli edifici, in quanto prodotti culturali, sono intrinsecamente politici e ideologici poiché riflettono i valori e le priorità di coloro che li hanno progettati, storicamente uomini (Weisma, 2000).
La questione di come i generi siano inscritti nei media e nel linguaggio, e di come si possano indagare i legami tra architettura, spazio e genere, è affrontata da Bonvicini sin dai primi anni Novanta, in un periodo in cui i temi femministi, specialmente nel contesto artistico italiano, non sono particolarmente in voga [1].
Nata a Venezia nel 1965, dal 1986 Bonvicini vive tra Berlino e Los Angeles, dove si forma artisticamente. Fin dall’inizio del suo percorso si confronta con una varietà di media, seppur con una particolare attenzione al video. La sessualità e i rapporti di potere rappresentano i primi punti focali della sua indagine sull’architettura. In una delle sue opere giovanili, WallFuckin’ (1995), un video in bianco e nero mostra una donna che, stringendo una parete tra le gambe, la utilizza come strumento di autoerotismo senza però mai raggiungere l’orgasmo: siamo di fronte al pieno controllo di un soggetto attivo e autonomo, che decide del proprio piacere e narrazione. Il video viene proiettato su un monitor a terra, circondato da pannelli in cartongesso che creano uno spazio nuovo, progettato dall’artista stessa. In questo senso, il corpo femminile, sia nel video che nello spazio fisico, si riappropria di un’architettura tradizionalmente dominata da una prospettiva maschile.
Interrogata sul suo interesse per la sessualità, in un’intervista del 2004 Bonvicini dichiara: «Ho iniziato a lavorare sulla sessualità per due motivi. In primo luogo, dieci anni fa, stavo leggendo molte teorie di genere legate all’architettura, come Space and Sexuality di Beatriz Colomina, Discrimination by Design di Leslie Kane Weisman e Building Sex di Aaron Betsky. In secondo luogo, ero interessata ad affrontare gli stereotipi nei campi sia del genere che dell’architettura […]. Oltre a questi stereotipi, la sessualità è qualcosa che tutti conoscono. È un bisogno semplice e fondamentale, come l’architettura stessa. Hai qualcosa sotto la cintura e qualcosa sopra la testa. E hai bisogno di entrambi» (Bonvicini, 2004) [2].
Non è difficile, dati gli espliciti riferimenti teorici e la tipologia di lavoro che emerge già da un’opera come WallFuckin’, collocare la ricerca di Bonvicini all’interno del clima della cosiddetta terza ondata femminista. Come molte delle donne che partecipano a questo movimento, l’artista cresce negli anni Settanta, periodo che in Italia è caratterizzato da eventi politici particolarmente cruenti ma anche dal fiorire del movimento femminista nelle piazze italiane, che rimette in discussione pensieri e pratiche consolidate. È la stessa Bonvicini a dichiararsi influenzata da tale contesto, tanto da individuare nella sua ricerca una funzione strettamente connessa all’ambito sociale. Il femminismo, dunque, è un elemento di cui è da sempre profondamente consapevole.
Ripercorrendo le sue prime opere emerge un interessante ponte ideale con la produzione degli anni Settanta, sia in termini di militanza che nelle tematiche affrontate, ma anche in alcune scelte linguistiche che richiamano le pratiche di quel decennio, incluse, se vogliamo, quelle di artiste femministe italiane come Ketty La Rocca, Tomaso Binga o Cloti Ricciardi, per fare alcuni nomi. Sebbene questo debito con il passato meriterebbe un’analisi più approfondita, si notano facilmente alcuni tratti distintivi: il disegno rapido e la scrittura incisiva, evidenti nella serie Smart Quotations (1995/96), l’uso del questionario nel progetto What Does Your Wife/Girlfriend Think of Your Rough and Dry Hands? (iniziato nel 1996, raccoglie circa 90 interviste a muratori accompagnate da fotografie di cantieri scattate dall’artista in varie parti del mondo), la scelta del bianco e nero in WallFuckin’, e il largo impiego di materiali industriali, da costruzione, come cartongesso e mattoni nelle sue installazioni. È tuttavia il legame con le tematiche femministe relative al genere e allo spazio ad apparire determinante.
Le ricerche su tale relazione, spesso declinate sullo spazio domestico, iniziano a svilupparsi negli anni Settanta all’interno del movimento femminista americano; un esempio è il progetto collettivo Womanhouse, realizzato nel 1972 dal Feminist Art Program sotto la direzione di Judy Chicago e Miriam Schapiro presso il California Institute of the Arts di Valencia [3]. Nell’installazione diciassette ambienti di un edificio abbandonato vengono trasformati per rappresentare le esperienze femminili attraverso gli spazi della casa, mettendo in luce le discriminazioni subite dalle donne e gli stereotipi legati alle attività domestiche. La casa è infatti storicamente il luogo deputato allo sfruttamento della forza-lavoro femminile, sublimato culturalmente come estensione della funzione materna della donna, che lega la sua realizzazione e identità all’ambiente domestico. La donna è confinata nella casa, diventando quasi indistinguibile dalla stessa, come se ne fosse una naturale estensione. La sua presenza è indispensabile per il funzionamento della famiglia, ma allo stesso tempo la riduce a un ruolo limitato e circoscritto, in una ghettizzazione spaziale e funzionale. È significativo notare che Bonvicini, tra il 1991 e il 1992, studia proprio presso il California Institute of the Arts, in stretto contatto dunque con l’eredità di una precisa tradizione femminista.
Se, inizialmente, le riflessioni critiche sulla relazione tra spazio e genere emergono in maniera informale all’interno dei gruppi femministi, rimanendo ai margini del discorso architettonico ufficiale, a partire dagli anni Ottanta queste idee cominciano a essere elaborate in modo più sistematico, sviluppandosi in un riesame globale della problematica architettonica filtrata attraverso l’ottica femminile [4] che culmina nei primi anni Novanta con la pubblicazione di saggi accademici che collegano le teorie femministe alla progettazione degli spazi urbani e domestici. Tra i contributi più rilevanti di questo periodo si annoverano quelli ricordati dalla stessa Bonvicini, come Discrimination by Design di Leslie Kanes Weisman (1992) e Sexuality & Space (1992), raccolta curata da Beatriz Colomina [5].
In questo senso, un’opera come Hausfrau Swinging (1997) si inserisce in una tradizione critica ben definita, radicata nel contesto americano. Ispirata al disegno Femme/Maison (1947) di Louise Bourgeois, l’installazione video di Bonvicini mette in discussione il legame opprimente tra la dimensione femminile e lo spazio domestico. Nel video, una donna nuda con una casa bianca sulla testa si trova nell’angolo di una stanza e batte ripetutamente la testa, e con essa la casa, contro il muro. Il ritmo incessante con cui la performer si scaglia contro le pareti rivela una frustrazione profonda; osservando la scena, diventa evidente che questo gesto rappresenta un tentativo disperato di distruggere la struttura abitativa in quanto simbolo dello spazio che imprigiona la donna nel cliché domestico.
Se lo spazio materiale e metaforico dell’abitazione moderna rappresenta un dispositivo di oppressione contro le donne, i muri degli edifici diventano per Bonvicini il simbolo stesso del potere patriarcale contro il quale l’artista ingaggia lotte dirette, quasi fisiche, con l’architettura (Zapperi, 2003).
Hammering Out (an old argument), 1998/2013
HD Video color projection, sound, amplifier, 2 speakers
Photo: video still
Nel video Hammering Out (an old argument), il braccio di una donna colpisce ripetutamente un muro intonacato di bianco con un martello. Il rumore è assordante, l’intonaco si sgretola, ma il muro non cede: una metafora della resistenza ostinata delle strutture di potere contro cui si infrangono le lotte femministe. Ancora, nell’installazione video Destroy She Said (1998), ispirata all’omonimo romanzo di Marguerite Duras, spezzoni di film di registi come Michelangelo Antonioni, Federico Fellini, Roman Polanski e Jean-Luc Godard vengono proiettati su uno schermo doppio. In queste scene, le donne interagiscono fisicamente con le strutture architettoniche domestiche: si appoggiano alle pareti, si rannicchiano accanto a esse. La retroilluminazione rossa degli schermi intensifica l’atmosfera di claustrofobia e disperazione di quelle figure femminili prigioniere delle loro abitazioni.
Un elemento centrale nella pratica di Bonvicini è l’assenza fisica del suo corpo nelle opere: le azioni non sono mai interpretate dall’artista stessa, ma da performer scelte, in una costante evasione fisica e sottrazione del sé, oltre che dell’azione diretta che si manifesta solo attraverso il video. Nelle opere analizzate, quest’ultimo è infatti lo strumento attraverso il quale Bonvicini mette in discussione il rapporto tra spazio e corpo femminile, mostrato nel tentativo di liberarsi dalle costrizioni patriarcali. Inoltre, il video è sempre inserito in spazi nuovi, appositamente creati dall’artista così da delineare un luogo architettonico inedito, non maschile, di interazione e confronto.
Durante gli anni Novanta, il lavoro di Bonvicini evolve verso una sempre maggiore consapevolezza e padronanza dello spazio, manifestando un crescente interesse che si traduce in un’abilità nel manipolarlo. Se inizialmente il video rappresenta il principale mezzo attraverso cui l’artista riformula l’azione, col tempo la sua attenzione si sposta verso le possibilità fisiche offerte direttamente al pubblico in uno spazio-corpo da agire. Costruendo ambienti, invita i visitatori a interagire con lo spazio che si attiva e si trasforma attraverso i loro movimenti.
Nel 1998 presenta Plastered, un’opera in cui il pavimento dello spazio espositivo è ricoperto con uno strato di cartongesso posato su polistirolo; ogni passo del visitatore provoca un cedimento del suolo, costringendo chi cammina a prendere coscienza del proprio ruolo e diventando, con una partecipazione imprevedibile e fondamentale, parte integrante dell’opera.
Sempre nello stesso anno, l’artista invade la galleria Mehdi Chouakri di Berlino con l’opera A Violent, Tropical, Cyclonic Piece of Art Having Wind Speed so far in Excess of 75 Miles per Hour. L’installazione, il cui titolo è tratto dalla definizione di hurricane (uragano) del Random House Dictionary, comprende due potenti ventilatori assiali montati su pareti di intonaco, creando uno spazio chiuso all’interno del cubo bianco della galleria. Quando i ventilatori si attivano, l’atmosfera si trasforma in quella di un uragano: venti violenti si scatenano rendendo insopportabile la permanenza in galleria per un periodo prolungato.
Anche I Believe the Skin of Things as in That of Women, presentata alla Biennale di Venezia del 1999, si inserisce in questa indagine ambientale, dal momento che i visitatori sono chiamati ad attraversare e abitare lo spazio per leggere le frasi, osservare i disegni e fruire quindi pienamente dell’opera.
Nel corso degli anni Duemila, Bonvicini amplia progressivamente il proprio vocabolario artistico sperimentando con nuovi materiali come vetro, specchi, pelle e catene, che sembrano riflettere, più che un interesse per un’estetica essenziale e, se vogliamo, vicina agli anni Settanta, l’influenza della club culture berlinese che si sviluppa negli anni Novanta, profondamente legata ai cambiamenti storici e sociali della Germania post-riunificazione. Sebbene il tema meriti un approfondimento specifico, si può almeno suggerire come la scena underground berlinese, con la sua libertà, anticonformismo e trasgressione dei limiti delle norme sociali e degli standard estetici convenzionali, sembri affascinare significativamente l’artista, rappresentando un terreno fertile di immagini, simboli e codici visivi – si pensi all’hypersexuality tipica di tali contesti – da cui attinge per rinnovare il proprio linguaggio, senza allontanarsi dai suoi interessi di ricerca iniziali.
Nel tempo, infatti, Bonvicini ha continuato, e continua tutt’ora, a impostare il proprio lavoro sulla messa in discussione delle strutture patriarcali, dei condizionamenti culturali della società e del ruolo maschile al suo interno, attraverso una riflessione che considera la centralità del corpo, sia individuale che collettivo, nello spazio architettonico. In questo senso, il discorso sembra essersi ampliato progressivamente dal quesito femminile alle dinamiche di potere in generale, rendendo il suo approccio sempre più rivolto a tutte le minoranze di genere, sessuali e di classe, in perfetto allineamento con i cambiamenti della società e con l’evoluzione del pensiero e delle teorie su questi temi.
Note
[1] Le pratiche artistiche delle donne negli anni Novanta, complice l’erronea convinzione che tali questioni siano ormai superate, tendono spesso a trascurare o a non esplicitare certe rivendicazioni femministe.
[2] Il frammento è stato tradotto dall’inglese da chi scrive.
[3] Sono tante le pubblicazioni sul tema di arte e femminismo, si ricordano: Chadwick, W., Women, Art, and Society, Thames and Hudson, Londra, 1990. Jones, A., Seeing Differently. A History and Theory of Identification in Visual Arts, Routledge, Londra – New York, 2012. Parker, R., Pollock, G., Old Mistresses: Women, Art and Ideology, Routledge & Kegan Paul, Londra, 1981. Pollock, G., Vision and Difference. Femininity, Feminism and the History of Art, Routledge, Londra – New York, 1988. Sul progetto Womanhouse si rimanda al capitolo dedicato in: Raven, A., Womanhouse, in Broude, N. and Garrard, M. D. (eds), The Power of Feminist Art: The American Movement of the 1970s, History and Impact, Harry N. Abrams, New York.
[4] Un esempio è Hayden D, The Grand Domestic Revolution: A History of Feminist Designs for American Homes, Neighborhoods, and Cities. MA: MIT Pres, Cambridge, 1981.
[5] In Italia, questo percorso appare più lento e complesso, e ancora oggi sembrano mancare studi che ne delineino le specificità. L’architettura, strettamente connessa alla vita quotidiana e agli spazi abitati, inizia a emergere come oggetto di riflessione nei circoli femministi, sebbene non in modo centrale. Si veda, a titolo di esempio, l’articolo: Lorenza Minoli, Maria Antonietta Aragonaottica femminile in architettura, “Effe”, maggio 1977. LINK
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Giulia Zompa (PhD) è una storica dell’arte contemporanea. Le sue ricerche si concentrano sulle pratiche artistiche della seconda metà del Novecento, con una particolare attenzione alla scena italiana degli anni Ottanta e Novanta. Nell’anno accademico 2022/2023, è stata Research Fellow presso il CIMA di New York. Attualmente collabora con il Dipartimento di Storia e Critica d’Arte dell’Università degli Studi di Milano e scrive per la rivista “Flash Art Italia”.