Introduzione
Hidden Histories prende vita a Roma sotto le questioni urgenti che interessano la società durante e post lockdown, consapevoli che la necessità di riappropriarsi dello spazio pubblico – in particolare del centro storico e di alcuni luoghi simbolo della città – si è fatta ancora più forte, così come il bisogno di tornare a incontrarsi fisicamente, attraverso i nostri corpi.
Da queste esigenze, insieme a Valerio Del Baglivo, abbiamo promosso una pratica curatoriale che intende il patrimonio pubblico – luoghi, monumenti, musei e collezioni – come elementi da cui partire per affrontare le urgenze del presente e per promuovere un approccio decoloniale alle nostre archeologie, così predominanti a Roma.
Le hidden histories non sono solo gli scarti che la storia ha lasciato fuori dalle narrazioni ideologiche ufficiali, le verità parziali; ma piuttosto i nuovi metodi di apprendimento e ricerca, i nuovi modi di fruizione e i nuovi approcci di lettura che determinano uno sforzo di ricostruzione del passato in maniera non univoca. Un passato che non ha avuto ancora vita, e che perciò non abbiamo ancora frequentato. E che dunque necessita di un metodo nuovo per essere articolato e rivisitato. Come fare dunque, a frequentare questo passato ancora non in essere?
I prossimi passaggi sono una narrazione di come abbiamo argomentato questa e molte altre questioni attraverso le pratiche degli artisti (performance, workshop, dibattiti) chiamati a intervenire per una ri-politicizzazione dello spazio pubblico e quindi della memoria collettiva.
Nel settembre 2020 abbiamo avviato una serie di sopralluoghi nelle quattro sedi del Museo Nazionale Romano – Palazzo Altemps, Palazzo Massimo, Crypta Balbi, Terme di Diocleziano – insieme al duo artistico Prinz Gholam, vincitore del premio Roma Villa Massimo 2020-21 e residenti all’Accademia Tedesca Roma Villa Massimo. In un pomeriggio caldissimo e insolitamente deserto per luoghi attraversati normalmente da centinaia di turisti, scorrevano davanti a noi i musei – e le opere in essi contenute – più celebri della storia dell’arte antica e moderna. Ma una città considerata museo a cielo aperto rivelava le sue contraddizioni proprio durante le nostre visite a Palazzo Massimo e alle Terme di Diocleziano, che sorgono nell’area limitrofa a Termini (infatti la stazione deve il nome proprio alle grandiosi Terme). Questa zona dell’Esquilino è contraddistinta dalla grande Piazza dei Cinquecento che commemora i caduti italiani della battaglia di Dogali, episodio di guerra coloniale in piena epoca liberale e, non molto lontano, il Monumento ai Caduti di Dogali si compone di un obelisco egizio, sottratto durante l’epoca imperiale romana e di un basamento dedicato “Agli Eroi di Dogali”, episodio della Guerra d’Eritrea in cui morirono i 500 soldati italiani.
Ci siamo aggirati dentro e fuori le sedi del Museo Nazionale Romano con l’inquietudine che gli abitanti di Roma ben conoscono, presi dalla vastità dei simboli, dei monumenti e delle opere che costituiscono la città, siamo stranieri e spesso in oblio davanti a un passato che si racconta per traiettorie univoche e che determina visivamente e spazialmente il nostro presente. Che cosa fare?
Durante l’ideazione di Hidden Histories abbiamo chiesto di entrare e di riappropriarci di luoghi come le quattro sedi del Museo Nazionale Romano, svuotate dai turisti durante la pandemia, e che custodiscono una collezione in cui la parola “Nazionale” deve sconfinare attraverso una pluralità di sguardi e di azioni finora inedite per questa storica istituzione.
Per la prima volta non eravamo visitatori ma una coscienza diversa nasceva dal fatto di avere fortemente cercato, e poi ottenuto, questi spazi per attivare la nostra ricerca. Un patrimonio fantasmagorico si è materializzato nella nostra contemporaneità e con lui il campo delle possibilità e delle contraddizioni legate al suo peso specifico.
1. My Heart Is A Poised Cithara
I Prinz Gholam hanno accettato l’affidamento di una ricerca critica su tale patrimonio in dialogo con le loro identità, i retaggi culturali e le proprie memorie, attraverso la pratica artistica che da questi elementi prende forma.
Spesso eseguiti in luoghi storicamente rilevanti, come musei o siti archeologici, le performance dei Prinz Gholam agiscono come una forma di mappatura attraverso il movimento, con l’intenzione di svelare come le nostre esistenze siano influenzate da processi di assimilazione culturale.
Gli artisti hanno ristretto il campo dell’indagine alla Sala delle Prospettive Dipinte di Palazzo Altemps, detta “dei gentiluomini”, una stanza affrescata con una serie di trompe-l’oeil composti da colonnati in prospettiva su cui si alternano paesaggi bucolici, scene di caccia e rovine archeologiche, putti e piccole balaustre secondo gli schemi decorativi consueti nel Cinquecento. Tra piccoli torsi di satiri, urne, rilievi con Dioscuri e la statua di Hermes, capeggiano due grandi statue di Ercole ed Esculapio, rispettivamente simboli di forza e di scienza. «Dentro lo spazio di Palazzo Altemps le sculture rappresentano le autorità mitologiche. Queste sculture sono prototipi di iconografie ripetute e copiate nel corso dei secoli. Sono simboli di guarigione, forza, bellezza, sono dèi di movimento e velocità. Nel tempo sono diventati fantasie e fantasmi che vengono utilizzati per insistere sulla continuità storica e su standard normativi. Hanno delineato società dall’aspetto simile, perché confermano la certezza di essere in discendenza diretta con qualcosa di eccezionale. Queste iconografie vengono riprodotte senza considerare la geografia, il tempo, la società e l’individuo. Edifici, colonne, torri, fiancheggiati da bellissime sculture. Qui giace il fascino di fantasie costruite.
Il nostro lavoro si manifesta consapevolmente e volutamente sotto l’influenza di questi canoni culturali. Nella performance la nostra attività fisica come due individui contemporanei genera stimoli psicologici e fisici. Solleva domande sull’età, sulla persona, sull’essere educati in un certo modo, sul contesto sociale, sulle origini geografiche o comunitarie.
Tutto ciò che abbiamo visto, tutto ciò che abbiamo memorizzato e interiorizzato viene trasformato tramite la presenza umana attraverso i gesti, i tempi e il suono» (Prinz Gholam). A partire da queste riflessioni i Prinz Gholam hanno dato vita alla loro performance My Heart Is A Poised Cithara (Il mio cuore è una cetra sospesa) di fine ottobre 2020.
Prinz Gholam. My Heart Is A Poised Cithara. Palazzo Altemps 2020. Foto Jacopo Tomassini
Poco prima della chiusura nazionale di tutti i musei e degli eventi dal vivo, nel bel mezzo della seconda ondata pandemica, abbiamo deciso di presentare questo lavoro per venti visitatori alla volta, rompendo la relazione fortissima che gli artisti instauravano con un pubblico spontaneo e occasionale durante i precedenti lavori. Distanti e immobili stavamo a guardare due figure ammutolite dalle maschere dipinte che indossavano, come se arrivassero da un passato misterioso in cui gli esseri viventi erano creature un po’ magiche e un po’ sperdute in mezzo a un mondo difficile da interpretare. Ercole ed Esculapio cadevano dai loro piedistalli per diventare mortali, trasformati nel genere, nell’età, nell’aspetto, ma soprattutto nella relazione tra di loro. Le pareti li inghiottivano dentro a quel mondo impossibile di paesaggi dipinti. Il tempo si materializzava nei lunghissimi e silenziosi gesti e negli spazi tra di loro, che davano vita a sequenze intime di chi non sa, ma riconosce, cosa farà l’altro.
Nella Sala delle Prospettive Dipinte, a fianco di sculture riprodotte canonicamente nel corso dei secoli, i loro gesti erano una critica fatta di somiglianze e profonde varianti che si dispiegano in tutte le possibili prospettive che assume il corpo, sia quello dei performer che delle statue. Il campo della somiglianza è stato al centro di una critica che non aveva per oggetto i canoni della statuaria maschile antica e nemmeno le forme egemoniche che tale patrimonio ancora ci trasmette, ma è stato nell’accogliere tali forme, tirandole dentro anche per verosimiglianze, che le differenze sono emerse in maniera evidente.
Una terza entità è stata attivata dalla relazione tra gli artisti, dalla memoria dei loro corpi in simbiosi da un ventennio, ma separati nella formazione culturale tra Occidente e Medio Oriente. In questo terzo paesaggio anatomico la porta è aperta all’intimità e alle memorie di chiunque stia guardando ed è in questo spazio che possiamo ritrovarci come collettività in apprendimento e anche in conflitto con il nostro passato storico-artistico.
Nelle sequenze dei Prinz Gholam l’altro è il proseguimento di una serie di gesti che nascono individualmente, la loro pratica è un costante avvicinamento/allontanamento in un ritmo di pose che si alternano e che spesso danno vita a immagini legate alla composizione pittorica e scultorea. Usciti dalla performance si ritrovava traccia delle sequenze di queste immagini già svanite e imprendibili in moltissime delle sculture e degli oggetti del museo, che è esattamente ciò che intendiamo per lavoro site-specific e critico sulle collezioni e lo spazio pubblico qui a Roma.
2.Gifts, Trades and Bargains. Cultural Diplomacy in the case of Brazilian Embassy at Palazzo Pamphilj
Palazzo Altemps, una delle quattro sedi del Museo Nazionale Romano, si trova non lontano da Piazza Navona, secondo luogo nella geografia di ricerca artistica di Hidden Histories. Attraverso il lavoro dell’artista brasiliano Beto Shwafaty, il laboratorio Gifts, Trades and Bargains- Cultural Diplomacy in the case of Brazilian Embassy at Palazzo Pamphilj, sostenuto da IILA (Organizzazione Internazionale Italo-Latino Americana), in collaborazione con NABA – Nuova Accademia di Belle Arti di Roma, ha coinvolto nel settembre 2020 un gruppo di studentie non solo, in un percorso di risignificazione dello storico Palazzo Pamphilj, progettato da Francesco Borromini insieme a Girolamo Rainaldi per Papa Innocenzo X e dal 1920 sede dell’Ambasciata Brasiliana in Italia.
Nella sua pratica, Shwafaty si concentra spesso sul modo in cui episodi storici possono lasciare tracce sulla cultura ed essere riecheggiati in oggetti, monumenti, spazi e strutture socio culturali, che di conseguenza producono significati e comportamenti condivisi. L’artista agisce utilizzando una vasta gamma di materiali e metodologie, come il pensiero curatoriale, le strategie di critica istituzionali, la ricerca archivistica per attivarli come elementi narrativi e prove che ci informano sui diversi aspetti del nostro tempo presente. Attraverso una pratica di investigazione, Palazzo Pamphilj è stato analizzato tramite un approccio decoloniale: quali rapporti economici, politici e sociali intercorrono tra l’Italia e il Brasile? Qual è il ruolo della cultura nei processi di rivisitazione e semplificazione della storia coloniale? In un paese come il Brasile, con forti flussi migratori italiani, cosa significa colonialismo culturale?
Grazie a queste domande inizia una sorta di “spy story” per dipanare un ingarbugliato intrigo di fonti, messaggi controversi e lacune che hanno regolato il passaggio di proprietà del prestigioso palazzo dallo Stato italiano a quello brasiliano.
Infatti nel 1960, quello che era un semplice contratto di locazione al governo brasiliano si sarebbe trasformato in contratto di vendita. L’opinione pubblica e la stampa manifestarono pareri contrastanti e si chiese allo Stato italiano di esercitare il diritto di prelazione. L’acquisto tanto discusso venne perfezionato tra ottobre e novembre del 1960 da parte del Governo brasiliano e l’allora Ambasciatore del Brasile Ugo Gouthier de Oliveira Gondim legò indissolubilmente il suo nome al vantaggioso acquisto del palazzo.
Davanti a Palazzo Pamphilj – impossibilitati a entrare in quanto il nostro laboratorio non era in linea con la programmazione culturale e gli obiettivi dell’ambasciata brasiliana, testuali parole dell’attaché culturale – abbiamo osservato, letto e commentato i caratteri formali, storici e politici dell’edificio che avevamo di fronte, in tutte le sue forme. La nostra attenzione si è focalizzata su quella porzione di “territorio” brasiliano coincidente con un simbolo del barocco italiano, diventato quindi un’evidenza delle interdipendenze tra Brasile e Italia, all’interno del più ampio ambito delle relazioni coloniali moderne, del concetto di propaganda di stato e di soft power.
Seguendo questa prospettiva, si è guardato all’edificio come ad un “dispositivo” che ha consentito l’emergere di diverse narrazioni e processi: accordi reciproci, progetti economici e culturali, eventi pubblici, campagne di propaganda; rintracciando gli aspetti della lunga tradizione diplomatica brasiliana all’estero, in particolare con l’Italia e nel contesto delle migrazioni italiane che hanno raggiunto il Brasile da fine Ottocento. Il gruppo ha costruito, attraverso un processo di raccolta dei simboli osservati e delle fonti raccolte, un archivio di storie possibili e impossibili sull’identità brasiliana in dialogo o imprigionata in uno dei più grandi edifici della storia moderna occidentale.
3.Hidden Histories dialogues – Agire lo spazio pubblico, pratiche artistiche decoloniali
A distanza di alcuni mesi da queste esperienze, abbiamo dato vita a un terzo episodio di indagine sullo spazio pubblico, Hidden Histories dialogues, con il sostegno di Ambasciata di Spagna in Italia, aprendo a un confronto tra le pratiche artistiche italiane, spagnole e latinoamericane in rapporto al permanere di simboli, architetture e storie che riguardano il passato coloniale e imperialista all’interno di molte città. Cosa significa adottare un approccio decoloniale in campo artistico? Come interagire con comunità che abitano informalmente lo spazio pubblico, in luoghi fragili che richiedono cura e presenza e che spesso sono lasciate ai margini delle storie ufficialmente riconosciute? Come recuperare e diffondere narrazioni storiche anti-egemoniche? L’artista e attivista Daniela Ortiz (Cusco, Perù) e il collettivo romano di architetti, attivisti, ricercatori Stalker (Giulia Fiocca, Lorenzo Romito) hanno riflettuto su queste questioni a partire dalle loro pratiche, proponendo due approcci artistici per ripoliticizzare la memoria storica attraverso interventi sul patrimonio pubblico (Alberani, Del Baglivo, 2020). Di seguito si propone un estratto di questo dialogo.
Daniela Ortiz: I monumenti non sono pietra morta, non sono materia inerte, ma vivono perché costantemente preservati, valorizzati, frequentati nello spazio urbano. Tra di loro alcuni presentano numerosi elementi coloniali che non solo arrivano dal passato, ma che vengono costruiti nel presente: monumenti, strade, edifici che rivendicano qual è l’interesse politico nel mantenere una narrativa egemonica, patriarcale, capitalista nello spazio pubblico. É una narrativa di potere sopra la storia, di supremazia coloniale che riceve protezione ancora oggi.
Assistiamo a una narrazione sulla fine del colonialismo attraverso i processi di indipendenza delle ex colonie, ma l’indipendenza dei Paesi del Sud globale non presuppone la fine dell’ordine coloniale ma una sua riformulazione attraverso il sistema degli stati nazione. Le politiche di controllo migratorio e di razzismo istituzionale si posizionano all’interno del territorio europeo; Fortress Europe è l’espulsione, l’illegittimizzazione e lo sfruttamento delle persone migranti che sussiste in tutti i paesi occidentali.
Questo atteggiamento coloniale non è evidente soltanto davanti ad alcuni monumenti, ma sussiste laddove si costruisce l’identità nazionale, un‘identità che ancora oggi rivendica il carattere imperiale e coloniale di molte nazioni Europee. Nel caso della Spagna, il passaporto nazionale raffigura l’itinerario e le caravelle con cui Cristoforo Colombo ha aperto le rotte coloniali verso le Americhe. La festa nazionale spagnola del 12 ottobre, il Columbus Day, coincide con la data di “scoperta del Nuovo Mondo”, il 12 ottobre del 1492, e lo rivendica come simbolo principale dell’identità spagnola.
Esistono 14 monumenti a Cristoforo Colombo, quello di Barcellona è stato costruito durante l’Esposizione Universale come un simbolo della città nel 1888. Nel basamento una persona indigena è raffigurata in ginocchio, a lato del sacerdote Fernando de Boyl, prostrata nel baciargli la mano, in segno di fedeltà e sottomissione. Questo messaggio, tangibile nel panorama urbano barcellonese, ricorda tutti i giorni a coloro che provengono dagli stessi territori del Sud globale che sono tenuti ad adottare la medesima posizione, in segno di integrazione alla cultura spagnola, entro la quale vivono. La richiesta di integrazione inizia con una violenta messa in discussione in senso negativo dei saperi, dei costumi e delle culture di provenienza delle ex colonie per finire – attraverso la struttura burocratica – nella concessione al diritto a non essere deportati e a poter risiedere in territorio europeo.
Che cosa fare con questo tipo di monumenti e di messaggio? Non credo che le azioni di critica o di spiegazione, come aggiungere targhe esplicative o altro siano sufficienti ad arginare la potenza di un monumento alto 60 metri come quello di Cristoforo Colombo a Barcellona che dà una forma alla rivendicazione coloniale. La mia posizione è netta, occorre un rovesciamento di simboli che sono inadatti a narrare la storia, ma impongono una forma univoca legata a un’ideologia in relazione alla storia coloniale e che la legittima nel presente.
La storia deve e può essere narrata con altre prospettive, pluriversali, e con altre espressioni. Non possiamo dimenticare che nel 1992 in Chiapas i manifestanti rovesciarono la statua del conquistatore Diego de Mazariegos, creando di fatto i presupposti per una liberazione sociale e politica che portò due anni più tardi all’insurrezione zapatista.
Lorenzo Romito (Stalker): L’Eur è il punto più consapevole di una pianificazione urbana verso il Mediterraneo e del ruolo universale di Roma. Questa proiezione, coloniale e razziale, impedisce la realizzazione del sogno universale, in quanto una città che ha sempre saputo includere, vuole instaurare il paradigma di universalità su un principio di esclusione, quello della razza. Questa contraddizione ne decreta la rovina, ancora prima di essere conclusa. Nell’EUR prende forma la proiezione della città astratta che cerca di essere un archetipo mediterraneo attraverso le nuove forme del razionalismo, dando vita ad una delle stagioni architettoniche più interessanti e forse è anche per questo che oggi è difficile decostruire quest’area. Ma come possiamo decolonizzare e reinventare la relazione fondamentale tra Roma e il Mediterraneo invece che nasconderla?
La pratica di Stalker mira a decostruire, a creare spazi di possibilità, a mettere in tensione la storia con il futuro, ma anche la mitologia e la capacità di rigenerare la città. Stalker, con il primo giro di Roma nel 1995, riconfigura una dualità originaria che lega alla città un alterego selvatico. Il selvatico è un tempo altro, come ricorda Michel Serres. Un tempo che non ha un progresso, che non vive nella storia e che adotta una concezione circolare sottraendo spazio al tempo progressivo e permette alla città di rinascere e anche quindi di saper cadere. Questa circolarità segna il fallimento delle proiezioni ideologiche ben visibili nelle politiche architettoniche che hanno caratterizzato gli ultimi 150 anni. La circolarità è presente nella metabolizzazione creativa delle sue rovine archeologiche e che la città selvatica ha sempre saputo animare. Investigare le storie rimosse, il ruolo rigeneratore della socialità informale che si è sviluppata fuori dagli schemi ideologici di questa città è la pratica che Stalker adotta per decostruire l’immaginario coloniale di Roma.
Giulia Fiocca (Stalker): Quando decidiamo di fare una lunga camminata in un’area di Roma c’è sempre la necessità di capire cosa sta succedendo in un luogo che non conosciamo. La nostra pratica è esplorativa, di inciampo, c’è qualcosa di inatteso e un’urgenza che ci spinge. Proporre queste camminate collettivamente, attraverso la Stalker Walking School prima, e la Scuola di Urbanesimo Nomade poi, è un modo per sciogliere la difficoltà di attraversare quei luoghi incerti grazie a una comunità. É una pratica di ascolto dei territori, delle persone che li abitano, una pratica lenta che innesca qualcosa e che non ne controlla il risultato. Per Stalker è importante unire la memoria dei luoghi e delle persone con quella attuale. Attualmente, attraverso il progetto della Zattera, stiamo costruendo un dispositivo di raccolta delle memorie di molte comunità che hanno contribuito alla trasformazione dello spazio pubblico della città, ma che sono state dimenticate o rimosse dalle narrazioni maggiori.
Ad esempio le storie dei guitti, braccianti nomadi dell’agro romano, la formazione dei borghetti, circa un centinaio a Roma dagli anni ‘30 e fino agli anni ’70 che accoglievano i primi sfollati dal centro storico, e i migranti dall’entroterra e dal Sud Italia. La loro condizione di baraccati porta a una coscienza politica e sociale, che dà l’avvio al processo politico di abolizione dei borghetti e di costruzione delle case popolari, fino alla nascita dei movimenti di lotta per la casa. Questi migranti restano classe subalterna, sono invisibili, ma hanno trasformato la città, come esperienza intima e dolorosa e di forte creazione delle comunità. Nel confine fragile tra visibile e invisibile l’autorialità deve venire meno per favorire una ricerca collettiva che porta a un approccio politico e sociale sullo spazio pubblico. La questione del riscatto e della memoria chiedono una legittimazione per chi è stato cancellato dalla storia e per contribuire alle urgenze di oggi, ma un certo tipo di visibilità è protetta da una posizione a margine, da un processo lento che richiede prima di tutto presenza.
In conclusione, Hidden Histories si pone come una piattaforma aperta e una pratica di utilizzo del patrimonio urbano per comporre – attraverso l’adesione di una molteplicità e diversificazione di istituzioni, spazi pubblici e collezioni – una geografia urbana che incontra le pratiche degli artisti chiamati a ripensarle. Sono pratiche nate a partire dai luoghi e dalle storie sociali, politiche e storiche che li hanno costruiti e in cui oggi si possono sperimentare una serie di azioni come laboratorio permanente sulle urgenze del presente.
Bibliografia
Alberani S., Del Baglivo V, Hidden Histories dialogues – Agire lo spazio pubblico, pratiche artistiche decoloniali, intervista a Daniela Ortiz e Stalker, 15/12/2020. Consultabile al link
Azoulay A., Potential History: Unlearning Imperialism, Verso Books, New York 2019
Bianchi R. & Scego I., Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città, Ediesse, Roma 2014
Byington E., Leone S., Russell S., Palazzo Pamphilj, Ambasciata del Brasile a Roma, Allemandi, Torino 2018
Centro Documentazione di Pistoia, 1971, Più classi differenziali, Pistoia 1971
Demos, T. J., Return to the Postcolony: Specters of Colonialism in Contemporary Art, Sternberg Press, Berlin 2013
Hasager M., Making Visible, Woodpecker Projects, Malmö 2015
Latimer Q., Szymczyk A., documenta14 – Set: Daybook & Reader, Prestel, London 2017
Palazzo Altemps. Le collezioni, Ediz. Illustrata, Mondadori – Electa, Milano, 2011
Pasolini P.P., Meditazione orale, Luca Sossella Editore, Bologna 2005
Prinz Gholam, Sweet Sun Speaking Similitude, Spector Books, Leipzig 2020
Serres M., Roma, il libro delle fondazioni, Hopefulmonster, Torino 1991
Tocci W., Roma come se. Alla ricerca del futuro per la capitale, Donzelli Editore, Roma 2020
Sara Alberani è storica dell’arte e curatrice indipendente di base a Roma. Laureata in storia dell’arte alla Sapienza di Roma, esprime la sua pratica curatoriale nelle socially engaged art practices e in progetti artistici in relazione con le comunità, tra cui attualmente documenta15 con la comunità di Trampoline House (Copenaghen). Insieme a Valerio del Baglivo nel 2020 ha fondato la piattaforma curatoriale LOCALES per la promozione di interventi site-specific nello spazio pubblico a partire dalla storia politica e sociale di luoghi simbolici della città e delle comunità che li abitano.