§Memorie di Famiglia
Hereditary e l’ereditarietà destinale.
La famiglia come luogo dell’impossibile nell’horror-dramma di Ari Aster.
di Elisa Sanzeri

Introduzione

La famiglia, come il destino, è qualcosa che non scegliamo ma che ci viene attribuito alla nascita, che, in una certa misura, ereditiamo. Come gli eroi tragici ereditano le loro nefaste sorti dai padri e sono costretti a fare i conti con il destino stabilito per loro, noi stessi, in quanto membri di una famiglia, in quanto figli, ereditiamo dai nostri altri più prossimi geni, caratteri e inclinazioni che ci rendono simili alle nostre madri e ai nostri padri, obbligandoci a riconoscere le profonde radici che ci saldano alla nostra discendenza. Sottrarsi alla condizione identitaria che abbiamo ereditato, alle iscrizioni stratificate dell’altro in noi, a ciò che è stato compiuto dalle generazioni precedenti o è rimasto da loro insoluto con la pretesa che noi lo compiamo, talvolta può essere tanto faticoso da risultare impossibile, come impossibile è per gli eroi tragici sfuggire a quanto è stato già scritto per loro, introducendo uno scarto in quella traccia deterministica predetta dagli oracoli.

L’esito tragico a cui giunge alla fine della sua storia Annie, la protagonista del lungometraggio d’esordio del regista e sceneggiatore americano Ari Aster, Hereditary (2018), rivela proprio questo, l’impossibilità di rifiutare le determinazioni che dalle nostre famiglie abbiamo ereditato, che ci rendono così come siamo segnando talvolta in maniera inequivocabile il nostro cammino. In Hereditary, infatti, eredità, destino e famiglia si intrecciano in una narrazione dal sapore tragico dove le scelte fatte da ascendenti lungo linee dinastiche assumono la forma delle conseguenze ineludibili che chiamiamo destino mentre i vincoli familiari divengono la traccia principale attraverso cui l’orrore viene tramandato. A tenere insieme destino e famiglia è proprio l’ereditarietà, tematizzazione manifesta sin dal titolo, di cui tuttavia, come mostreremo, il film realizza una particolare accezione discorsiva che orienta nei fatti la significazione globale di Hereditary e con essa l’immagine che della famiglia viene offerta. L’obiettivo che ci proponiamo in questa sede è proprio quello di disimplicare le articolazioni semantiche che soggiacciono alla rappresentazione della famiglia offerta dal lungometraggio, provando a sciogliere quella relazione profonda che collega la famiglia, l’ereditarietà e il destino.

La famiglia raccontata da Hereditary è quella dei Graham, di cui la pellicola segue le vicende familiari e sovrannaturali a seguito della morte dell’anziana e misteriosa Ellen, la madre di Annie, in vita dedita a pratiche occulte e morbosamente legata alla nipote Charlie, la secondogenita della figlia. Quando Ellen muore, intorno ad Annie, al marito e ai due figli, iniziano a verificarsi eventi straordinari e oscuri che raggiungono un primo picco con la morte inaspettata e raccapricciante di Charlie. Nonostante gli innumerevoli indizi, passati e presenti, le suggeriscano la presenza di forze oscure all’opera, Annie, mossa dal desiderio di ricontattare la figlia scomparsa, conduce una seduta spiritica sotto consiglio della nuova e ambigua amica Joan conosciuta presso un gruppo di supporto. Quando ormai è chiaro che con la seduta medianica qualcosa di molto più oscuro che la sola Charlie è stato risvegliato e che la vita del primogenito, il figlio Peter, è a repentaglio, Annie scopre gli oscuri e terrificanti segreti della madre che, a capo di una setta votata alla reincarnazione di un demone infernale, Paimon, ha incatenato lei e la sua famiglia al destino tragico e dal carattere ereditario con cui si trova costretta a fare i conti.

 

Eredità e destino

Un titolo, è noto, non ha solo il compito di designare un testo, rendendolo presente in quanto oggetto del mondo, ma è capace di nominare l’intero universo immaginario che entro quel testo si allestisce, il suo contenuto. Un titolo si presenta infatti come l’estrema condensazione del testo a cui fa riferimento, dal quale seleziona uno o più elementi semantici (Panosetti 2015), mettendo in evidenza la loro rilevanza e fornendo delle informazioni sul tema centrale del testo. Questo è il caso di Hereditary, il cui titolo si fa già portavoce di uno dei temi portanti del film, l’ereditarietà.

Nel film di Aster possiamo infatti rintracciare l’/ereditarietà/ come una delle principali sceneggiature standardizzate astratte, che possiamo definire in termini generici come “trasmissione di oggetti di varia natura ai discendenti”. Ad essere ereditari ed ereditati in Hereditary sono una serie differente di figure del mondo che ci confermano l’estensione e la rilevanza dell’isotopia tematica. L’ereditarietà riguarda ad esempio il male che, come un morbo, nella forma di disturbi psichici, ha infettato, passando da una generazione all’altra, i genitori di Annie e il fratello. Ma la pellicola suggerisce anche che questo male psichico trasmesso per via ereditaria possa aver colpito la stessa Annie, di cui l’enunciatore mette in dubbio la stabilità psichica, e con lei la figlia Charlie, intorno alla quale fa invece ruotare una serie di simbolismi culturalmente definiti, come quello che collega le difformità corporee a condizioni cognitive-psicologiche alterate. L’ereditarietà si concretizza poi in tutto quell’insieme di beni materiali che Ellen ha lasciato alla figlia, conservati negli scatoloni – come i libri sullo spiritismo, gli album di famiglia e uno strano bigliettino che parla di cose non dette, perdite e sacrifici – o che porta addosso, come il simbolo di Paimon che, sotto forma di ciondolo, troviamo al collo delle due donne. Ma anche la dote artistica-artigianale di Annie, che di professione fa la miniaturista, ha un qualcosa di ereditario che Charlie, appassionata di disegno e vero e proprio bricoleur nel realizzare fantocci, ha preso dalla madre e che in principio Ellen ha trasmesso ad Annie, vista la maestria della donna nella realizzazione di zerbini ricamati. Al di fuori del nucleo familiare, Joan e gli altri discepoli della setta di Ellen ereditano la missione di quella che nell’epilogo scopriamo essere stata la Regina Leigh, e rappresentano quindi i continuatori della sua dottrina. Mentre, ritornando ai legami di sangue, alla fine della storia Charlie, incarnata nel corpo di Peter e nominata come Re Paimon, prende il posto della nonna come figura centrale all’interno della setta, succedendo ad Ellen come in una monarchia ereditaria.

Si vede dunque come l’/ereditarietà/ sia un sema ampiamente ricorrente, significazione tematica che il testo prova ad attualizzare servendosi di un numero considerevole di elementi. Sulla sua natura si dovrà però tornare alla fine, anche alla luce di un’altra ridondanza semica altrettanto essenziale, pregnante e saliente, attraverso cui pare possibile individuare la particolare accezione discorsiva che la realizza. L’isotopia a cui facciamo riferimento è quella del /destino/ e, per affrontarla, possiamo partire da un elemento di superficie quale può essere la convocazione esplicita della figura classica di Eracle. In una delle scene iniziali del film assistiamo alla lezione del professore di letteratura di Peter che verte sulla figura di Eracle, esplorata a partire dall’idea che l’eroe tragico sia tale perché colpito nel suo punto debole. Nel caso di Eracle si tratta dell’arroganza, in quanto l’eroe si rifiuta di dare ascolto ai segnali che gli vengono mandati credendo di avere il controllo sulla propria vita. Tuttavia, sono proprio le scelte di Eracle, in qualche misura obbligate, a condurlo verso la sua fine tragica, fine che l’oracolo aveva già predetto. Il destino del semidio era già stato scritto e ciò rende ogni sua scelta inevitabile. Così, nella tragedia non esiste la libertà di scelta e sebbene possa apparire possibile un cambio di rotta, di fatto si tratta di una pura illusione: l’esistenza è priva di speranza e l’eroe, come ogni uomo, non è altro che una pedina nelle mani del destino.

L’interpretazione fornita dal film sugli eventi tragici che colpiscono Eracle permette di ricostruire un parallelismo tra il semidio e la protagonista di Hereditary. Il riferimento intertestuale consente di estendere all’attore principale del film gran parte delle determinazioni tematico-passionali riferite all’eroe e di fornire una lettura tragica della storia. Annie, come Eracle, non è in grado di accogliere tutti quegli indizi che le permetterebbero di capire cosa sta avvenendo intorno a lei, come le strane morti del padre e del fratello o il bigliettino lasciatole dalla madre. Crede, come l’eroe greco, di avere il controllo della sua vita, controllo che esprime nelle sue miniature ed esercita sui figli, dando mostra così di arroganza, la quale si traduce in un particolare atteggiamento egoico che caratterizza la protagonista, concentrata su sé stessa, convinta di operare sempre nel bene e di tenere tra le dita la vita e la morte degli altri. Tuttavia, nonostante siano evidenti in Annie i segni di arroganza, non è solo questa a renderla cieca; piuttosto, la cecità di Annie sembra avere a che fare anche con i rapporti di sangue e affettivi che la legano alla madre e ai figli. Il punto debole della protagonista non è quindi come in Eracle solo l’arroganza, bensì anche l’amore, quel vincolo che non le permette di tenere lontana Ellen e di sacrificare i figli per non consentire che il peggio avvenga. È nel connubio tra arroganza e amore, nel connubio tra la tensione egoica e quella altruistica di Annie che si espleta il suo dramma e si realizza l’orrore.

Il destino della famiglia Graham si compie dunque perché fa leva sull’impossibilità di Annie di eseguire l’unica azione possibile per contrastare il progetto di Ellen, quel sacrificio che in sogno e nei momenti di sonnambulismo il suo subconscio è pronto a realizzare ma che la donna, consapevolmente, non compirebbe mai e che di fatto non compie. Quindi, proprio per il suo essere così com’è, Annie non potrà che lasciare che il loro destino si realizzi. Allora la libertà di scelta, anche in questo caso, è solo apparente e i membri della famiglia Graham sono senza speranza, pedine manovrate dal destino, come Joan fa con Annie, manovrandola fino a spingerla all’inevitabile, e come, d’altra parte, fa la stessa Annie con i fantocci che popolano le sue miniature.

Diventa evidente che ciò che i Graham ereditano non sono soltanto il patrimonio genetico, i beni, le capacità o il diritto di successione dinastica, ma anche e soprattutto le conseguenze di alcune scelte fatte dagli ascendenti, prima fra tutte la volontà di Ellen di incarnare il Principe degli Inferi in uno dei suoi parenti. D’altronde, laddove l’esistenza apre ad un orizzonte di possibilità, una scelta presa le riduce all’uno dando luogo a quelle conseguenze ineludibili che chiamiamo destino. Tali conseguenze, nel nostro caso specifico, oltrepassano la vita del singolo che le ha causate ramificandosi in ogni suo discendente. In questo senso le vicende narrate possono esser viste come una spirale di eventi inevitabili che trovano la loro radice nella capostipite Ellen, a partire da cui l’eredità tragica che ha la forma del destino può esser tramandata.

foto di Reid Chavis, concessa da Elevation Pictures

Segreti in mostra

Nella sua interezza il film di Aster porta avanti, proprio a partire dall’isotopia del destino, l’opposizione tra forze operanti e inoperatività delle proprie iniziative. Infatti, per quanto Annie provi a svincolare sé e la sua famiglia dalla sorte a cui la madre li ha condannati, nessuna sua azione o scelta è mai decisiva e lei e la sua famiglia non potranno che assecondare il volere di Ellen, portando a termine il rituale di reincarnazione. Dall’altra parte, tutto intorno ai Graham opera affinché questo rituale abbia luogo ed è proprio la sceneggiatura del complotto — garantita da una serie di figure che aleggiano intorno ai Graham, eventi ambigui che li colpiscono e alcune scelte enunciative singolari — a restituire come effetto di senso l’incombere di un destino fatale e l’impossibilità di sfuggirgli. La trama, in altre parole, è alimentata da un susseguirsi di eventi sinistri e suggestioni malefiche che fanno sospettare la presenza di forze oscure, di burattinai che tirano le fila delle vicende. La famiglia Graham è vittima di piano diabolico orchestrato e portato avanti da chi è a loro più vicino, rispetto al quale sembrano essere all’oscuro e così destinati a cadere nei tranelli che i discepoli di Ellen hanno architettato per loro.

Sembra dunque che l’intera storia si fondi su quelle due principali operazioni di veridizione che la semiotica greimasiana, attraverso il quadrato della veridizione che articola essere (immanenza) e sembrare (manifestazione) (Cfr. Greimas Courtés 1979), indica come Menzogna (sembrare + non-essere) e Segreto (non-sembrare + essere): il segreto è quello di Ellen, che ha taciuto alla figlia l’obiettivo che ha mosso la sua intera esistenza con inevitabili ripercussioni su quella dei suoi discendenti, ovverosia riportare nel mondo dei vivi il Re degli Inferi; la menzogna è quella di Joan, che ha dissimulato il suo legame con Ellen e, fingendosi amica di Annie, l’ha portata ad invocare il demone. Queste operazioni, che mettono in gioco uno scarto tra ciò che si presenta sul piano della manifestazione e il suo status a livello dell’immanenza, paiono quindi definire le situazioni in cui gli attori sono stati coinvolti fino a quasi trenta minuti dai titoli di coda, quando la menzogna di Joan viene da Annie smascherata e il segreto di Ellen svelato.

Ora, il riconoscimento tardivo da parte di Annie di menzogne e segreti la fa apparire, diremmo in termini semiotici, come un soggetto incompetente, ovvero privo di modalità essenziali, sprovvisto nel caso specifico di un sapere circa le trame della madre entro le quali anche la menzogna di Joan trova posto. Tuttavia, la presenza costante di indizi che avrebbe potuto cogliere ma non ha colto, in linea con l’omologia ricostruita tra il nostro eroe e l’eroe greco, ci fa pensare che le cose siano leggermente diverse rispetto a quanto appaiono a prima vista. È quindi necessario insistere ancora un po’ sulla figura del segreto per ripensarla non tanto nei termini del quadrato della veridizione, bensì in campo comunicativo, seguendo i suggerimenti di Volli (2020).

Infatti, benché in ambito semiotico il segreto si definisca, come visto, come l’unione di essere e non-apparire, come sostiene Volli, un segreto, per essere tale, deve non solo non apparire per quel che è, ma anche essere comunicabile e conoscibile, nonché rilevante e noto a chi lo tiene nascosto. A queste condizioni, necessarie affinché si possa parlare di segreto, bisogna aggiungerne tuttavia un’ulteriore. Il segreto infatti richiede che chi lo detiene non debba o voglia farlo conoscere e diffondere. In questo senso, esso prevede una dimensione deontica e volitiva che funziona come struttura semiotica di base sintetizzabile nella formula volere/dovere non far sapere, opposta alla configurazione modale volere/dovere far sapere a cui Volli associa la comunicazione. Il segreto, dunque, nella lettura di Volli, si oppone in termini contrari alla comunicazione e si fonda sull’atto di “sottrarre qualcosa alla comunicazione” (ivi, p. 23).

Così, possiamo dire che la moltitudine di segni e indizi che appaiono alla vista di Annie segnala la violazione di una condizione necessaria affinché si possa parlare di segreto, ovvero la disgiunzione enunciativa, visiva nel nostro caso specifico. Allora può esser utile ripensare a quanto detto indagando le modalizzazioni del Soggetto-Annie a partire dalle disposizioni volitive di tipo scopico. Facendo ricorso ai regimi di visibilità individuati da Landowski (1989), possiamo mettere in relazione il nostro soggetto con tutti quei segni che gli vengono inviati, considerando quest’ultimi come soggetti visti ed Annie come soggetto del vedere.

Piccoli e sparsi – come le scritte sulla carta da parati – fugaci e perpetui – come gli incubi notturni – insoliti e oscuri – come il bigliettino di Ellen, i segnali che Annie incontra lungo la pellicola sono tanto ricorrenti e pervasivi da finire per darsi a vedere, per quanto sembrino voler rimanere celati. Detto altrimenti, è proprio il loro farsi minuscoli, fuggevoli ed enigmatici davanti agli occhi di Annie che li rende palesi, ostentati, evidenti, producendo come effetto non l’espressione di un voler non esser visti, ma l’affermazione del termine contrario, il voler esser visti. I segni paiono, infatti, ostentare la loro presenza, senza temere di rivelare così il segreto di cui si fanno messaggeri, quasi pretendendo di esser colti da chi è lì al loro cospetto, aspettandosi che quest’ultimo eserciti quel fare interpretativo che permetta di accostare loro il giusto status di immanenza. I segni, in altre parole, mostrandosi, comunicano qualcosa di quel segreto, se tale ancora lo possiamo definire, o meglio lo indicano, lo accennano, portando avanti un discorso indiretto ed enigmatico che esige, per esser colto e disimplicato, un destinatario competente, qualificato, un qualcuno che in qualche modo già sappia.

Per quando riguarda Annie, più volte abbiamo detto che, come Eracle, si rifiuta di vedere. La modalità che esprime questo rifiuto è quella del voler non vedere, secondo cui quindi il nostro soggetto è modalizzato. Ciò non significa che Annie non eserciti il senso della vista, anzi il suo sguardo si pone più volte sui segni che le si parano davanti. È come se, benché avesse la capacità di soffermare i suoi occhi sugli indizi che si ostentano celandosi, non possedesse quella di conferire un senso a ciò che è oggetto del suo sguardo. Per scoprire cosa si cela al di sotto del rifiuto a vedere di Annie, può esserci d’aiuto a questo punto una specifica di Landowski (1989) relativa alla posizione in cui convergono le modalità dei due soggetti individuate, rintracciabile all’interno del quadrato di combinazioni di giochi ottici che esprimono degli antagonismi. A questo proposito Landowski evidenzia come il soggetto visto assuma lo status di antivalore per il soggetto del vedere il quale finisce per configurarsi come quella vittima che non può sottrarsi allo spettacolo dell’altro. È proprio questa la situazione che caratterizza la relazione tra Annie e i segni: per quanto Annie non voglia, è costretta a subirne la vista. In termini modali potremmo descrivere tale condizione come quella di un conflitto dato dall’incrocio tra il volere e il potere: Annie da una parte non può non vedere (costrizione) ma dall’altra vuole non vedere (rifiuto), conflitto che lungo la pellicola si esprime nella forma di una resistenza all’obbligo.

Lo statuto di antivalore che Landowski associa al soggetto visto sembra allora indicarci la strada giusta per interpretare i fatti, rintracciando così la condizione modale che sta alla base del rifiuto a vedere perpetuato da Annie. Si tratta della competenza volitiva-epistemica di Annie, la quale spiega la mancata decifrazione degli indizi che è obbligata a vedere. Annie può essere infatti identificata come un soggetto del non voler credere, una modalità tanto radicata da non venir modificata da quanto si rende manifesto. Annie, infatti, non vuole credere al biglietto della madre, ai simboli esoterici che appaiono in casa e agli strani eventi che hanno luogo dopo la sua morte, né vuole credere che Joan conosca Ellen nonostante ne sia prova il suo zerbino, così simile a quelli un tempo realizzati dalla madre. Il voler non vedere non è altro allora che il frutto della decisione più profonda presa da Annie che riposa su questa declinazione epistemica del voler fare, ossia sul suo non voler credere. Così, possiamo dire senza alcuna insicurezza che la protagonista non sia mai stata priva del sapere ma che anzi abbia sempre saputo, sia sempre stata un soggetto qualificato per interpretare quel discorso accennato ed enigmatico prodotto dai segni ostentati. Annie, in fin dei conti, non vuole credere a tutte quelle verità, a quei saperi che nasconde nel profondo della sua coscienza. Gli innumerevoli diorami sembrano proprio esprimere il tentativo di Annie di evitare le verità che in cuor suo sa ma a cui non vuole credere, luogo in cui le evidenze e i saperi che si vogliono ignorare possono essere rimpiccioliti fino a diventare quasi invisibili e lì racchiusi come nascosti in soffitta.

Ereditarietà destinale

Proprio su alcune miniature varrebbe allora la pena soffermarsi nel tentativo di mostrare come esse rappresentino quel luogo destinato a custodire quanto Annie non è pronta a riconoscere. Ciascuna di esse meriterebbe tuttavia una disamina più ampia di quella che possiamo fornire in questa sede, motivo per cui rinviamo a trattazioni successive la loro analisi. Ciononostante, riteniamo che tra le tante presenti ce ne sia una che non possiamo non analizzare. Essa permette di mostrare non solo come nell’opera artistica di Annie vengano simbolizzati contenuti che la sua mente conscia rifiuta, relegandoli al subconscio artistico, ma anche come i diorami della protagonista funzionino come una sorta di porta stretta, minuscola per definizione, attraverso cui accedere ad alcuni significati globali di Hereditary. I diorami di Annie si costruiscono infatti all’interno della pellicola come figure discorsive di una molteplicità di contenuti puntuali e testi nel testo, forme di traduzione intersemiotica di alcune porzioni testuali entro le quali diverse dinamiche significative si condensano.

È sotto questa prospettiva che quindi ci sembra proficuo e interessante osservare un diorama come quello di figura 1, posizionato all’ingresso di casa Graham, su cui la macchina da presa, con un movimento semicircolare dal basso verso l’alto, si sofferma a circa metà del film. Sommariamente la miniatura rappresenta tre abitazioni di epoca diversa e differenti gradi di deterioramento che sprofondano sottoterra. Nel complesso il diorama prevede, grazie alla disposizione delle diverse abitazioni a cumulo e un restringimento nella parte inferiore, una direzionalità di lettura che va dall’alto verso il basso e uno sviluppo graduale distensivo tanto di dinamicità quanto di pesantezza. In cima troviamo una casa moderna, fotografata nel bel mezzo del suo processo di assorbimento nel sottosuolo. Più in basso, distanziata da qualche centimetro di terra, c’è un’abitazione in stile vittoriano, già inglobata all’interno del terreno ma che non ha ancora terminato la sua discesa, come suggerisce la sua posizione obliqua. Segue infine, con poca distanza dalla precedente, una casa in stile coloniale che funge da base per l’intera costruzione, sorta di monolite, statico, compatto e pesante, rispetto al quale non è percepibile alcuna dinamicità.

Il susseguirsi delle tre abitazioni con stili architettonici di diverse epoche suggerisce non solo il trascorrere del tempo ma più nello specifico il seguitarsi di tre età, di tre generazioni, in cui l’una non prende semplicemente il posto dell’altra come a sostituirla, ma si inscrive e si inserisce all’interno della catena generazionale e pare destinata a seguire il percorso in discesa tracciato dalle abitazioni precedenti. Il succedersi, come indica la disposizione topologica e la costruzione vettoriale che ne deriva, non è piano, orizzontale, ma ripido e scosceso, verticale, di una verticalità discendente che garantisce l’emersione di un generale effetto di decadimento prodotto dal diorama e condiviso con la pellicola. Si tratta, dunque, della rappresentazione di un deposito stratificato di segni, una sedimentazione progressiva di tracce impresse nel terreno il cui fondo, costituito dalla casa in stile coloniale, rappresenta non solo il fondamento, il primo strato, ma anche la matrice e il principio di tutto, quell’elemento da cui si origina la catena e con essa il processo di assorbimento nel sottosuolo. Da quanto sta alla base si viene risucchiati, costretti a seguire il tracciato compiuto da altri.

Il diorama, è chiaro, è la messa in forma della sensazione di impotenza e decadimento che la stessa Annie, come mostra il film, riconduce alla figura della madre ed entra in stretta relazione con le due isotopie principali che abbiamo rintracciato, quella del destino e quella dell’ereditarietà, fungendo di fatto da connettore isotopico. Lontano però dall’essere semplice figura discorsiva dell’una e dell’altra isotopia, ci sembra che tale diorama funzioni da dispositivo simbolico entro cui si condensa la configurazione profonda e generale che tiene insieme ereditarietà e destino, o meglio che chiarisce, alla luce del destino, di che ereditarietà Hereditary parli e, di conseguenza, che immagine della famiglia venga prodotta.

Alla fine di questo percorso, alla luce del diorama, di quanto detto sul destino e sull’eredità e sulla relazione oppositiva tra l’ostentazione dei segni e il rifiuto a riconoscerli perpetuato dall’eroina, possiamo infatti dire che in Hereditary non si tratti semplicemente di ereditare un destino né che il film possa essere ridotto ad un racconto tragico sull’impossibilità di affrancarsi da una sorte già segnata. Infatti, quella di Hereditary è piuttosto e soprattutto una storia centrata sull’impossibilità di abiurare la propria eredità, di negare, dimenticare, sotterrare l’eredità che l’Altro ha consegnato e di cui, entro la catena generazionale, ci si fa tramite. Questa eredità assume all’interno della significazione della pellicola un carattere squisitamente destinale, di modo che il destino si faccia immagine dell’ereditarietà tematizzata dalla pellicola.

La famiglia, spazio immateriale intessuto da legami, da quei vincoli che uniscono e saldano insieme più soggetti attraverso cui ogni eredità può essere trasmessa, si configura in Hereditary come il luogo dell’impossibilità, luogo in cui si viene privati di ogni possibilità propria, spogliati della libertà di scelta e destinati a quell’impotenza sancita dalla fine tragica della pellicola. È questo in fin dei conti il messaggio del film. Ciò che ogni famiglia lascia in eredità a chi succede, ciò che i genitori trasmettono ai figli e che a loro volta hanno ricevuto da chi li ha generati, non sono altro che determinazioni, limiti alla presunta libertà assoluta che ogni individuo dovrebbe possedere. Nascere in una certa famiglia, d’altra parte, comporta sempre un’eredità che si traduce nella forma del corpo, nelle qualità e nei difetti, nei talenti, nei beni materiali e immateriali e nei compiti che siamo tenuti a portare a termine per chi ci ha preceduti. Queste eredità ricevute, nel bene o nel male, tracciano sempre in un modo o nell’altro il nostro destino, scrivono sempre per noi un percorso da cui talvolta sembra impossibile deviare. Hereditary porta all’estreme conseguenze questa idea mostrando non solo come ciò che l’Altro ha depositato in noi, l’eredità che ci ha consegnato, può pesare tanto da trascinarci in un buco nero, fino in fondo alle radici, ma anche come all’interno di un nucleo familiare ogni scelta che l’Altro compie per noi può condurci in una strada senza uscita. Scelta dopo scelta, incrocio dopo incrocio, siamo direzionati infine verso un’unica meta, instradati in un’unica via che conduce in un punto specifico, quell’esatto punto che rappresenta il nostro destino.

Bibliografia

Greimas A. J., Courtès J., (1979), Sémiotique. Dictionaire raisonné de la theorie du langage, Paris, Hachette; trad it Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Mondadori, Milano, 2007.

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Landowski E., (1989) La Société réfléchie. Essais de socio-sémiotique, Seuil, Paris; trad. it. La società riflessa, Meltemi, Roma 1999.

Volli U., Figure della reticenza. Riservatezza, segreto, pudore, privacy, silenzio, sacro, storytelling, in «Versus», 1/2020 gennaio-giugno, pp. 19-32.

Elisa Sanzeri – Laureata triennale in Scienze della Comunicazione per le culture e le arti all’Università degli studi di Palermo con una tesi in Semiotica della comunicazione di marca e laureata magistrale in Semiotica all’Università di Bologna con una tesi in Etnosemiotica sulle rappresentazioni dell’Alterità familiare e le dinamiche di interazione entro i nuclei familiari fondate sulla Cura e la Violenza.