«Distruggere ringiovanisce».
Sui muri di alcune città italiane negli ultimi anni è comparsa, nottetempo, una scritta atipica. Il tratto della bomboletta spray, la scrittura semplice e grezza la riconducono immediatamente agli «atti vandalici» di cui spesso le cronache tratteggiano l’inciviltà e maleducazione.
La frase pare immediatamente riprovevole al cittadino distratto che compra frutta a buon mercato nel vicino alimentari, lo muove a condannarla come espressione di fanatismo violento, di una ignorante rabbia distruttrice. In essa vede l’esplicarsi di una giovanile rabbia nichilista, forse eco ed epigone di qualche movimento degli anni ’70. La A cerchiata che le accompagna rimanda alla chiara matrice anarchica, riconducendo il lettore alla narrazione istituzionale e al personaggio giornalistico dell’anarchico violento, colpevole sulle testate giornalistiche di reati quali «devastazione» e «saccheggio», spesso associati dalla giurisprudenza alle azioni di piazza o sediziose– in particolare di carattere insurrezionale. Le modalità violente tipiche di questo tipo di movimenti sono recisamente condannate da ogni istituzione così come da ogni buon membro della società civile e da alcuni movimenti stessi. Così di fronte ad un’affermazione forte come distruggere ringiovanisce in pochi non hanno un sussulto, urtati nella loro educazione.
Chi però si soffermasse a pensare a questa scritta scoprirebbe che essa, nella sua formulazione, non è cieca espressione di una rabbia distruttrice, e che la sua origine non ha a che fare con i movimenti degli anni ’70. Proviene invece dagli anni ’30 del secolo passato, più precisamente venne scritta nel 1931. Si tratta del frammento di una citazione che rimanda il lettore ad una delle più importanti riflessioni intorno alla violenza sviluppate dalla filosofia contemporanea: queste due parole provengono dal noto saggio Il carattere distruttivo di Walter Benjamin.
Il testo di dell’autore berlinese, verticalizzato su di un muro dopo essere stato coricato in una pagina, riporta ad una riflessione complessa che può spingere il lettore a interrogarsi profondamente sullo statuto della violenza, a interrompere una lettura semplicistica dei conflitti e a valutare di nuovo le parti in causa.
Il carattere distruttivo «è giovane e allegro» ci dice Benjamin, ma in questa giovinezza giace un problema che ha a che fare con l’antico e con il tempo. «Distruggere infatti ringiovanisce, perché toglie di mezzo le tracce della nostra vecchiaia», (Benjamin 2019, p. 178) la distruzione non è quindi una semplice eliminazione, essa è la capacità di valutare il mondo in base alla sua «dignità di essere distrutto» (Benjamin 2019, p.178), e così aprire fra le rovine infinite strade, eliminando al contempo le tracce del percorso così come le tracce della distruzione stessa. Il carattere distruttivo è in grado non tanto di disintegrare le cose bensì di tramandarle come situazioni, non più nella loro rigidità e nella necessità della conservazione, ma nella loro possibilità di essere maneggiate e liquidate. (cfr. Benjamin 2019, p.179)
Uno dei temi profondi che attraversa questo scritto è quello della relazione fra la distruzione e la creazione, ma per comprendere appieno questo concetto bisogna ritornare su di un testo precedente di dieci anni ed altrettanto interessante di Benjamin, Per la critica della violenza. Attraverso questo percorso si cercherà di comprendere come la nozione di distruzione che è contenuta in questa citazione sia ben lontana da quella intesa dalla giurisprudenza e punita in quanto associata alla violenza.
Il testo Zur Kritick der Gewalt è stato origine di molteplici riflessioni nel corso della seconda metà del Novecento: Derrida, Arendt e in tempi più recenti Butler fra gli altri si sono interrogati sul grande portato di questo complesso testo. In questa sede si vuole solamente ripercorrerlo, cercando di fornire uno spunto che, a partire da un elemento grafico incontrato per la via, possa condurre alle porte di una strada capace di far pensare la violenza oltre le sue classiche distinzioni, forse anche oltre i rapporti di potere che ad essa soggiacciono. Se infatti ci pare evidente la necessità di contestualizzarla entro dei processi di disparità di potere, e così riflettere sulla legittimità o meno della sanzione della violenza, con Benjamin possiamo spostare l’attenzione sul piano dei mezzi ed interrogarci sul loro statuto, oltrepassando la sua stessa grammatica.
Il primo scarto che ci invita a fare Benjamin è quello di spostare l’attenzione da un piano di valutazione della violenza di tipo giusnaturalistico, volto a valutare i mezzi sulla base della giustizia o meno dei fini, verso un piano nel quale sia la violenza in quanto mezzo ad essere sottoposta a critica, prescindendo dai suoi fini (Benjamin 2019, p. 49). Prendendo in considerazione questa prospettiva si può considerare la distinzione fra violenza «sanzionata» e violenza «non sanzionata» (Benjamin 2019, p. 51), ovvero fra violenza di Stato e violenza condannata dallo Stato, fuoriuscendo da una posizione ingenua secondo la quale sarebbe la giustizia del fine superiore interpretato dallo Stato a garantire la giustizia della sanzione della violenza. Il problema infatti non risiede in una sanzione dell’utilizzo della violenza contrario ai fini giuridici, bensì proprio nella condanna della violenza come mezzo nei soggetti che non afferiscono allo Stato. La sua stessa esistenza è infatti deleteria per la conservazione del diritto.
Perché dunque viene sancita la violenza, se non per tutelare i fini giuridici dello Stato come collettività? «bisognerà forse prendere in considerazione la sorprendente possibilità che l’interesse del diritto alla monopolizzazione della violenza rispetto alla persona singola non si spieghi a partire dal proposito di salvaguardare i fini giuridici, ma piuttosto il diritto stesso» (Benjamin 2019, p. 53). La sanzione, morale e legale, della violenza da parte dello Stato non è quindi da considerarsi come fondata su base etica, non su di una valutazione dei fini positivi o negativi di essa, al contrario qui il punto focale diviene il terrore del diritto rispetto alla riproposizione della sua stessa dinamica affermativa, rivoltaglisi ora contro. Il diritto si fonda proprio su di un esercizio di violenza «che pone il diritto», che insieme a quella che «mantiene il diritto» è una delle due forme possibili della violenza.
Lo Stato, per Benjamin, deve essere inteso come storicamente dato entro dei rapporti di forza e fondato su di un esercizio della violenza capace di sottrarre il terreno di sotto ad una organizzazione giuridica e di potere precedente. Si tratta di una Gewalt che diviene legittimo potere laddove sopravanza la precedente configurazione attraverso l’esercizio della violenza, accaparrandosi dunque il monopolio del suo esercizio. Vediamo quindi che, se si vuole avere una comprensione chiara di cosa sia violenza – e soprattutto di cosa non lo sia – è necessario cercare di analizzarne l’utilizzo onde mostrare laddove essa si manifesti nelle sue caratteristiche di «porre» o «conservare» il diritto.
Benjamin ritrova il luogo nel quale si può vedere con maggior precisione questo duplice aspetto della violenza nel diritto di sciopero concesso negli stati contemporanei: «i lavoratori organizzati sono difatti oggi, accanto agli Stati, l’unico soggetto giuridico a cui spetti un diritto alla violenza». Seppur paia paradossale dare allo sciopero una connotazione violenta, in quanto parrebbe che in esso si dia invece la possibilità di sottrarsi alla violenza iniqua del datore di lavoro, ciò deriva per Benjamin dalla disponibilità da parte degli scioperanti a riprendere l’attività precedentemente interrotta. Proprio questo elemento conciliatorio sancisce la natura di ricatto e di violenza dello sciopero politico, volto all’acquisizione di particolari diritti o alla modifica degli statuti esistenti. Lo sciopero in questo caso è una pratica capace di «fondare e modificare rapporti giuridici, per quanto il senso della giustizia possa restarne ferito» (Benjamin 2019, p.55), non quindi una violenza immediata come mezzo per accaparrarsi un fine immediato, ma come mezzo costituente. Così questa caratteristica della violenza emerge nei conflitti militari come nella lotta di classe, e lo Stato teme la violenza mitica che qui si esprime proprio nella sua facoltà di porre il diritto, poiché la violenza ha sempre questo fine, almeno laddove non lo conserva.
Il termine Gewalt tedesco già nella sua polisemia ci poteva condurre verso questa considerazione, infatti, come è stato notato da tutti i traduttori, si tratta di un termine difficilmente rendibile in italiano, che contiene il significato di violenza (anche nel senso di stupro), ma che è anche riferibile al concetto di potere e di diritto legittimo. Il protogermanico walta, da cui anche lo stesso nome proprio di Benjamin, è usato nei popoli germanici ad indicare proprio la nozione di comando e di dominio,[1] intendendo l’intrinseca relazione fra affermazione violenta, supremazia e instaurarsi del diritto.
L’autore berlinese ci ha dunque portato a sviluppare un concetto di violenza profondamente legato a quello di contratto e di diritto. Si potrebbe dire che «un accomodamento integralmente non violento dei conflitti non può mai sfociare in un contratto giuridico» (Benjamin 2019, p.60), ovvero ogni volta che si ha una risoluzione di un conflitto mediante violenza si giunge alla stipulazione di un contratto. Vi è dunque un’intima correlazione fra la creazione dell’istituzione e la violenza, origine dell’affermazione della prima.
Non vi è dunque, per Benjamin, possibilità alcuna di uscire dalla dinamica della violenza e riuscire a conciliare i conflitti in modo non violento? Siamo costretti ad un utilizzo della violenza come mezzo per contrattare con lo Stato e con il diritto una variazione della nostra condizione sottomessa all’autorità affermatasi mediante il medesimo processo? Non è così. In Zur Kritick der Gewalt vi è un’apertura alla possibilità di una «conciliazione non violenta» (Benjamin 2019, p.61), che si verifica «ovunque la cultura del cuore abbia offerto agli uomini mezzi puri» (Benjamin 2019, 61), ovvero abbia reso possibile una sfera della relazione umana non sancita e non sancibile da contratto, non amministrata dal diritto e che da essa si dilegua. Come coglie Desideri la sfera privilegiata nella quale si può verificare ciò è quella del linguaggio «nella sua capacità di ospitare l’altro: di tradurre e di tradursi», (Desideri 1995, p. 49) sfera ove non si dà punizione della menzogna, proprio perché si è al di fuori della logica della colpa e della sanzione. Ma questa soluzione, quella del linguaggio e dell’«intesa» come mezzo puro, non è considerabile altrove che nei rapporti fra individui, anche se proprio in essa sta il grande portato filosofico di questo testo ed il maggiore interesse per lo studioso del pensiero benjaminiano. Come abbiamo visto sopra però, l’interesse che Benjamin ha in questo testo – pensato probabilmente come primo capitolo della seconda parte di una progettata opera sulla politica – è proprio alla dimensione collettiva. Come si esplichino i mezzi puri entro il conflitto di classe, così come entro i conflitti politici, è nodo centrale dell’intero saggio, mediante il quale possiamo riavviarci verso il Carattere distruttivo.
Abbiamo visto come lo sciopero denominato «politico» (Benjamin 2019, p.63) da Benjamin sia da intendersi come un esempio di violenza creatrice del diritto, ma ad esso si contrappone lo «sciopero generale proletario» (idem), il quale invece – sia detto subito – riesce ad esimersi dal rapporto di violenza. La distinzione fra queste due modalità di sciopero viene direttamente ripresa da Sorel, che li distingue sulla base della presenza o meno della volontà organizzativa, della necessità di preparare attraverso il conflitto il campo per la creazione di un nuovo ordinamento di potere e di una nuova gerarchia. Se questa volontà è presente siamo di fronte ad uno sciopero che apre la possibilità ad una ripresa del lavoro di fronte alla creazione di un nuovo contratto, di un nuovo diritto nel quale le forze violente poste a confronto contrattano una «pace» nel senso bellico del termine, ovvero un nuovo statuto del diritto ritrattato sulla base dell’esito dello scontro. Si tratta quindi di un esercizio dell’astensione dal lavoro come ricatto e come mezzo conflittuale, esattamente come nell’ambito parlamentare il conflitto è legato solamente ad una ritrattazione nell’ambito delle riforme e della legislazione che non fuoriesca in alcun modo dal diritto in quanto tale.
Opposto è invece lo «sciopero generale proletario», al quale è aliena ogni volontà di affermazione di un nuovo stato di cose. In esso è presente solamente «il compito dell’annientamento della potestà statuale» (Benjamin 2019, p. 64), non accettando alcuna conquista del riformismo. «Non consiste nella disponibilità a riprendere il lavoro in seguito a concessioni esteriori e a qualche modifica delle condizioni lavorative, ma nella decisione di riprendere soltanto un lavoro interamente mutato – non coartato dallo Stato» (Benjamin 2019, p. 64), ovvero al seguito di una completa negazione del dato, a cui la fase progettuale ancora non pertiene. Questa seconda forma di sciopero viene chiamata da Benjamin anarchica, e non bisogna tacere che nel più tardo (1929) saggio Sul surrealismo questa posizione verrà in parte problematizzata ulteriormente. Permane però, al di là delle suggestioni soreliane e del concetto di sciopero generale proletario come storicamente determinato, un’indicazione chiara da parte di Benjamin, radicata proprio nella critica della violenza come mezzo. Laddove infatti il conflitto non si dia come costituente un nuovo diritto, ovvero nel caso dello sciopero che non si rivolga alla conquista di riforme ma alla distruzione dell’attuale stato di cose, allora non si è entro il regno della violenza ma in quello dei mezzi puri, parte piuttosto della sfera della giustizia. La violenza non pertiene alla distruzione, bensì alla posizione del diritto, tanto quanto la distruzione non pertiene alla violenza ma alla creazione dello spazio necessario affinché si diano nuove strade.
Così ritorniamo allo sguardo del passante che coglie la scritta sul muro ed immediatamente ne sancisce il carattere violento. Il concetto di distruzione, in un’ottica comunemente accettata di pacato e civile confronto parlamentare, la cui riuscita è sanzionata da un lento e costante progredire dell’umanità lungo una linea retta che si stende «in un tempo omogeneo e vuoto», a partire da un principio barbaro e diretto ad una fine della storia (che generalmente coincide con lo sviluppo del «progredito occidente»), non può che essere considerato come negativo e violento. La critica della violenza invece ci pone di fronte alla necessità di riconoscere quello stesso progredire come un effetto della violenza del diritto e di quella che lo conserva, che avanza nutrendosi delle opposizioni per mantenere la propria grammatica immutata.
Il carattere distruttivo fa la propria irruzione dunque all’interno di questo tempo omogeneo, di questa continuità, e anticipando la natura intraprende il proprio «compito storico» (Benjamin 2019, p.179) di distruttore. Egli non è violento proprio perché, come lo sciopero generale proletario, la sua distruzione è mezzo puro, egli infatti «ha pochi bisogni, di cui il minore è sapere cosa subentri a ciò che è stato distrutto», eppure attraverso questa distruzione crea qualcosa, ovvero lo spazio nel quale si aprono infinite strade. Uno spazio vuoto che si estende laddove vi era ciò che è stato distrutto, che sottende la promessa di una novità e di un’interruzione del consolidato. Per questo il carattere distruttivo è «giovane e allegro» e deve essere il nemico mortale dell’«uomo-astuccio», che invece cerca la comodità e custodisce le tracce: il primo deve sempre giudicare il mondo sulla base delle vie di fuga che esso presenta e non a partire dal già dato riproponendo il sempre-uguale nella sua asfittica circolarità. Il suo stare «sempre al crocevia» risponde alla sua posizione in un luogo di aperture nelle quali nessun percorso è determinato, e in questo trova la propria sede il grande potenziale creativo della distruzione. Non si tratta però di creare qualcosa sulla base del preesistente, ma nemmeno di escluderlo completamente: la peculiarità di questo carattere distruttivo è infatti quella di riuscire ad afferrare il passato «come funzione» (Benjamin 2019, p.179) anziché come cosa, oppure – come scrive negli appunti preparatori – «citandolo», dunque sottraendolo alla staticità per farne uno strumento presente capace di operare una interruzione del continuum.
Siamo partiti da due parole scritte su di un muro un po’ nascosto, tratte da un testo che ha quasi raggiunto un secolo di storia, e abbiamo cercato di dare corso al senso della citazione ripercorrendo il macroscopico in essa condensato.
Al lettore il compito, seguendo le indicazioni dello stesso Benjamin, di salvarle «ma non per farne l’inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico modo possibile: usandole.» (Benjamin 1986, p. 475).
Note
[1] Walter, così come l’italiano Gualtiero, derivano dal termine Waldhar, riferibile al significato di comandate dell’esercito, generale Longobardo o Franco.
Bibliografia
Agamben G., Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1996.
Benjamin W., Parigi capitale del XIX secolo (Das Passagen Werk, Frankfurt am Mainz: Suhrkamp, 1982), ed. it. a cura di G. Agamben, Einaudi, Torino, 1986.
Benjamin W., Senza scopo finale. Scritti politici 1919-1940, tr.it. Massimo Palma, Castelvecchi Roma, 2019.
Butler J., Critica, coercizione e vita sacra in “Per la critica della violenza” di Benjamin, in «Aut-Aut», n. 344/2009.
Derrida J., Forza di legge, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
Desideri F., La porta della giustizia, Pendragon, Bologna, 1995.
Olmo Nicoletti, dopo essersi laureato in Scienze Filosofiche presso l’Università di Bologna con una tesi sull’esperienza e la materialità in Walter Benjamin, sta proseguendo gli studi come dottorando presso l’Università di Pisa e Firenze. Ha collaborato ad alcune riviste e con alcuni gruppi di ricerca. I suoi interessi spaziano fra letteratura, critica e filosofia.