«E tu sarai nel libro.
da bambino, quando scrissi per la prima volta il mio nome, ebbi coscienza di iniziare un libro».
Edmond Jabès, il libro delle interrogazioni
Partiamo dalla fine.
Lasciamo tracce, di continuo.
Le lasciamo ordinatamente, giorno per giorno.
Le lasciamo volontariamente ed è per noi necessario.
C’è chi ci segue, con i propri algoritmi.
Le nostre tracce ci precedono e agiscono come un’identità digitale ordinata, sfogliabile, che non conosce oblio, che non ha bisogno di ricordare perché è sempre presente.
Tutto diventa presente con l’uso di parole giuste.
Le nostre immagini ci dominano insieme alle nostre parole.
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Da diversi anni sono interessato agli archivi in relazione alle collezioni di immagini che la nostra cultura ha prodotto nel tempo. Mi interessano le tracce che lasciamo dietro di noi in forma non sempre volontaria e non sempre seguendo un progetto.
Non mi interessano le immagini come singoli oggetti, come scorci di paesaggio, ma come elementi seriali che acquisiscono un’importanza che va oltre la più semplice dimensione visiva.
Parlo di archivi che collezionano immagini accompagnate dalle parole utili che fanno loro acquisire un senso. Immagini e parole che si legano ad azioni ripetute nel tempo da parte di un qualcuno che scatta o raccoglie le immagini senza agire da autore, senza volerlo essere. Immagini accompagnate non da semplici didascalie, ma veri testi che danno voce all’immagine, la raccontano, e ne dissolvono le nozioni di originalità e proprietà, di verità e di memoria.
Pensare per immagini è un tratto distintivo che caratterizza il modo di pensare della figurazione occidentale al di fuori della volontà oggettiva di essere autore.
Come il bambino dell’esergo, non è un autore. Ma con il solo atto di scrivere il proprio nome prende coscienza di iniziare il libro della propria esistenza, una forma che lo comprende, lo smaterializza come corpo, ma che lo contiene in una forma potentemente simbolica. Nel caso di Edmond Jabès è qualcosa che è capace di sostituirlo e che diventa un suo doppio.
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Mi sono interessato di questi argomenti lungo il corso del lavoro nei musei e nei diversi corsi che tengo e ho tenuto nelle Accademie di Belle Arti di Bologna, di Milano e di Como.
Raccogliere le immagini e le parole che si associano, come all’interno, non di uno scavo archeologico, ma di una esplorazione speleologica: non asportare nulla, massimo rispetto di ciò che si trova, lasciarlo dove si trova ma registrarne il valore, raccoglierne traccia e ascoltare le parole che agiscono intorno a quella immagine.
Produrre archivi seguendo le regole: raccogliere. Selezionare, ordinare e dare un senso a ciò che si è trovato.
In particolare ho sempre fatto e faccio fare ricerca sulle immagini, sulla moltitudine di immagini. Non cerco quelle belle ma gli insiemi, le serie che mostrano una stessa idea che si ripete, immagini che si presentano come una serie, come espressione di una fenomenologia. Osservare per riconoscere i differenti sguardi, le differenti motivazioni e quali sguardi restituiscono la cosa e come lo fanno.
Infine mi interessa dar loro una forma, identificare uno spazio che le accoglie, uno spazio preciso, perché l’archivio possa diventare non solo una collezione di immagini, ma possa assumere una sua identità individuabile.
Dallo spazio, come dal tempo, non possiamo prescindere.
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In tutte le famiglie erano presenti degli archivi fatti di immagini e di racconti, e questi prendevano posto nei cassetti.
Alcuni ritratti, come Lari romani, stavano sul comò.
Gli albi fotografici sono testimoni di un rito ineliminabile nella vicenda famigliare borghese, come in quella di gruppi di interesse aggregati da ragioni economiche, politiche o anche culturali che sembrano ricercare nella raccolta organizzata di immagini una propria identità socialmente definibile (Mignemi, 2003).
Tutti i possibili usi sociali delle immagini sono noti e individuati.
L’album di famiglia, talvolta con ipocrisia, testimonia l’affermazione della propria continuità nel tempo attraverso il susseguirsi delle diverse generazioni; per l’azienda di impresa diventa luogo dell’autorappresentazione della propria efficienza e funzionalità economica, per i gruppi sociali lo specchio della propria identità antropologico-culturale.
L’album di famiglia nasce con la fotografia, sotto forma di dagherrotipo.
Chi scrive ricorda ancora quel giorno di fine anni ’60, quando con sua madre si è recato dal fotografo per immortalare quel periodo, non solo quel momento. Un ritratto fotografico da curare nel tempo. Non un’immagine.
Oggi l’album di famiglia tradizionale, complice la liquidità dell’idea stessa di famiglia, non ha più quel valore che accompagna un albero genealogico. Le persone spesso hanno nel corso della loro vita più di una famiglia, più di una relazione stabile che si riproduce nei figli. Gli album si intrecciano tra loro. I ricordi si ramificano e si incrociano. Radici che si recidono.
Più semplice invece è la collezione di scatti che, dal selfie al ricordo del momento, compongono gli album fotografici individuali dei nostri social network.
Siamo qualcosa di più che persone.
Siamo i testimoni del tempo che abbiamo attraversato e delle trasformazioni che il mondo intorno a noi ha subito.
E tutto è leggibile nei differenti album di Instagram, Facebook, Snapchat, TikTok ecc.
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Ce lo sentiamo dire di continuo: siamo invasi dalle immagini, siamo travolti, sommersi, immersi nella furia delle immagini.
Appare evidente che siamo soggetti a un’inflazione di immagini senza precedenti.
Questa inflazione non è solo l’appendice di una società ipertecnologica, ma anche il sintomo di una patologia culturale e politica in seno alla quale irrompe il fenomeno fotografico contemporaneo che Joan Fontcuberta definisce post-fotografia (Fontcuberta, 2018, p.4).
Joan Fontcuberta ci pone di fronte alla sfida della gestione sociale e politica di questa nuova realtà, frutto di un’onnipresente iconosfera.
Joan Fontcuberta non è solo un fotografo, ma un costruttore di immagini.
Le immagini che ci mostra, prima di essere registrate dal dispositivo fotografico, sono progettate nella mente del suo autore. Non gli vengono per caso. Le ricerca all’interno di una serialità che si fa racconto.
Nel suo lavoro si esalta una dimensione non visiva che esce attraverso le parole che raccontano il contesto nel quale nascono le immagini, non spiegano l’immagine in sé.
Un esempio è rappresentato dal progetto Soyuz, una mostra concepita come una fake news sul cosmonauta russo che si sarebbe perso nello spazio durante la sfida tra USA e URSS per il controllo del cosmo. Una tipica fake news che, per essere creduta, ha bisogno di immagini e di qualcuno che ne porti una testimonianza.
L’archivio delle foto esposte non si limita alle sole immagini nate in laboratorio per creare la falsa identità e il suo racconto. È raccontata dai mediatori di sala, che suffragano il fatto che quel cosmonauta sia esistito realmente e che realmente si sia perso. Solo davanti ad alcune immagini-civetta ci si chiede se sia potuto realmente accadere. Senza il racconto fatto in carne e ossa da testimoni oculari, i mediatori, le foto non avrebbero la stessa potenza, in quanto non sono le foto dell’allunaggio; immagini potenti, ma apparenti documenti storici fotografici, uno dei segni visivi e tra tutti il più enigmatico.
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Come tanti, ho iniziato a fotografare con velleità negli anni ’80. Compresi quanta più passione mettevo nel raccogliere le immagini degli altri, nel selezionarle e nell’ordinarle rispetto al farle. Da cacciatore di immagini compresi quanto preferissi guardare le foto degli altri per cercarvi un senso narrativo nel momento in cui diventavano una serie.
Quando si parla di archivi, la serialità è sicuramente la forma visiva che maggiormente incrocia il nostro sguardo. La serie non è la prospettiva. Non ha un centro, ma la ripetizione del simile.
La serialità in fotografia ci porta ad affrontare l’immagine non come semplice parola, ma come testo, come racconto.
Questo lo vediamo in Armin Linke, che da numerosi anni si occupa di costruire archivi e atlanti del Pianeta scattando immagini accompagnate da pensieri, testi, per rappresentare il mondo per come lo abitiamo.
A Matera 2019, all’interno del progetto Blind Sensorium, il paradosso dell’Olocene, ha mostrato il risultato della sua ricerca sull’Antropocene, attraverso le immagini scattate in giro per il mondo.
Come fa notare Armin Linke, nonostante siamo bersagliati di immagini che mostrano potentemente cosa si intenda per Antropocene, non ci si è ancora resi conto del disastro al quale stiamo andando incontro. Alla fine il suo lavoro, in quanto archivio, sembra restare ancora imprigionato nella dimensione del visivo, di ciò che si vede e non di ciò che rappresenta.
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Del pianeta che viviamo non c’è ancora troppo da scoprire. Possiamo solo osservare e attendere le continue modificazioni che sono spesso accompagnate da crisi globali, come quella del COVID-19 che stiamo vivendo. In questo caso ciò che accade è invisibile, ma visibile è come sia cambiato il nostro modo di vivere.
Da un punto di vista della cultura scientifica, la conoscenza del mondo fisico muove i suoi più importanti passi tra la fine del ’700 e i primi decenni dell’800, grazie a figure come il geografo naturalista Alexander von Humboldt e successivamente al naturalista Charles Darwin, suo estimatore.
Non parliamo delle immagini degli artisti ma delle immagini scientifiche, quelle immagini che hanno valore scientifico, epistemologico, che testimoniano il cammino della conoscenza. In quel periodo era una scienza che camminava e solcava i mari cercando la diversità delle forme di vita nei diversi angoli del Pianeta, non per ritrarne i paesaggi ma per studiare anche col disegno quella che oggi chiamiamo la biodiversità, la morfologia, la geologia e tutte le altre scienze naturali.
Von Humboldt scriverà il saggio Quadri della natura, pubblicato nel 1808, e il secondo saggio Viaggio di un naturalista intorno al mondo, nella prima stesura del 1936 e nella versione riveduta del 1845.
Il tema delle immagini descritte è in entrambi casi centrale. Viaggiando per il mondo, gli scienziati si confrontano con ciò che incontrano, registrando dati, testi e facendo schizzi.
Von Humboldt, nell’apertura del suo lavoro, scrive:
«Uno sguardo d’insieme sulla natura, la verifica dell’azione combinata delle sue forze, il rinnovamento del piacere che dà all’uomo sensibile la vista dei paesi tropicali: sono questi gli scopi che ho perseguito. […] Malgrado il bel vigore e la duttilità della nostra lingua nativa, la trattazione estetica degli oggetti della natura presenta grandi difficoltà.
La ricchezza della natura induce facilmente all’accumulo di singole immagini, ma l’accumulo disturba la serenità e l’impressione generale del quadro.
Ogni stile si misura facilmente in una prosa poetica, quando non è alle prese con il sentimento e la fantasia. […]» (von Humboldt, 2018, p. 4).
In una fase di saturazione delle immagini, l’enfasi si rivolge verso la serie e la collezione, scalzando il precedente interesse per la qualità di un’immagine specifica e l’empatia poetica che può derivare da altre attenzioni alle relazioni intime fra le immagini, le loro corrispondenze e le loro analogie.
Il rapporto con l’immagine è chiaramente al centro della sua preoccupazione, come lo è per Charles Darwin. Non ci sono ancora troppe immagini scientifiche; il metodo si sta definendo grazie al loro lavoro e grazie a quello di altri, come l’antropologo Francis Galton e il biologo, filosofo e artista Ernst Haeckel. La ricerca e lo studio si affiancano alla produzione di immagini che hanno il compito di descrivere, pensare e rappresentare il mondo.
Charles Darwin con il suo diario non apre, ma chiude la trattazione con una traccia del suo pensiero:
«In conclusione, mi sembra che nulla possa essere tanto utile per un giovane naturalista di un viaggio in paesi lontani. Esso acuisce e in parte mitiga nello stesso tempo quei bisogni e quei desideri che, come osserva Sir J. Herschel, ogni uomo prova anche quando tutte le sue necessità siano pienamente soddisfatte. L’eccitamento per la novità degli oggetti e le possibilità di successo lo stimolano a una maggiore attività. Inoltre, siccome una quantità di fatti isolati perdono presto il loro interesse, l’abitudine del confronto lo porta alla generalizzazione. D’altra parte, dato che il viaggiatore rimane soltanto per breve tempo in un luogo, le sue descrizioni sono generalmente dei semplici schizzi, invece che osservazioni particolareggiate. Ne deriva quindi, come ho sperimentato a mie spese, una tendenza costante a riempire i larghi vuoti del sapere di ipotesi poco accurate e superficiali. Ma io ho goduto troppo profondamente il viaggio per non raccomandare a ogni naturalista, sebbene non debba aspettarsi di essere così fortunato nel trovare i compagni che ho avuto io, di afferrare ogni occasione e di intraprendere escursioni per terra, se possibile, o altrimenti un lungo viaggio di mare. Può essere sicuro che non incontrerà difficoltà o pericoli, tranne in rari casi, così brutti come si era immaginato. Da un punto di vista morale, il risultato sarà quello di imparare un’allegra sopportazione e di liberarsi dall’egoismo, di abituarsi ad agire da sé e di fare il meglio possibile in ogni circostanza. In breve, dovrà avere le qualità caratteristiche della maggior parte dei marinai. Viaggiando, imparerà ad essere diffidente, ma nello stesso tempo scoprirà quante persone veramente di cuore vi siano con le quali non aveva mai avuto, o non avrà mai più contatti, e che sono tuttavia disposte a offrirgli il più disinteressato aiuto» (Darwin, 1989, p. 471).
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A metà Ottocento la conoscenza è avviata e la conoscenza del Pianeta è ormai abbastanza completa.
A ruota delle esperienze di ricerca dei naturalisti si aggiunge il lavoro di Jules Verne. Lo scrittore si avvia verso un nuovo tipo di viaggio che apre lo spazio all’immaginazione, affiancandosi al metodo scientifico e raccogliendo tutto l’immaginario tecnologico del tempo, alimentandolo della dimensione narrativa.
Negli ultimi quarant’anni dell’800 Jules Verne ha rivolto l’obiettivo del suo sguardo da viaggiatore e creatore di mondi sull’asse verticale: prima verso il basso con il Viaggio al centro della terra (1864), poi verso l’alto con il romanzo Dalla Terra alla Luna (1865), per tornare sotto il pelo dell’acqua con Ventimila leghe sotto i mari (1870). Tra i suoi romanzi più noti, questi attraversano tutti gli elementi della natura: aria, acqua, terra e fuoco. I suoi protagonisti viaggiano e osservano, prendono appunti e si trovano a dover affrontare imprevisti e li risolvono con metodo scientifico. Nasce così la fantascienza, un genere letterario fortemente influenzato dalle ricerche del tempo, ma che è capace di influire, oltre un secolo dopo, nella rincorsa allo spazio delle due super potenze USA e URSS. È opinione comune che se non ci fosse stato Jules Verne non saremmo mai stati sulla Luna.
Per loro ammissione, sia Kostantin Tziolkovskij (1857-1935), sia Werner von Braun (1912-1977) hanno inseguito il sogno della Luna rimanendo folgorati dalla lettura di Verne.
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La scienza dura, la fisica, nel corso del ’900 ha rivelato e collezionato nuove immagini che ci aiutano a pensare la nostra realtà. La fisica teorica, appoggiata dalla fisica sperimentale, ha compiuto un altro viaggio importante lungo un asse verticale che non porta dall’alto al basso, ma che conduce dall’estremamente grande, l’infinito del cosmo, all’infinitamente piccolo, che è interno alla materia, il nano-mondo delle particelle subatomiche.
Abbiamo la percezione di vivere un mondo di mezzo, tra due infiniti, e viviamo il mondo raccogliendo e immagazzinando immagini.
Ciascuno di noi vive il proprio continuo spazio temporale compiendo atti che stanno tra il ricordo e l’oblio.
Ogni immagine che raccogliamo con i nostri dispositivi e che lanciamo sui social resta presente, ma spesso ce ne dimentichiamo.
Lo abbiamo scritto: non sono le immagini d’autore, ma le immagini libere prodotte dal nostro sguardo, molto differenti dalle immagini proprietarie, autoriali.
Siamo stati abituati in questi ultimi 500 anni a vivere in un mondo autoriale, dove abbiamo cercato le immagini all’interno di una produzione autorizzata, all’interno di professioni che le hanno prodotte per noi. La svolta delle immagini in fondo è questa: chiunque oggi le può produrre per raccontare il proprio abitare il mondo. Produrre le immagini fino agli anni ’70 del ’900 era prerogativa di pochi.
Con l’uso delle tecnologie digitali stiamo tornando ad una dimensione nella quale ci riconosciamo capaci di “immaginare” nel senso di produrre le nostre immagini, di produrre quelle immagini che ci permettono di dialogare con le cose e il mondo e che ci rappresentano.
Queste immagini che postiamo di continuo ci hanno reso evidente che il luogo dove risiede la nostra coscienza, il nostro essere individui nel mondo non si limita alla massa grigia che alberga nel nostro cranio, il cervello, ma che questa coscienza è leggibile a partire da tutto il nostro corpo e nelle cose intorno a noi e lontano da noi.
La nostra vita in rete si organizza come un archivio: ordinato nel tempo, registra qualcosa di noi, è rintracciabile attraverso parole-chiave e ne abbiamo le chiavi che condividiamo però con chi lo spazio lo detiene e che, se vuole, cancella tutte le nostre memorie.
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Pensieri sull’archivio.
L’archivio in rete ha alcune caratteristiche particolari che legano memoria e oblio.
L’archivio non dimentica. Noi possiamo dimenticare cosa contiene, perché usiamo lo spazio archivio come un surrogato di memoria. Ma, ogni qualvolta andiamo a recuperare un’informazione, dobbiamo riscriverne il senso: siamo quindi di fronte a un’interpretazione.
Nella rete, nei social network, è differente: possiamo dimenticarci di un contenuto pubblicato, ma lì resta, fino a quando non lo ritroviamo con tutte le testimonianze associate: i like, i commenti.
Il social diventa un nostro sostituto di presenza e di assenza, una parvenza di vita.
Le nostre pagine diventano l’archivio che ci contiene e che dimentichiamo essere sempre presente per chiunque: è la nostra faccia forse più credibile, in quanto non cambia opinione.
Le nostre vite in rete ricordano questa caratteristica tra oblio e ricordo.
Archivio e memoria vanno di pari passo, sono in continua relazione.
Archiviamo per dimenticare e questo ci fa pensare all’archivio come al luogo dell’oblio per chi lo possiede. Se c’è qualcosa di affine tra la memoria e l’archivio non è la possibile interpretazione della cui rete è intessuta, ma sono i suoi vuoti, i lunghi periodi di silenzio, le pause del suo discorrere. Quanto manca di noi la nostra identità-archivio digitale?
Quando guardiamo un qualsiasi utente dei social network, il vuoto si riempie, non lo percepiamo. Vince quello che si mostra.
Ricordare è allontanamento dall’archivio. Si ricorda ciò che non c’è.
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Non siamo una popolazione di migranti. Siamo un popolo stanziale.
E lo siamo a fronte delle cose che possediamo e che ci impediscono di muoverci.
Noi abitiamo gli spazi, non li attraversiamo. Così come abitiamo le nostre immagini e le immagini ci abitano.
Questo ha portato la nostra mente a creare gli archivi e alla fine a condizionarci nel modo di pensare.
Per poter superare le cose non bisogna avere memoria.
Postare serve a dimenticare.
Riporre le cose al di fuori di noi è un modo per dimenticare, ordinatamente, le parole che si muovono nello spazio della scrittura.
In questo modo possiamo leggere le rappresentazioni dei nostri mondi individuali come tanti archivi del contemporaneo, intesi come mappature centrate su un corpo-memoria esteso dalle tecnologie che possediamo. Osservando ciascuno di noi è possibile individuare percorsi e tracce del contemporaneo da seguire, leggere, per riconoscere il momento che stiamo vivendo.
In rete siamo immagine, abbiamo una storia che è testimoniata dalle altre persone.
Ed è cadenzata, spazializzata, temporalizzata.
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Mi ricordo, Je me souviens, I remember, Amarcord.
Il nostro essere in rete all’interno dei social network è un atto volontario.
Qualsiasi nostra azione è volontaria.
Essere archivio invece è involontario. Se avessimo chiaramente in mente che la nostra identità digitale ricorda di noi ogni istante e che può essere letta per quello che racconta, forse molti di noi non farebbero, direbbero, posterebbero tutto quello che facciamo.
Un tempo era molto chiaro: porre un ricordo, un record, in uno spazio era una dichiarazione.
Joe Brainard, tra il 1970 e il 1973, scrive un libro che titola I remember. È forse il primo di una serie di lavori che usciranno di lì a poco.
I remember è un libro che non racconta una grande storia, ma piccoli dettagli, piccoli ricordi insignificanti della vita dell’autore. Non cambiano la vita di nessuno, ma tutti sappiamo che possiamo ripetere quella sequenza. Georges Perec raccoglie lo stimolo e scriverà Je me souviens, le choses communes nel 1978, pubblicato in Italia con il titolo Mi ricordo nel 1988. Anche in questo caso, il volume prende la forma di un archivio che raccoglie 400 pensieri comuni. Diventa un gioco tra gli intellettuali francesi: la regola è raccontare sempre e solo la cosa comune.
In Italia, Fellini dirige il suo Amarcord. Una forma simile che, seppur non ne rispetti propriamente le regole asciutte, ci mostra una collezione di piccoli episodi normali per la Romagna del tempo.
Scrivere ricordi non è novità del tempo. È quella forma essenziale che ci mette a confronto, che ci fa dire anche io, anche io ho un ricordo simile.
Di diverso tenore il libro di ricordi di Giovanna Zoboli Fuori da noi (cose, piante, città), che intreccia memorie d’infanzia a pensieri. Ma nel suo caso, ad attirare l’attenzione è quando comincia a creare elenchi e numerare cose, situazioni. Ecco che compare traccia di un archivio del passato, un suo archivio, che la identifica ma che potremmo anche noi rifare.
Un archivio fatto di parole e immagini; da questo prende spunto e parte un racconto.
«Ma la cosa più straordinaria erano le immagini che erano state scelte da queste persone per accompagnare i loro messaggi. Vi erano nidi pieni di uova colorate; che stavano dichiarando il loro amore a ragazze timide; coppie sotto berceau o incorniciate da decori floreali, mazzi di rose, cespi di viole o rami di bacche; bambini seduti in carriole o neonati mezzi nudi vestiti da putti […]. Le fotografie erano in bianco e nero o seppia, spesso colorate a mano. I cartoncini avevano colori desueti, e talvolta erano orlati d’oro.
Non vi era immagine che non provocasse in me, ancor più delle scritture, una meravigliata attenzione per la sua lontananza dal presente e per il fascino che tale lontananza immediatamente produceva […]» (Zoboli, 2019, pp. 61-62).
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In chiusura: l’archivio è quella cosa inventata dalla mente umana per evitare che le cose possano avere potere su di noi, tutte in una volta.
Lo scrivo parafrasando la più nota formula che dice che il tempo sia quella cosa inventata dalla natura per evitare che le cose possano accadere tutte in una volta.
L’archivio e l’archiviare hanno un’attitudine pedagogica utile.
Prendiamo le cose che stanno sul tavolo dove normalmente scriviamo.
L’insieme è più o meno ordinato. Non è detto che sia geometricamente disposto in fila, ma tutte le cose hanno tra loro una coerenza che mi aiuta nella concentrazione.
Nel suo pensare e classificare, Perec dedica uno dei suoi capitoli alle cose della scrivania. Ad un certo punto le enumera:
«Una lampada, un portasigarette, un solfiore, un piroforo, un contenitore con schedine multicolori, un grande calamaio foderato di tartaruga, un porta matite in vetro, parecchie pietre, tre scatole in legno lavorato, una sveglia, un calendario […] “continua fino all’ultimo per poi dire” nulla sembra più semplice di una lista, mentre invece, è molto complicato: si dimentica sempre qualcosa si è tentati sempre di scrivere ecc.» (Perec, 1989, p. 20).
Questo libro e questo piccolo pezzo ci mostrano come funziona il nostro percepire e come un poco alla volta impariamo a osservare le cose intorno a noi.
Un archivio è qualcosa di sensibile, composto da elementi discreti.
Serve che qualcuno arrivi e ne riconosca il senso per dargli voce.
Siamo in rete anche come archivi per questo motivo: per cercare un senso al nostro esserci.
Bibliografia
Baldacci C., Archivi impossibili. Un’ossessione dell’arte contemporanea, Johan & Levi, 2016
Belpoliti M., La foto di Moro, Nottetempo, Roma 2008
Brainard j., Mi ricordo, Lindau, Torino 2014
Cimatti F., La fabbrica del ricordo, Il Mulino, Bologna 2020
Cousins M., Storia dello sguardo, Il Saggiatore, Milano 2018
Derrida J., Mal d’archivio, un’impressione freudiana, Filema, Napoli 1996
Darwin C., Viaggio di un naturalismo intorno al mondo, Giulio Einaudi Editore, Torino 1989
D’Autilia G., L’indizio e la prova. La storia nella fotografia, Bruno Mondadori, Milano 2005
Fontcuberta J., La furia delle immagini, Giulio Einaudi Editore, Torino 2018
Jabès E., Il libro delle interrogazioni, Marietti, Casale Monferrato 1985
James H., L’americano, Utet, Milano 2008
Mignemi A., lo sguardo e l’immagine. La fotografia come documento storico. Bollati Borighieri, Torino 2003
Perec G., Mi ricordo, Bollati Boringhieri, Torino 1988
Perec G., Pensare/classificare, Rizzoli, Milano 1989
Severi C., L’oggetto-persona, Rito Memoria Immagine, Giulio Einaudi Editore, Torino 2018
Von Humboldt A., Quadri della natura, Codice edizioni, Torino 2018
Zoboli G., Fuori da noi. (cose, piante, città), Nuova Editrice Berti, Parma 2019
Fabio Fornasari costruisce dispositivi per mostrare e raccontare storie di valore all’interno di progetti e installazioni museografiche e ambienti di apprendimento. Tra queste Museo del Novecento Milano (con Italo Rota) e Museo Tolomeo (con Lucilla Boschi). Sviluppa progetti che hanno una dimensione di relazione: coinvolgono il pubblico all’interno di dinamiche di interazione cognitiva e sensoriale. A fianco di psicologi e pedagogisti sviluppa modelli educativi di frontiera in diversi centri di ricerca.