Sinestesie. L’immagine dell’ospedale evoca malati, medici e infermieri. Quella del museo sale e opere d’arte. Pochi artefatti come il museo hanno nascosto le tracce delle soggettività che lo formano. I suoi abitanti si celano. Sembra che abbia solo visitatori di passaggio. Ogni museo, dice Franco Remotti, più che di un’identità è la rappresentazione di un’autorità.
Il museo è un prodotto di autoreferenze che ha in sé una spinta al loro occultamento. La sua razionalità è stata spesso «concepita come qualcosa di assiomatico, che pertanto non richiede alcuna spiegazione» (E. Hooper Greenhill, 2005). Resiste l’idea di un tempio di assoluti. Lo stesso modello del capolavoro unico prende forma con la fondazione dei primi musei (H. Belting, 2018). Miracoli – scrive Hans Belting – «che non potevano più essere spiegati e insegnati per mezzo di regole e che trasformavano l’atto creativo in un mistero insondabile». «il culto dell’arte» – nel museo, aggiunge Belting – «subentrò al culto del bello» (H. Belting, 2018).
Nel museo si piange come in chiesa davanti alle reliquie del santo. O, meglio, si piangeva perché ora le lacrime sarebbero più avare (J. Elkins, 2009). Il primato dei capolavori ha relegato così in secondo piano un patrimonio diffuso, vitale, legato a luoghi e comunità. E a poco sembrano che siano serviti gli attacchi che il museo ha conosciuto nella sua storia. Il monolite è stato appena scalfito. Uno dei tentativi più acuti e ironici di decostruire il museo ha avuto l’effetto contrario. Sono proprio i musei che Marcel Broodthaers, artista belga, contesta con le sue performance alla fine degli anni ’60 del Novecento a riproporre quegli eventi. Il museo, scatola magica, ancor prima che white cube, dimostra la capacità di fagocitare anche il suo contrario. Come la fila di persone, al Louvre, per vedere il vuoto lasciato dalla Gioconda appena rubata.
Da tempo, questa visione presenta crepe. La tensione tra il detto e il non detto apre spazi nuovi alla rappresentazione. Nell’epoca di un riposizionamento sociale delle discipline, dall’archeologia pubblica all’arte pubblica, dalla public history alla citizen science, si affermano pratiche che portano alla ribalta le soggettività. La stessa esclusività dei saperi disciplinari è aggredita. Insomma, è come se si mettesse a fuoco e a frutto la storia dell’errore più che la storia in sé. La prima a incrinarsi, anche se con vaste resistenze, è l’assolutezza della collezione, affermatasi come un apriori indiscutibile e non la risultante di scelte, sensibilità, disegni politici mutati nel corso del tempo. Si è detto anche come talvolta, nella storia del collezionismo, si sia operato «come se la classificazione ‘belle arti’ fosse esistita da sempre e per sempre» (E. Hooper Greenhill, 2005). Disposte per epoca, per tema, per scuole, per ismi, le opere d’arte hanno nel museo una mobilità che sfugge a chi le guarda. Perdono la loro fisicità, che pur esiste, nel museo-monade. Quando la materialità viene richiamata a proposito della sua vulnerabilità – si pensi alla retorica dei prestiti – non è mai argomentata.
Le collezioni non dicono quando sono state allestite per visitatori di altre epoche, diversi dagli attuali. Non dicono i condizionamenti culturali che hanno subito, a partire da quello di genere. «Il sessismo nell’arte e nei musei esiste nel mondo con la stessa inerzia che in altri ambiti della società» (L.L. Moreno, 2013).
La collezione ci porta al direttore e sono i direttori dei musei d’arte contemporanea – forse per l’abilità denunciata da Gertrude Stein: «si può essere moderni oppure essere un museo, ma non entrambe le cose temporaneamente» – i primi, di fatto, a manifestare l’autorialità delle scelte. Un disvelamento che diventa patente con la dialettica e il conflitto tra curatori e artisti che ruotano intorno al fare artistico e alla sua interpretazione. Se ascoltiamo una discussione tra direttori di alcuni importanti musei, ci rendiamo conto di come i fondamentali siano meno condivisi di quanto si potrebbe credere. L’io sale sul palcoscenico senza tante finzioni. E, finalmente, il museo, quel museo, comincia a mostrarsi senza veli.
«I musei non sono edifici, sono attività, per giunta di collezioni, fatte per generazioni diverse – dice Vicente Todolì, ex direttore della Tate Modern -. E vivono molte epoche. Si parla del MoMA di Alfred Barr; del Modern Museet e del Pompidou di Pontus Hulten; della Whitechapel di Nicholas Serota…» (F. Bono, 2019). Ora, per venire ai nostri tempi, si parla della Gnam di Cristiana Collu e della Brera di James Bradburne. Il direttore da sacerdote del tempio si fa personaggio, che discute e fa discutere. Manifesta idee e visioni. Maria Balshaw, direttrice della Tate, è interessata a come «il museo può cambiare il mondo […] in un contesto marcato dalla Brexit e dalle diseguaglianze economiche e sociali». Per Balshaw i musei sono spazi pensati non solo per un’esperienza estetica, ma anche per l’azione politica (A. Vicente, 2018).
«Un museo – dice Bernard Blistène, direttore del Centre Pompidou – non deve tendere a una collezione ideale che non esiste, ma deve costruirsi a partire dalla sua singolarità, dai suoi errori e dalla sua storia, dal suo contesto» (A. Vicente, 2018).
Dichiara, invece, di essere disinteressato al concetto di collezione Glenn Lowry, direttore del MoMA. «È importante usarla, ma non più per pensare alle storie che devono essere raccontate e alle cadenze che devono essere enfatizzate» (A. Vicente, 2018).
Thelma Golden, direttrice dello Studio Museum di Harlem, gli ricorda che l’acquisto di un’opera è un atto di legittimazione per gli artisti emarginati dalla storia ufficiale. «L’impegno positivo di esporre – replica Lowry – è più importante del potere di acquistare» (A. Vicente, 2018).
Il museo si fa piazza, non è solo forum. Il profilo di cattedrale romanica che Alfred Waterhouse dette nel 1873 a Londra al Museum of Natural History, contribuendo a costruire un potente immaginario sull’istituzione, ha lasciato il posto all’elegante dinosauro disegnato da Frank Gehry per il Guggenheim di Bilbao (C. Jenchs, 2016). Il pensiero vivace dei direttori, loquaci come mai, lascia però spazi ancora oscuri sulla formazione delle proposte al pubblico. Chi ha voluto e perché la mostra Masculin masculin nel 2013 al Musée d’Orsay o quella su Splendeurs et misères de la prostitution, 1850-1910, sempre al museo parigino? Quanto c’è la voglia di solleticare il pubblico su temi sensibili? D’altro canto, dice David Balzer, «i curatori sono abilissimi a far passare le mostre e le biennali come gesti radicali e di opposizione all’ortodossia museale o a regimi, comportamenti e codici diffusi; ma di fatto usano l’antagonismo radicale con il preciso scopo di attirare il pubblico e aumentare il capitale culturale degli eventi che promuovono» (D. Balzer, 2016). Come arriva agli Uffizi, un museo assai parco nell’accogliere i linguaggi visivi contemporanei, la mostra Essere di Antony Gormley? C’è spazio, insomma, per un’etnografia dei curatori, di qualsiasi tipo di museo, come è stato fatto, ad esempio, in Québec (R. Handler, 1988).
E alla parola dei direttori fa riscontro il silenzio delle altre figure che lavorano nel museo. A partire dai custodi, da sempre mediatori, più o meno consapevoli, tra un luogo che può essere di spaesamento e l’ospite ignaro, per arrivare a tutti gli altri che hanno impressionato a esempio Nicolas Krief che indaga fotograficamente quello che succede dietro le quinte dei musei quando si allestisce una mostra. Isabella Venturi, che si immagina custodi curiosi della nostra curiosità, ricorda come le scelte strategiche e operative di tutte le organizzazioni siano comunque «riconducibili ai comportamenti e atteggiamenti degli abitanti delle stesse» (I. Venturi, 2010). Custodi inclusi. Una foto del 1971 ne ritrae uno con una elegante livrea accanto alla Gioconda ancora a media altezza alla parete e non in alto come risulta ora, in un’ostensione da pala d’altare. Il silenzio del custode custodisce sguardi, tic, richieste, comportamenti del pubblico che rimandano l’idea di quale luogo intenso di scambi e di non-detti sia il museo. Il non-detto dei custodi racchiude le attese degli osservati. C’è da pensare che conservino, a questo proposito, un deposito prezioso. Forse potrebbero dire qualcosa in merito gli “addetti alla fruizione e alla vigilanza” che guidano le visite ai depositi di Paestum.
Un custode guarda anche Dario Argento che per giorni studia, per prepararsi a La sindrome di Stendhal, le reazioni delle persone che osservano la Gioconda. «D’improvviso, mi sento sollevare di peso. Mi portano al commissariato interno… Pensavano che fossi un vandalo che aspettava il momento migliore per colpire» (C. Morvillo, 2019). La storiella si presta a diventare una metafora dell’osservazione dei visitatori e di quella che sembra una nuova ossessione-religione. Sospesa tra audience development e timido ascolto etnografico, l’osservazione non restituisce pubblicamente quello che il pubblico osservato lascia e che non sono solo libri, sciarpe, guanti, berretti, zaini, giocattoli, occhiali, gioielli, telefoni, iPad, portafogli come avviene ogni giorno al Louvre. Il museo è preso dall’enganging with difference empathetically più che dall’ascoltare chi ha davanti a sé e dal riconoscersi come spazio performativo. Abbiamo così briciole di comportamenti, la variazione nell’identico, come nella Traversata del Louvre, la graphic novel prodotta dallo stesso museo. Qualcosa di simile fa ora il Museo del Prado in occasione del suo bicentenario (S. Llobell, 2019). Sembra così che parte di quello che il museo non dice lo manifesti con pubblicazioni extra-moenia. Al Louvre persone affaticate si sdraiano sulla poltrona, fanno un selfie con un Rembrandt, raccontano all’amica al cellulare che cosa stanno vedendo. «Quanti musei, come quello del Louvre, permettono a tante persone così diverse di ritrovarsi insieme con il medesimo desiderio di cultura?» (D. Prudhomme, 2013). E quante reazioni ben diverse, possiamo aggiungere, nonostante l’immagine compatta da folla solitaria?
Il 42% dei musei civici italiani, secondo un dato dell’Istat del 2016, ha meno di mille visitatori. Si può dire, un po’ paradossalmente, che si potrebbero conoscerli tutti e conoscere la storia del loro incontro con il museo per misurare anche la capacità che i beni hanno di creare relazioni sociali. Si va a un museo a quattrocento chilometri di distanza da casa per tentare di cogliere il clima respirato dal nonno prima internato e poi profugo della prima guerra mondiale in un paese sconosciuto della Toscana. Oppure si va a un museo della scuola per cercare di saldare un conto, chiudere una ferita aperta dall’esperienza sui banchi. La stalla in un museo etnografico riconnette con commozione il visitatore con il passato di una vicenda drammatica che lo ha coinvolto da piccolo, durante la Resistenza, appresa per memoria familiare. Si dorme, di tanto in tanto, nel museo per poter carezzare l’opera donata. Tutte storie consegnate al museo e da esso taciute. Il museo si concentra sull’esperienza in sé, ma raramente sul prima e sul dopo. C’è chi riconosce il deposito potenziale di senso di chi ha abitato temporaneamente il museo e lascia «sulle sedie delle sale d’esposizione o ai tavoli del bar e del ristorante piccoli documenti, come se si trattasse di testi che qualcuno ha dimenticato […] che contengono scritti con le opinioni dei visitatori su alcune opere esposte» (T. Martìnez Gil, J. Santacana Mestre, 2013). Le “storie in ceramica” del Museo Senior portano allo scoperto la componente immateriale del manufatto diventato cosa e liberato dall’eccesso interpretativo grazie alla memoria delle persone. Altri carotaggi ci portano nel cuore della relazione tra scelte del museo e pubblico. Un dissenso diffuso rispetto alla mostra Forme per il David, in occasione ai cinquecento anni del capolavoro di Michelangelo alla Galleria dell’Accademia di Firenze, viene interpretato ad esempio come «l’affermazione della volontà di non restare esclusi proprio dall’arte che è a noi contemporanea» (C. Rosati, 2006).
Il campo resta delicato. Non si tratta di postulare una dittatura del pubblico, ma di trovare le forme perché lo scambio, per quanto asimmetrico possa essere, sia manifestato ad arricchimento del senso del museo e di chi lo abita. Una tesi in questo senso è quella di chi vuole che l’obiettivo ultimo del museo non sia più «il pubblico diversificato delle statistiche di mercato, ma una didattica radicale: invece che come un tesoro da accumulare, l’opera d’arte dovrebbe essere mobilitata come ‘oggetto relazionale’ (per usare l’espressione di Lygia Clark) allo scopo di liberare il fruitore psicologicamente, fisicamente, socialmente e politicamente» (C. Bishop, 2017).
Sotto lo stesso tetto si muovono esperti e ignari, chi per lavoro vede solo una parte e chi conosce l’intera koiné, professionisti e volontari, chi ha il potere di decidere e chi ha varcato la soglia con titubanza, attratti e annoiati, trascinati e abituali, perplessi ed entusiasti, patrocinatori e patrocinati o più semplicemente persone spinte dalla pioggia come succede di frequente a Londra. Il museo «si popola di gente e di comportamenti, diventa scenario delle sue relazioni, si trasforma al filo di queste e, allo stesso tempo, trasforma coloro che lo abitano, siano visitatori o siano inquilini» (L. Grau Lobo, 2018). Il formarsi e il trasformarsi possono essere nascosti o rappresentati. Il non-detto e il detto oscillano tra ciò che si cela e quello che si decide di rivelare come imperfezione. Finora l’appello alla scientificità – la scienza trova verità provvisorie, la museologia tutt’al più verità parziali – nasconde il potere della discrezionalità. L’appello al visitatore e alla sua sensibilità mette in scena l’incompiutezza della retorica museale. Sta negli sviluppi che potrà avere questa tensione tra tutto quello che rappresentano il detto e il non detto se il museo saprà rinnovarsi come luogo attento agli ibridi culturali, portatore di altre certezze, pezzo di cultura come le sue collezioni. Diventare un luogo culturale che sia ciò che accade.
Bibliografia
D. Balzer, Curatori d’assalto, Monza, Johan&Levi Editore, 2016 (2015).
H. Belting, Il capolavoro invisibile. Il mito moderno dell’arte, Roma, Carocci, 2018 (2001).
C. Bishop, Museologia radicale, Monza, Johan & Levi Editore, 2017 (2013).
F. Bono, “Soy collecionista, pero no de obras de arte sino de citricos”, “El Pais”, 18 febbraio 2019.
B.H.D, Buchloh, The Museum Fictions by Marcel Broodthaers, in A.Bronson, P.Gale (a cura di), Museums by Artists, Toronto, Art Metropole, 1983.
J. Elkins, Dipinti e lacrime. Storie di gente che ha pianto davanti a un quadro, Milano, Bruno Mondadori Editore, 2009.
L. Grau Lobo, Los habitantes del museo, www.icom-ce.org. Consultato il 25 febbraio 2019.
R. Handler, Nationalism and the Politics of Culture in Quebec, Madison, University of Wisconsin, 1988.
E. Hooper Greenhill, I musei e la formazione del sapere, Milano, il Saggiatore, 2005 (1992).
C. Jenchs, Musei o cattedrali?, in C. Jenchs, T.Wolfe, Musei. Le nuove cattedrali, Milano, Medusa, 2016 (2000).
S. Llobell, Historietas del Museo del Prado, Madrid, Museo Nacional del Prado, 2019.
T. Martìnez Gil, J. Santacana Mestre, La cultura museìstica en tiempos difìciles, Gijòn, Ediciones Trea, 2013.
L.L. Moreno, Re-Crear la historia, in Museos, género y sexualidad, Icom, Espana Digital, 2013.
C. Morvillo, Sono perseguitato da stalker rimasti turbati dai miei film, in “Il Corriere della Sera”, 10 febbraio 2019.
D. Prudhomme, La traversata del Louvre, Torino, 001 Edizioni, 2013.
C. Rosati, Sguardi dal David, in “AM. Antropologia Museale”, 13, 2006.
I. Venturi, Custodi nel tempo del lavoro, in A. Andreini (a cura di), Il museo che accoglie, Firenze, Regione Toscana, 2010.
A. Vicente, ¿Qué serà de los museos en el siglo XXI?, “El Pais”, 15 gennaio 2018.
Claudio Rosati, storico e museologo, è autore di saggi e musei. Ha progettato, tra altri, il Museo della Gente dell’Appennino Pistoiese e coordinato il gruppo di lavoro del Museo della Sanità Pistoiese. È autore del Museo di San Salvatore in corso di realizzazione e curatore della mostra 2019 della Fondazione Vico Magistretti a Milano. Di recente ha pubblicato Amico Museo. Per una museologia dell’accoglienza (Edifir 2016). È membro del direttivo della Società italiana per la museografia e i beni demoetnoantropologici, consigliere della Fondazione Musei Senesi, componente del comitato scientifico dell’Associazione nazionale case della memoria e del consiglio di amministrazione della Fondazione di Studi Storici “Filippo Turati”. Ha diretto il settore musei e valorizzazione beni culturali della Regione Toscana. È stato docente a contratto nelle università di Firenze e Pisa e presidente del Collegio dei Probiviri di Icom-Italia (International Council of Museums). Nel 2013 ha ricevuto il premio honoris causa per la museologia di Icom Italia.