from roots to routes
Il contro-spazio di Kasbah
di Giorgio Cellini

Kader Attia, artista franco-algerino nato in Francia nel 1970, con la sua pratica affronta il tentativo di dipanare quella intrecciata matassa che rappresenta la questione dell’incontro tra culture, mediato e vissuto da corpi di uomini e donne in movimento nello spazio. Uno spazio su cui si instaurano forme simboliche, come l’architettura, elemento saliente nella ricerca dell’artista, che è attraversato da confini, geografici o politici, fisici o virtuali, permeabili o impermeabili, statici o in continuo mutamento, che determinano l’esistenza di corpi.
L’arte e l’artista, lungo un percorso ontologico, ci conducono a esplorare l’essenza dell’essere umano, attraversando il passato, presentandoci il presente e indicandoci perfino l’orizzonte di un possibile futuro. Questo è possibile perché gli artisti vivono in una matrice che plasma la loro esistenza e che guida la loro pratica: le circostanze esterne che caratterizzano la Storia e le storie sono prima di tutto agenti puntuali che intervengono su processi creativi anche laddove essi ci possano sembrare più distanti, autoreferenziali e tautologici (Perniola, 2000). Ogni atto poetico è in grado di fornici una nuova lettura del reale. (Magris, 2009).

Per indagare come agli artisti si possano interfacciare alle vicende che interessano l’umanità, anche dove si tingono dei toni più drammatici, e come possano, in un qualche modo, venire registrate nelle loro vie d’espressione, il critico Alexander Nemerov (2005) rilegge i versi della poesia Musée des Beaux Arts di W. H. Auden (1939) sull’opera di Pieter Bruegel Paesaggio con la caduta di Icaro (1560). Sembra che Bruegel, nel suo quadro, decida di concentrarsi su ciò che accade parallelamente al sublime evento della caduta di Icaro. Il ragazzo con ali di cera, di cui si scorgono solo le gambe mentre il resto del corpo è ormai ingoiato dal mare, viene ritratto nell’angolo destro dell’opera. Il primo piano, è dedicato a un agricoltore occupato ad arare il terreno e impegnati nelle loro faccende sono anche gli altri personaggi -un pastore e un pescatore- che via via si distanziano dalla scena centrale. Sullo sfondo un mare quieto, che ospita vascelli e piccole imbarcazioni, si estende fino all’orizzonte dove il Sole, personaggio centrale nella vicenda delle Metamorfosi, appare calante, impegnato a garantire la sua costante scomparsa e ricomparsa. Indifferenza e ciclicità del quotidiano, sia essa celeste o umana, sono i connotati preponderanti della scena in cui si sta consumando lo stupendo disastro.
Nemerov si concentra sulla figura dell’agricoltore che con il suo aratro traccia delle forme sul terreno incarnando, per la sua attività formale di produttore di segni, la figura dello scrittore e dell’artista: malgrado egli stia volgendo le spalle al disastro, i solchi sul terreno riprendono le increspature sulla superficie dell’acqua infranta dall’impatto del corpo di Icaro, come se l’aratro, animato dall’agricoltore, abbia introiettato l’immagine dell’evento. Ritroviamo il contatto con le condizioni storiche in cui l’opera d’arte è immersa avvalorandone la sua rilevanza politica [1]. Attraverso la storia dell’arte ritroviamo come le vicende personali degli artisti e gli accadimenti storici si incrocino e condensino nella loro pratica. Nel caso specifico di Attia, la sua biografia racconta di migrazioni, di relazioni e di incontri tra culture dominanti e represse.

Trattare della questione delle migrazioni, del nomadismo e dell’erranza, è il presupposto per questionare le modalità di incontro tra popoli e culture. Essa è antica quanto la storia dell’uomo e trova il momento germinale -che si estende dal Paleolitico al Mesolitico, occupando la maggior parte della presenza umana sulla Terra- nella condizione necessaria di attraversare lo spazio per garantire la propria sopravvivenza e quella della propria specie. La necessità dello spostamento per l’uomo, che appare come antropica e immanente, e si salda con la propensione o necessità di conoscenza per garantire ciò che può essere definito a diversi livelli sopravvivenza, crescita, sviluppo, accrescimento, ecc. Nella genealogia dell’uomo troviamo solo in un secondo momento come l’homo si scopre e inventa essere stanziale -attraverso l’agricoltura- e nel contemporaneo e nella nostra porzione di mondo, sembra che vi sia la propensione o il desiderio verso questo stato. Le odierne possibilità tecniche e tecnologiche però, e i cambiamenti paradigmatiche scaturiti dalla comunicazione digitale, sulla conoscenza e sull’economia, ci impongono una rilettura e apertura delle categorie nomade e stanziale.
Nella sfera d’analisi della specie umana il movimento elementare del camminare, che garantirebbe l’autonomia e la conoscenza dello spazio circostante, oltre ad essere una pratica orientata verso l’esterno è anche transitiva: la scoperta del sé è in relazione a ciò che ci circonda, o a ciò a cui andiamo incontro, tendiamo, ci misuriamo. «La verità umana non è quella dell’assoluto bensì quella che esiste nelle relazioni» (Magris, 2009). Attraverso l’esperienza del movimento e dell’incontro vengono tracciati segmenti e definiti punti in grado di dare delle coordinate e dei caratteri utili alla conoscenza e alla localizzazione dell’essere, il mio e dell’Altro. Qui dev’essere richiamata l’idea di radice, utile a trovare una connessione tra nomadismo e sedentarietà in una prospettiva gnoseologica, eliminando i presupposti che imponevano la lettura di queste categorie come dicotomiche-oppositive.
Come ci propone Éduard Glissant (1990) nella sua analisi sulla colonizzazione e decolonizzazione nella prospettiva di un’appropriazione identitaria e culturale, -questione centrale nella vita e nella pratica artistica di Attia-, il rapporto con la terra -dell’andare e dello stanziarsi- diventa significativo quando si compie una processo di identificazione con un luogo attraverso il mito e la parola divina rivelata. Prima di allora il rapporto con il luogo è connotato da un utilizzo predatorio, definito nomadismo circolare o nomadismo invasore[2], troppo immediato per creare delle preoccupazioni identitarie. Tanto nel nomadismo quanto nell’esilio[3] il rapporto di identificazione-appropriazione, non ancora circoscritto al luogo, avviene attraverso il concetto di cultura, inteso nell’eccezione di civiltà. L’idea di civiltà servirà a mantenere assieme e creare quei particolarismi che si identificano in opposizione all’Altro, che Glissant cerca nella storia identifica nell’Impero romano. Il catalizzatore di questa unione-scissione di particolarismi sarà quindi l’opposizione alla generalizzazione -pulsione di un identitario universale- perpetrata dalla politica espansionistica romana. Questo irrigidimento sugli opposti troverà in Occidente il culmine attraverso l’enunciato della nazione, che subentrando all’idea di civiltà, arricchisce la radice di un senso di intolleranza, figlio di un pensiero duale. Il concetto di nazione dell’Occidente si espande, interessando la maggior parte dei popoli colonizzati, che propendono per l’identificazione totalizzante dell’idea di radice unica, effettuando l’esclusione dell’Altro dal rapporto fondativo. Questo ha provocato un rafforzamento dell’identità inizialmente implicito, nell’idea di superiorità della propria radice, per poi espandersi come valore, nell’attribuzione di una virtù alla propria radice. Il potere generato si infligge sui popoli conquistati che ricercano l’identità in opposizione alla fusione di identificazione o annientamento del conquistatore.
Se in Occidente la ricerca identitaria dei popoli verrà affermata in opposizione al processo di annientamento o di identificazione attuato dagli invasori, per i popoli colonizzati essa si inscriverà nella limitazione dell’“opposizione a”. Questi processi che, in entrambi i casi escludono un approccio di ibridazione tra differenze, causano ferite e traumi complessi difficili da cicatrizzare imponendoci di ripensare alla decolonizzazione (Glissant, 1990). In quest’ottica, la ricerca di Attia, ci propone riflessioni e pratiche alternative alla colonizzazione e alla decolonizzazione che sono avvenute e che stanno avvenendo a seconda delle latitudine e delle forme visibili del nostro punto di vista. L’indagine di Attia infatti riflette sulla questione, tutt’altro che conclusa, del rapporto tra l’Occidente e quello che l’artista definisce Extra-Occidente[4], e di come questo rapporto si inscriva nella questione della migrazione delle forme, della gerarchizzazione delle influenze e della mancata comprensione del potenziale scaturito dall’ibridazione.

Kader Attia interviene, con la sua pratica artistica che si espande al di là dei media tradizionali, compiendo delle vere e proprie operazioni in campo sociale politico e culturale -come nel caso di La Colonie-, attraverso il principio di repair, principio presente in natura che, secondo la sua ricerca socio-culturale, si estende a qualsiasi istituzione sociale o tradizione e concerne l’accettazione e la congiunzione delle identità dei popoli attraverso un processo di ricucitura. Se in prima istanza il repair di Attia si concentra su un’idea di ferita fisica da sanare -come nei i lavori The Repair (2012), Artificial Nature (2014) sui traumi fisici di uomini e donne documentati durante la I Guerra mondiale-, successivamente propende per un approccio psicologico, che fa emergere come l’aspetto essenziale del repair sia intangibile e correlato alla visibilità e all’apprendimento del reale: tanto il visibile quanto l’invisibile devono essere presi in considerazione perché possa avvenire la riparazione (Attia, 2014). Questo passaggio può essere riscontrato, nell’utilizzo centrale dello specchio all’interno delle opere dell’artista -ad esempio a Holy Land (2006) che contiene in maniera germinale questo approccio[5], Untitled (Repaired broken mirror) (2013), e Chaos+Repair=Universe (2014).
L’opera dell’artista che, per la sua natura formale e per le sue modalità di fruizione, è in grado di arricchire e condensare le questioni fino ad ora affrontate è Kasbah (2006). Fra installazione e manufatto ibrido, Kasbah è essenzialmente un complesso di architetture, leggibile come un’unica architettura che si sviluppa nello spazio espositivo. Una fittissima composizione di tetti di abitazioni improvvisate, realizzati in lamiera, assi di legno, diventa il percorso necessario per proseguire la mostra[6]. Il riferimento primo dell’opera è la storica parte fortificata delle città del Maghreb, strutturata da diversi elementi architettonici peculiari, come portali, mura, bastioni e il terrazzo. Quest’ultimo rappresenta uno spazio centrale nella quotidianità del mondo mediterraneo e di quello rurale arabo, in quanto permette l’incontro, il riposo e generalmente l’aggregazione.

Kader Attia, Kasbah, 2008 wood, corrugated iron, tv and satellite aerial, pneumatic, mixed media variable dimensions, 100 m2 minimum Collection Privée and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana Photo by: Kader Attia Installation view THE BEAUTY OF DISTANCE: Songs of Survival in a Precarious Age, Biennale of Sydney, Sydney, Australia, 2010

Attraverso l’architettura, Attia ci mostra come l’imposizione della cultura coloniale e post-coloniale francese su quella algerina si inscriva in un tentativo totalizzante e pervasivo, che si spinge all’imposizione di una norma sui corpi[7]. Qaṣba, parola dell’arabo classico, viene sostituita da kasbah, sua variante grafica francese, divenendo il titolo dell’opera. Lo storico e peculiare contesto architettonico delle città nord africane, ci viene presentato snaturato e stravolto in un’immagine che ricalca lo spontaneismo architettonico[8] che si fa nelle periferie europee (Avvenire, 2009), nei campi profughi[9] sui confini e negli slum. Nella sua immagine composita, fatta da più luoghi riconducibili a un’immagine sola, e nella sua essenza stratificata, di manufatto architettonico e di opera d’arte, Kasbah assume i caratteri di quei luoghi particolari, definiti da Michel Foucault (1984), spazi eterotopici. Anche le modalità di utilizzo dello spazio espositivo di Attia, come evidenzia Nicole Schweizer (2015), rispondono a uno dei principi delle eterotopie. Come le biblioteche e i musei, gli spazi nei quali Attia interviene non si limitano a essere un luogo in cui è custodita una memoria ma piuttosto diventano lo spazio in cui si è invitati a compiere una riflessione sulle connessioni tra politico, personale, estetica e storia[10]. A differenza degli spazi utopici, che non sono collocabili su una cartina e che si inscrivono nel tempo incerto del possibile, lo spazio eterotopico è «una specie di utopia effettivamente realizzata nella quali i luoghi reali, tutti gli altri luoghi reali che si trovano all’interno della cultura vengono al contempo rappresentanti, contestati e sovvertiti; una sorta di luogo che si trova al di fuori del luogo stesso per quanto possano essere effettivamente localizzabili» (Foucault, 2011, p. 23-24).

Tiziana Villani (2011) trattando delle eterotopie descrive come il rapporto di inclusione ed esclusione inscritto nel concetto di periferia, emerso dall’analisi di Kasbah, sia sottoposto a una dilatazione magmatica dovuta soprattutto all’uso e alla produzione in relazione al territorio. Se la periferia era un luogo caratterizzato dalla sua distanza da centro, ora i continui flussi migratori e l’espansione demografica si addizionano allo spostamento nell’orizzonte virtuale della comunicazione immediata. Non è più quindi pensabile alla periferia come un rapporto di contrapposizione a un mitico centro e non è più pensabile alla sua definizione legata al manufatto, ma il suo concetto abbraccia un’idea di marginalità più ampia, più opaca ma non per questo meno consistente. La questione della periferia ci riguarda tutti e ha a che vedere con i mutamenti attuali che integrano un discorso più generale, riguardante la segregazione dei corpi e il depotenziamento emozionale. Quello che rimane invariato è che, come lo specchio, luogo irreale connesso con lo spazio intorno a me, in cui io ritrovo me attraverso quel punto di vista virtuale che si trova la in fondo (Foucault, 1984), il concetto di periferia conserva la capacità di essere immagine effettuale della società, dalla quale si può partire per ricostruirsi. Le baracche costruite da Attia quindi, malgrado ritraggano e testimoniano un’architettura di sussistenza, rappresentano anche un esercizio di sperimentazione, di appropriazione di spazio e di autodeterminazione, una pratica di resistenza. L’architettura organica e popolare di Kasbah si pone come contro altare[11] a quella utopica modernista praticata nelle colonie francesi.

Anche la fruizione dell’opera diventa un percorso che conduce a un possibile eterotopico: il camminamento sui tetti costituisce una nuova strada, un inusuale percorso. La strada realizzata da Attia si slega dalle funzioni attribuitegli da Foucault quale apparato collettivo -realizzato per produrre la produzione, produrre la domanda e normalizzare attraverso la correzione della domanda (Foucault, 2011)- ma diventa un percorso di significazione. La nozione di percorso d’altronde fa emergere la necessità della costruzione – anche architettonica (Careri, 2006)- che in questo caso diventa ri-costruzione, ri-appropriazione di corpi che si smarcano dalle condizioni precostituite ed egemoniche. L’eterotopia si connota come spazio di neutralizzazione e di purificazione.
Una delle prime emozioni che ho provato attraversando l’opera è la gioia, quella infantile della scoperta, quella che, come ripercorre Foucalt (2006), è capace di trasformare il letto in oceano, nelle cui coperte puoi nuotare o con le quali nella notte puoi trasformanti in fantasma. Il gioco serve a inventare nuove regole e a stravolgere quelle esistenti, e con esso si possono esprimere funzioni altrettanto essenziali. Giocare significa «liberare l’attività creativa dalle costruzioni socio culturali, progettare azioni estetiche e rivoluzionarie che agiscono contro il controllo sociale» (Careri, 2006, p. 74). Ma non si tratta qui di fare un elogio dell’infanzia e del ludico[12]. I bambini e le eterotopie, come evidenzia Foucault, sono un’invenzione degli adulti (Foucault, 2006). Si tratta piuttosto di riconoscere il ruolo della società, quella adulta, nell’avere inventato le eterotopie -rilevabili in tutte le culture- e come la stessa società abbia anche definito la loro accessibilità, il loro isolamento e la loro permeabilità, e il conseguente utilizzo di questi contro-spazi.

«[…] sogno una scienza -dico proprio una scienza- che abbia come oggetto questi spazi diversi, questi altri luoghi, queste contestazioni mitiche e reali dello spazio in cui viviamo. Questa scienza non avrebbe il compito di studiare le utopie […] ma le etero-topie, gli spazi assolutamente altri» (Foucault, 2006, p. 14). Penso che agli artisti spetti il compito di sondare questo territorio specifico, poiché l’arte con la sua centrale tangenza è in grado di svelare la matrice, lo spazio quadrettato entro il quale viviamo, e di creare con la loro prassi una diversa prospettiva. Kader Attia nel ripensare la decolonizzazione, attraverso il repair, che implica un modello di relazione rizomatico, ibrido e plurale, si è assunto questo compito.

Note
[1]
La disamina di Nemerov si estende alla valenza politica dell’astrattismo richiamandosi al pensiero di Clement Greenberg.
[2] La prima definizione dipende dall’utilizzo e lo sfruttamento delle risorse di un luogo fino all’esaurimento al conseguente spostamento, è può essere ricondotta ai lavoratori stagionali o al nomadismo dei popoli che si spostano nelle foreste dando vita a una circolarità. La seconda è l’occupazione forzosa e violenta di un territorio, come nel caso dei Conquistadores, o delle popolazioni barbare con l’Impero romano d’occidente che ci chiarificano come questa tipologia di nomadismo rappresenti un desiderio devastatore di sedentarietà reso esplicito dallo stanziassimo degli europei nei luoghi scoperti oltre continente o dalla discendenza barbara anche nei ruoli di maggior rilevanza dell’Impero combattuto.
[3] Solo nel momento in cui avviene l’identificazione in un luogo, l’esilio, modalità di allontanamento, assume i connotati dolorosi della mancanza. Nell’antichità occidentale, quando non era avvenuta questa forma di appropriazione-identificazione, l’esilio rappresentava una pratica auspicabile e necessaria alla conoscenza del proprio essere, come testimoniano Platone e Aristotele.
[4] L’espressione Extra-occidente utilizzata dall’artista è divenuta parte del titolo dell’installazione, presentata in occasione di dOCUMENTA (13), The repair form Occidental to Extra-Occidental Cultures (2012).
[5] In Holy Land (2006) lo specchio, disposto lungo la spiaggia di Fuerteventura in direzione delle coste atlantiche del Marocco, diventa luogo e confine effimero sul quale si incontra l’individualità del visitatore, il luogo e le aspettative di quei rifugiati che dall’Africa cercano nell’Europa la terra promessa. (Blumentein, 2014).
[6] Il riferimento specifico all’estensione dell’opera e al posizionamento all’interno dello spazio si riferisce alla mostra As raízes também se criam no betão, curata da Delfim Sardo e presentata presso il Culturgest di Lisbona (20.10.18 – 6.1.19).
[7] Nella serie di collage Modern Architecture Genealogy (2014), l’architettura modernista del Nord Africa diventa lo sfondo per transessuali algerini, da lui fotografati, i cui corpi si relazionano con il modulor, modello del corpo utopico di Le Corbusier sul quale lo spazio è progettato.
[8] Con spontaneismo si fa qui riferimento alla ricerca di Ugo la Pietra in cui ha trattato con differenti eccezioni il rapporto tra l’uomo e l’ambiente urbano secondo l’aspirazione individuale di affermare le proprie necessità nello spazio cittadino. Si veda, tra gli altri, M. Scotini, a cura di, Ugo La Pietra, Archive Books, Belino, 2018 e Ugo La Pietra, Le altre culture, Corraini edizioni, Mantova, 2017.
[9] Penso alla serie di fotografie scattate dall’artista Harley Weir nel campo migranti e rifugiati di Calais nell’ottobre del 2016 e raccolte all’interno della pubblicazione Harley Weir, Homes, Loose Joints, Londra, 2017.
[10] Un riferimento esplicito a questa attitudine lo offrono le opere The Repair’s Cosmogony (2013), e Measure and Control (2013) composte da fotografie, video, manufatti di diverse provenienze, e opere dell’artista stesso, si relazionano fisicamente proponendo una riflessione sulla loro rapporto storico culturale.
[11] Il riferimento all’istallazione è il medesimo della nota 6 in questo articolo. In uno degli ambienti in cui Kasbah è installata, è proiettato il video dell’artista La Tour Robespierre (2018) che ripercorre in un lungo piano sequenza l’altezza dell’edificio residenziale più alto di Vitry-sur-Seine, città satellite di Parigi.
[12] La questione dell’utilizzo ludico e dell’utilizzo produttivo del tempo, e delle varie definizioni che abbiamo dato alla specie umana in base alla sua capacità espressiva e produttiva è assai complessa. Si pensi alla critica dell’homo ludens di Huizinga (1939).

Bibliografia
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Scotini M., Ugo La Pietra, Archive Books, Belino, 2018.

Giorgio Cellini (Torino 1990) ha conseguito studi di architettura presso il Politecnico di Torino, e nell’ambito delle Visual Cultures presso l’Accademia delle belle arti di Brera. Si laurea con Maurizio Guerri analizzando il rapporto tra il pensiero dell’Internazionale situazionista e le teorie di Walter Benjamin. È stato membro fondatore del collettivo curatoriale OUT44 e prosegue la sua ricerca come artista visivo analizzando il rapporto tra arte e architettura. Lavora presso Gallerie Corraini dove si occupa di ricerca e archiviazione.