L’interesse di Francesca Marconi è rivolto alla contaminazione culturale e alle forme di appartenenza multiple e variegate che caratterizzano la società odierna. Partendo da impegni a lunghissimo termine, muovendosi prevalentemente in ambiente urbano, l’artista mette a punto progetti diversi, ma accomunati da alcune caratteristiche precisamente individuabili: progetti collettivi e partecipati, fortemente calati nel contesto in cui si trova a lavorare, basati su fasi di incontri e relazioni, vissuti in prima persona, con i cittadini; in particolare con cittadini con storie di migranza alle spalle. Il processo vede, in molti casi, fasi laboratoriali. Il risultato comprende coinvolgenti performance che, intese come veicolo privilegiato di partecipazione collettiva, hanno la città per scenario. Il territorio e il corpo sono i soggetti fondamentali del suo lavoro; in molti casi finiscono per sovrapporsi tra loro. Il territorio è percorso da energie umane e culturali, sede di una diversità intesa come espressione di energia vitale; di un’ibridità capace di generare cultura. È caratterizzato da transnazionalità per effetto dei flussi che lo attraversano, e dalla presenza di rapporti di potere di matrice postcoloniale, inequivocabilmente asimmetrici. Il corpo, con la sua immediatezza di espressione, esiste nello spazio ed è legato alla qualità dello stare in uno specifico luogo. Il territorio è fatto per essere calcato, il corpo è fatto per aderire fortemente alla realtà del terreno che lo ospita, con tutto il peso delle storie e delle memorie di cui è deposito, con tutta la forza del suo impatto espressivo e della sua sensorialità.
Dei progetti della Marconi Ulysses, realizzato nel 2011, è basato sulle differenze linguistiche e sul concetto di traduzione tra lessico e senso, tra discrepanze e condivisione. Cartografia dell’Orizzonte è consistito in una ricerca collettiva intorno ai temi del confine e del suo attraversamento; La forma dei corpi, realizzato nel 2018-19 nell’ambito del più ampio progetto miAbito, è nato dalla constatazione dell’incompletezza dell’individuo e dalla volontà di asserire l’importanza del vincolo affettivo e sociale e la possibilità di vivere la propria unicità in relazione ad altri.
In tutti questi progetti la realizzazione di performance coreografate avviene con l’apporto di costumi appositamente concepiti: vere e proprie opere indossabili intese come veicoli di senso, invasi capaci di contenere desiderio e immaginazione; dispositivi attraverso i quali superare i termini della realtà; e se l’interesse dell’artista per le tematiche del meticciato, della coabitazione, del territorio condiviso della città passa per l’attenzione al corpo e per ciò che attraverso di esso può essere trasmesso, i suoi costumi sono, una volta di più, ben altro che semplici involucri. Essi si qualificano di un significato simbolico costruito nell’ambito di ampi percorsi di senso condivisi e partecipati che Marconi costruisce con un tenace lavoro.
Così Cartografie dell’Orizzonte ha generato un manto mimetico nel quale si riflette il paesaggio delle aree di frontiera; «Nel 2016 è iniziata la mia ricerca Cartografia dell’orizzonte» scrive l’artista «Il mio interesse era indagare i temi del confine e del borderscape attraverso un processo aperto insieme a cittadini, rifugiati, richiedenti asilo, basato sul loro contributo, collaborazione e coproduzione di conoscenza per osservare i linguaggi e le rappresentazioni (etnocentriche-anche le mie) legate a questi temi e per restituirne di nuove». La forma dei corpi è sfociata in una serie di indumenti collettivi intesi come contributi al «raggiungimento delle connessioni di cui abbiamo bisogno».
Coerentemente con questo orientamento generale, in Internazionale Corazon il soggetto del lavoro è la città – teatro di tutti – tanto quanto i suoi abitanti e le loro pratiche sociali e culturali. Il fulcro è l’area di Via Padova, tra le zone di maggiore mescolanza di Milano: contemporaneamente locale e globale, tradizionale e proiettata in avanti; nucleo di tensioni e concentrato di opportunità; attraversata sempre da attriti e contrasti, ma capace di trarne vitalità, e anche un certo orgoglio. L’esito è consistito nella realizzazione di una serie di abiti destinati ad essere performati.
Come racconta Marconi stessa, il progetto ha preso avvio dall’esperienza personale di una delle molteplici realtà presenti in Via Padova, quella dei Sambos del Corazon: gruppo di ballo nato oltre dieci anni fa, che vede partecipi ragazzi latini e italiani e unisce persone e famiglie con storie e culture differenti intorno a una radice culturale che rimanda all’area andina tra Perù, Bolivia, Cile, Argentina. L’artista, trasportata da questa realtà, reinterpreta la pratica del gruppo, a partire dalle danze e dai costumi caporales, mixandoli con segni e simboli nuovi. Così reinventata, sulla base di una logica che fa appello al sincretismo e alla contaminazione, la ricolloca sullo sfondo del tessuto urbano dell’area. Per parlare delle nuove possibili forme di presenza e di protagonismo cittadino; rielabora i costumi addizionandoli di “simboli, colori ed espressioni ricorrenti nel quartiere” e facendone emblemi della resistenza alla pretesa di un’omogeneità culturale. Internazionale Corazon affronta i temi della contaminazione culturale e dell’incontro con le comunità attraverso pratiche artistiche performative.
Iniziato nel 2018, è prodotto dall’associazione CURE che in quel momento stava realizzando una mappatura degli spazi pubblici utilizzati da gruppi per allenarsi o danzare. Uno di quei gruppi era Sambos de Corazon, giovani di seconda generazione o nuovi arrivati provenienti dalla Bolivia e dal Perù che ballano Caporales, una danza neo folclorica il cui ritmo si ispira alla musica dei discendenti degli schiavi africani e che oggi è estesa in molti paesi del mondo.
Il giorno che mi hanno invitato a una loro festa, a pochi passi da casa mia, nell’ex cinema porno Aurora di via Padova, affittato per l’occorrenza, sono stata catapultata in uno spazio – tempo nuovo, spaesante, altro. Centinaia di ragazzi di origine sudamericana, vestiti in abiti tradizionali fittamente decorati con ricami e paillette luccicanti, ballavano all’unisono con una gioia e una potenza straordinaria. Questa esperienza mi ha spostata, e ha contribuito a radicarmi ulteriormente nel “mio” territorio che è già campo di ricerca e sperimentazioni. Il principale tema sotteso al progetto è la rappresentanza. Una rappresentanza sociale e politica, prima che esistenziale.
Il lavoro è dunque incentrato sul danzare lo spazio pubblico, con costumi appositamente realizzati. La città, via Padova in particolare, è qui interpretata come variegato scenario, campo d’azione, spazio di esercizio individuale e collettivo, di incontri, di socializzazione, punto di approdo o snodo di traiettorie diverse, profondamente legate alla realtà geopolitica globale. Su di essa l’individuo può imprimere il proprio ritmo, il proprio temperamento, il proprio desiderio di esserci e di contare; può proiettare griglie di lettura e un linguaggio del corpo che è insieme quanto di più soggettivo, e portatore di una storia che lo oltrepassa. Se danzare è già un’asserzione potente di sé, farlo avendo per scena il territorio urbano è un modo per connettersi alla città; di più: aderire al terreno, farne esperienza fisica nel movimento sentendolo e misurandolo è un’occasione per narrare di sé in relazione al luogo.
I costumi con i loro motivi decorativi e i loro riferimenti simbolici e segni apotropaici, rimandano alle identità di provenienza, ma anche al corpo; corpo mai assoggettabile fino in fondo in quanto sede di energie vitali, di necessità, di una singolarità che resiste alle forze modellatrici e conformanti sottese all’ordine planetario. Corpo che, con l’irrompere delle energie della danza, si risveglia poeticamente nella sua plasticità, ma anche nella sua essenza profonda. È con questa doppia valenza che i costumi contribuiscono a fare della danza qualcosa in più ancora: un modo per connotare semanticamente non solo l’azione ma l’ambiente in cui questa si svolge, qualificandolo; ne risulta un atto di vera e propria appropriazione. Marconi fa realizzare i propri abiti di volta in volta a Milano o nei paesi di origine, da sarti specializzati; questo dà adito a esplorazioni del tessuto artigianale di via Padova o a lunghi viaggi in quell’America Latina che peraltro l’artista conosce, per averla ampiamente frequentata in passato. I tre abiti femminili sono stati realizzati a La Paz.
Si può dire che se questi abiti, con la loro straordinarietà, contribuiscono alla danza e alla sua travolgente carica di senso, è perché sono veicoli dotati di agentività. Attivano e si attivano, sono animati di energia e ne trasmettono. Diventano elementi centrali della relazione dei danzatori con il mondo di provenienza e con quello di approdo; modi per riposizionarsi; e antidoti rispetto al rischio di un appiattimento indotto da un pensiero che non vede il territorio come casa comune, ma osteggia ampiamente la circolazione degli abitanti della terra. Sono transitivi, malleabili, adattabili; sono pop. Esprimono mobilità, transitorietà, prossimità. Riportando immediatamente, come si è detto, alla sfera della soggettività umana e del corpo, dei comportamenti, dei rituali collettivi e della complessità del presente, sono quanto di più antiretorico, antimonumentale. Non commemorano, ma esistono in simbiosi con il corpo che lo indossa, ne condividono la vitalità, diventando realtà in movimento. Se il monumento ferma la storia, la cristallizza, afferma date, si impone sul territorio, queste opere, nate da una posizione di apertura e di ascolto, si fanno invece provvisoriamente ospitare, si infiltrano negli interstizi, nelle sue aree liminari, le più trascurate del tessuto urbano, e portano con sé un senso di collettività e condivisione; evocano la capacità di reinventarsi in relazione al luogo che trovano. In questa fase,scrive l’artista «gli abiti sono diventati medium per affermare la centralità dell’incontro tra culture e identità diverse, in una relazione che si instaura nella dimensione fisica dei corpi, vere piattaforme e luoghi di scambio».
Lo sviluppo più recente del lavoro, ancora in fase di realizzazione, vede un rilancio dell’idea di cittadinanza dei corpi, con identità fluide in termini non più solo di provenienza, ma di generi. Le distinzioni, ormai irrilevanti, lasciano spazio a sessualità trasversali. Né trasgressione, né rivendicazione, ma il senso della realtà portano Marconi a individuare nelle piazze e nelle strade cittadine figure che non hanno solo storie di migranza alle spalle, ma i cui corpi travalicano termini e codici invalsi. Con l’ausilio della danza e della sua capacità di mobilitare sta così nascendo Todes. Un passo in più, compiuto con viva e felice energia, verso un cambio di paradigma; verso un ampliamento dei modi possibili di abitare il mondo, verso una dimensione in cui ci sia spazio per la propria espressione di sé e per le potenzialità di ognuno; in direzione di una decolonizzazione che dev’essere politica, sociale, giuridica, filosofica, morale, che deve investire ogni aspetto della realtà e del pensiero, del costume, degli spazi, delle estetiche, delle rappresentazioni.
Gabi Scardi è storica dell’arte, critico e curatrice d’arte contemporanea. La sua ricerca si focalizza sulle ultime tendenze artistiche e sulle relazioni tra arte e discipline limitrofe. L’idea di arte come espressione di un sé aperta verso l’esterno l’ha portata a curare progetti espositivi ed editoriali, interventi pubblici e cicli di incontri basati su istanze di condivisione attiva e centralità dell’individuo, attenzione alle dinamiche socio-culturali. Ha curato numerose mostre in Italia e in altri paesi. È autrice di pubblicazioni tra le quali Paesaggio con figura: Arte, sfera pubblica, trasformazione sociale, ed. Allemandi. Suoi contributi compaiono regolarmente in cataloghi e pubblicazioni. Dal 2020 co-dirige la rivista Animot. È curatrice del progetto Internazionale Corazon /Todes di Francesca Marconi.