Filippo Vostro è uno spettacolo di narrazione in cui quattro voci si intrecciano per dar vita ad una storia.
Quando ero bambino, mia nonna mi raccontava la storia di Filippo.
Filippo era suo fratello ed era sparito 33 anni prima che io nascessi; nell’estate del 1943 venne mandato a combattere in Russia insieme ad altri 60,000 alpini.
Aveva 20 anni e non tornò più. Di lui non si trovò più neanche il corpo.
Filippo significa “amante dei cavalli” ed è un nome che generalmente veniva dato ai condottieri; mio zio invece era contadino e in guerra non ci voleva andare. Piuttosto, mi raccontavano, si sarebbe fatto tagliare un braccio. Di lui ho sempre saputo poco, ma quel che basta per sapere che c’era.
La narrazione ricostruisce attraverso una storia di famiglia, una drammatica vicenda nazionale: la campagna di Russia.
Filippo:
Cara mamma e caro babbo,
chi parla è Filippo vostro, anche se chi scrive è un mio commilitone che si chiama Italo. Siamo partiti due giorni fa dalla stazione di Cuneo, e ora viaggiamo verso il Brennero che vorrebbe dire che tra poco saremo fuori dall’Italia.
In questi due giorni, sul treno ho imparato a leggere l’orologio e Italo mi ha anche promesso che mi insegnerà a scrivere così le lettere potrò spedirvele io da solo, senza disturbare nessuno.
Vedeste che treno il nostro: 15 vagoni, con sopra duecentoventidue uomini più centosettanta muli. Tutta la Ventiseiesima su un treno solo. Il Colonnello prima di partire ha detto che “c’è da essere orgogliosi, alpini, di avere un treno tutto per noi”, e in effetti io un treno così lungo non l’avevo mai visto. In cima ci sono due vagoni per gli ufficiali e i sottufficiali, nel primo c’è anche un tavolo e le sedie imbottite; ci pensate, mamma e babbo, un tavolo sopra a un treno, e chi se lo immaginava, eh? Mano a mano che ci si avvicina alla fine del treno, dove ci sono i muli, le sedie imbottite spariscono e ci sono invece le panche di legno e poi la paglia. Ma anche seduti in terra con la paglia, dopo un po’ ci si abitua e si sta anche comodi.
Nel secondo vagone, quello con le seggiole imbottite io ci sono montato, e su quelle sedie lì mi ci sono pure seduto perchè mi ha invitato il Tenente Sarri che noi soldati lo chiamiamo il Tenentino ma non perchè è magro o bassetto, ma solo perchè è giovane, e ha la faccia come quella di un bimbo; però sa tutto il Tenente Sarri perchè lui fa l’università a Bologna e studia per fare il dottore come il suo babbo.
A leggere l’orologio, m’ha insegnato proprio lui e ora vi racconto com’è andata: quando ieri siamo arrivati alla stazione di Milano, che è stata la nostra prima fermata, il Tenente è montato sopra una cassetta, ma non perchè è bassetto, solo per farsi vedere da tutti, e ci ha detto “Soldati, ascoltatemi bene, ci vediamo al treno a mezzodì in punto”.
E allora io faccio “O Tenente però l’orologio io non ce l’ho mica”.
E il Tenente allora mi dice “Ma la stazione di Milano, ce l’ha e anche grosso”. E mi indica un orologio che, porco mondo, così grosso io non l’avevo mai visto, che ci sarebbero voluti cinque uomini per abbracciarlo tutto. Ma io l’orologio mica lo sapevo leggere anche se era grosso. A casa so che è mezzogiorno perché passa Enzo in bicicletta. Ma a Milano, a Milano chi passa? “O Tenente”, allora gli faccio “io l’ora la so leggere solo a casa mia”.
“Allora facciamo così Toscana”, mi chiama Toscana il Tenente Sarri “Allora facciamo così Toscana” Anche se siamo in otto a venire dalla Toscana, solo me mi chiama Toscana “Allora facciamo così Toscana” Nella divisione tutti abbiamo un soprannome e un giorno vi dirò quelli più belli “Allora facciamo così Toscana, quando hai fame ci rivediamo al treno. Poi te monti sul secondo vagone e io ti insegno a leggere l’ora.”
Cara mamma e caro babbo, per paura di perdere il treno, io dal binario non mi sono proprio mosso. Quando era l’ora e tutti sono tornati, io ero già lì bello pronto con lo zaino sulle spalle che aspettavo il Tenente. Lo dovreste vedere il secondo vagone, con le seggiole rosse imbottite e gli attendenti che servono il caffè vero nelle tazze vere di porcellana, e quando io, Filippo vostro, mi sono seduto, il Tenente ha indicato uno e gli detto: “Te, portaci due caffè bollenti vai, che abbiamo da imparare a legger l’ora. Ascolta Toscana, è facile; te i numeri li conosci, no?”
“Certo signor Tenente: 1, 2, 3, 4, 10/20/30”
“Va bene, Toscana, ci basta fino al 12. Guarda: questo è il quadrante: ci sono i numeri e poi le lancette: la lancetta grande indica i minuti, la piccola, le ore” Grande i minuti, piccola le ore. Questa cosa, cara mamma e caro babbo, però a me non mi entrava in testa: mi sembrava strano che la grande era i minuti e la piccola le ore perché un’ora è più grande di un minuto, no? E così gliel’ho detto al Tenentino e lui mi fa, mi dice: “Hai ragione Toscana, allora fai così: pensa come i matti: a rovescio”.
E io ho capito. Lancetta grande i minuti e piccola le ore. Pensare come i matti per leggere l’ora. Cara mamma e caro babbo, quando torno a casa vi prometto che insegnerò a leggere l’orologio a tutti. Ora intanto vi mando un saluto che il mio commilitone Italo non ne può più di scrivere. Ma tanto tra poco scriverò le lettere da solo e allora non dovrò disturbare nessuno e vi scriverò quanto e quando mi pare. Spero che stiate tutti bene come sto bene io: date da parte mia un abbraccio bello stretto alle mie Pietre.
Iole:
Ci chiamavano Pietre una volta. Me e le mie sorelle. Un po’ perché il nostro babbo si chiamava Pietro, un po’ perché eravamo testarde, dure come pietre. La mia mamma ci diceva sempre: “se vi sposate tutte vado in pellegrinaggio alla Madonna di Montenero. Ma chi vi piglia a voi? Ma chi vi vuole? Eh?” Lo diceva un po’ per scherzare e un po’ no.
Ora che sono vecchia mi chiamano solo Iole. E anche le mie sorelle le chiamano solo col nome di battesimo: Maria, Angela e Francesca. Si vede che anche le pietre col tempo si ammorbidiscono, no?
Filippo tutti lo chiamavano solo Filippo quando era a casa, poi però quando partì lo cominciarono a chiamare Toscana. Era così contento di quel soprannome lì. Toscana. Quante volte lo diceva nelle lettere.
Scriveva tanto Filippo, la mia mamma diceva che scriveva più di quanto parlava, e che in guerra aveva trovato le parole. Erano certe letterine fini fini che parevano trasparenti. Una volta Filippo scrisse che un suo commilitone che si chiamava Bartolan, me lo rammento ancora questo nome qui perchè mi faceva ridere, sembrava un nome che gli mancava una lettera in fondo, insomma Bartolan voleva che la fidanzata gli scrivesse tutti i giorni, e solo quelle letterine lì così fini fini, perchè poi, dice che se le fumava le lettere, ci si faceva le sigarette. Raccontava tante cose Filippo e le lettere le scriveva un suo amico perché lui per leggere, leggeva eh, ma quanto a scrivere, mica tanto. Nelle lettere diceva che stava bene anche se era freddo, che sarebbe tornato, che c’era tanta terra nera e così grassa che veniva voglia di mangiarla la terra. Poi diceva che ci voleva bene a tutti e che quando tornava ci insegnava a leggere l’ora, che a lui glielo aveva insegnato un suo Tenente.
Filippo:
Cara mamma e caro babbo,
chi parla è Filippo vostro ma chi scrive è sempre Italo che questa volta si è fatto pagare in anticipo con un pacchetto intero di sigarette Milit, perchè dovete sapere che a noi soldati ci danno due tipi di sigarette, le Milit e le Macedonia ma le Macedonia non le vuol fumare nessuno perchè come dice il mio commilitone Bartolan, “par de fumar la paja, altro che tabaco! Ma come si fa a vinser la guera con ste sigarette qui? Porco di quel” Ad ogni modo noi, da due giorni abbiamo superato il confine italiano e si cominciano a vedere i primi cartelli scritti in tedesco.
Per farvi sorridere vi voglio raccontare di questo mio commilitone che viene da Asiago che sarebbe in Veneto, e si chiama appunto Bartolan, scritto proprio così che sembra che manca una lettera in fondo. Bartolan tutti lo chiamiamo Avemmaria perché bestemmia senza neanche tirare il fiato, bestemmia il Signore, la Madonna, la fidanzata, gli imboscati, Mussolini, Stalin, quando è arrabbiato e quando è contento e a sentirlo sembra proprio di stare a teatro; ieri mattina che avevamo appena passato Vienna, Bartolan, si alza in piedi e dice “Oi, fioi, zitti tutti che g’ho da dirve una roba seria, de relison. II signor tenente ga dito che in Russia i se tuti atei magnaputei, e che nessuno crede in Dio: Maedeti! Ora, digo mi: e se non credi in Dio, se non credi gnanca in Dio: ma chi bestemmi? Porco di quel” E tutti a ridere che son due giorni che ridiamo e dal nulla uno si alza e dice “e se non credi in Dio?” e tutti in coro rispondiamo “chi bestemmi”?
Cara mamma e caro babbo noi toscani e i veneti senza bestemmiare non riusciamo a parlare, tranne un altro amico mio sempre veneto che si chiama Adelmo, è un conducente di muli e lui non bestemmia, ma si potrebbe anche dire che quasi non parla. Adelmo di soprannome lo chiamiamo Il Mulo perchè a forza di stare coi muli, è diventato un mulo tale e quale: ha la barba e i capelli di mulo, impasta la polenta come un mulo e cammina anche come un mulo preciso. Parla poco e di solito quando parla dice sempre: “Eh, porca la mula.”
Italo, aspetta un attimo alza la penna, aspetta, aspetta: te sei sicuro che a casa mia gli importa di questa roba qui? Bartolan, il tenente, le sigarette… secondo me non ci intendono nulla, Italo…son contadini a casa mia: dovrei fare come Adelmo: “Io tutto ben, spera anche voi. Saluti”. Solo che poi te che ci guadagneresti Italo? Un paio di sigarette, e bisogna che pensi anche a te, poveraccio. Sai invece che idea ho avuto prima, eh Italo? Quando si torna a casa, io e te ci si mette a coltivare il tabacco, eh? Così alle brutte da fumare ce l’abbiamo… chissà che ore abbiamo fatto? Quando torno a casa bisogna che mi procuri un orologio mio, altrimenti è inutile saperlo leggere. A quest’ora sicuro che il mio babbo è nel campo, è sempre nel campo lui dio bono.
Pietro:
Ero sempre nel campo io. Quel giorno lì che al mi’ figliolo, Filippo, gli arrivò la cartolina ero nel campo. Era il febbraio del 42. Ho visto la Pasquina che era la mi moglie che veniva di corsa e mi dice “Oh, Filippo parte per la Russia, eh.” Era il 42 e io la Russia non sapevo neanche dov’era.
“Bisogna trovare almeno tre paia di calzini di lana e poi le mutande sempre di lana e la maglia di sotto.”
Aspetta Pasquina, parla piano, ma Filippo il nostro, sei sicura?
E lei continuava “Tre paia di calzini e le mutande e la maglia di sotto che in Russia è freddo, mica come da noi.”
O te come lo sai che in Russia è freddo, dio bono, Pasquina, sai sempre tutto te. E Filippo che dice? Dov’è ora?
Filippo era a casa. In cucina. Seduto al tavolino. Si guardava le mani e stava zitto.
Mi sono seduto anch’io e gli avrei voluto chiedere dov’era questa Russia, perché proprio te? E’ vero che c’è così freddo come dice la mamma? E poi quando torni Filippo, eh? Quando torni? Ma io ero il babbo e lui il figliolo e quelle domande lì non gliele potevo fare e allora mi son messo lì seduto. Zitto. Lui era lì e io qui.
E lui ancora a guardarsi le mani come se potesse trovarlo sulle mani quello che mi doveva dire. E poi mi fa quella domanda lì. Mi dice “Voi babbo me lo tagliereste un braccio?”
“Voi babbo me lo tagliereste un braccio dal gomito in giù, il sinistro, con un pennato, ce la fate con un colpo solo?”
Me lo ridice come se io potessi tagliarglielo per davvero il braccio al mio figliolo, me lo dice serio.
“Voi babbo me lo tagliereste un braccio dal gomito in giù, il sinistro, col pennato? Così resto a casa. Non devo partire.
E io zitto e come si fa a risponde a una domanda così. Che si dice?
Filippo:
Cara mamma e caro babbo,
chi parla è Filippo vostro e chi scrive è sempre Italo che dice che ormai si sente pure lui figlio vostro e vi saluta con affetto. Noi abbiamo superato Berlino, che sarebbe la capitale della Germania e ieri siamo entrati in Polonia.
Sul treno ci siamo organizzati per bene che sembra di stare in una casa: abbiamo tirato dei fili per stendere i panni, messo delle cassette per scrivere le lettere e per giocare a carte; si dorme tanto e si mangia quanto basta. L’unica cosa che non basta mai son le sigarette. Pensate che il mio commilitone Bartolan si fa scrivere tutti i giorni dalla fidanzata. E ieri il Tenente gli ha chiesto “Avemmaria te non ce l’hai la lettera della morosa?” E lui “G’avevo. Ma l’ho già fumà tutta.”
Cara mamma e caro babbo, io in treno sto facendo la scuola. Come vi avevo scritto, ho imparato orologio col tenente Sarri e poi sto imparando lingue coi commilitoni.
Da Milano a Vienna ho imparato il piemontese perchè son della cuneense ed è sempre bene saper la lingua madre. Da Berlino a Varsavia il Sardo. Quello è stato facile. Basta che stai zitto. Imparato. Poi, dopo Varsavia ho imparato il Veneto e mi riprometto di imparare anche il lombardo.
A Varsavia che sarebbe in Polonia ho iniziato a fare anche religione, sempre col tenente Sarri, sempre in treno. Alla stazione di Varsavia infatti abbiamo visto gli ebrei.
Cara mamma e caro babbo, io un ebreo non l’avevo mai visto dal vivo. Ma mi sono sembrati uguali spiccicati a noi. È più facile che Adelmo, quel mio commilitone che non parla mai oppure Bartolan, detto avemmaria, li scambiate per ebrei che per tedeschi. Per dire.
Questi ebrei di Varsavia erano donne, vecchi, bimbetti: mezzi nudi sulle rotaie, sembravano tutti occhi da tanto erano magri e ci hanno fatto una gran pena e compassione a tutti. E allora sono andato dal Tenente a chiedere spiegazioni ma quando ero lì mi è venuto solo di dire “Tenente ma che stella è quella lì che hanno attaccata al braccio?”
“La stella di David, Toscana”
E chi era David, tenente?
“Quello di Davide e Golia, mariavvergine, Toscana, non hai mai fatto il catechismo te?”
E son rimasto lì con un sacco di domande ma senza saper che dire e allora il tenente che si accorge di tutto ha tagliato corto: “Toscana adesso torna al tuo vagone che è ora di mangiare”
O Italo, aspetta, aspetta, alza la penna un attimo, aspetta, magari questa roba degli ebrei si leva, eh? Che dici? Sennò si impressionano a casa mia… togli tutta la roba della stazione, strappa il foglio, “Bartolan, vieni che oggi ti faccio fumare anche un pezzo di lettera mia, vai” e noi finiamo la lettera così: Cara mamma e caro babbo, ora però vi saluto perchè Italo dice che se non lo ammazzano i russi, lo ammazzo io a forza di scrivere lettere. Vi penso sempre e mi mancate tutti, ieri notte ho sognato i tordelli della mamma, quelli che fa a Natale.
Pasquina:
A Natale faccio i tordelli. In casa mia si son sempre fatti. Perchè Natale è festa per tutti. A Filippo mio gli garban tanto. Vedeste quanti ne mangia. E quanti ne mangerebbe. Io li faccio a modo, li chiudo a mano, con la forchetta uno a uno. Prima faccio la pasta e poi la taglio col bicchiere girato e vengon tanti dischetti. L’importante è che la pasta non sia troppo alta sennò non cuoce ma neanche troppo fine sennò i tordelli mi si rompono. Poi, metto tutti i dischetti sul tavolino e li empio con una forchettata di pieno. Il pieno va fatto il giorno prima e poi lasciato a riposare, questo è importante, minimo dodici ore va lasciato fermo: pane, formaggio, macinato e quando c’è un pochino di mortadella. E poi sale, pepe, noce moscata e aglio. Quando ho riempito tutti i dischetti li chiudo con la punta della forchetta. A mano a mano che i tordelli sono pronti li metto su una tovaglia bianca e poi li conto. Devono essere otto per uno. In tutto 72 tordelli. 72 tordelli vuol dire che siamo tutti.
Filippo:
Cara mamma e caro babbo,
siamo arrivati sul Don: da una parte, noi, dall’altra i russi, a destra i tedeschi e sinistra altri alpini ma della Julia. Appena abbiamo scaricato tutto è arrivato il Tenente Sarri e ha detto «Soldati, ascoltatemi bene perchè qui ci lasciamo le palle. L’unica cosa per resistere al freddo russo è scavar tane, scavare tane come topi. Avete mai visto voi un topo che muore di freddo?»
«Tenente, però a casa mia no go mai visto gnanca un cristian morir de fredo».
Porco mondo, Bartolan c’ha sempre la risposta pronta! Che neanche il tenente riesce a stargli dietro. Comunque poi ci siamo messi a scavar buche, e le abbiamo ricoperte con assi, paglia e terra. Tane di topi, cara mamma e caro babbo e i topi siamo noi.
Nel giro di pochi giorni queste tane qui per noi sono diventate casa, casa sotto terra ma sempre casa, sui pali di sostegno della nostra tana abbiamo attaccato le cartoline e le foto delle morose e anche uno specchio per farsi la barba. E poi abbiamo una stufa tutta nostra. E le cuccette. Tutto sotto terra. Questa puzza qui, quest’odore di sudore, misto a grasso per la mitragliatrice e caffè, è diventato odore di casa.
Arrivato novembre, in Russia è arrivata la neve. A casa nostra quando nevica siamo tutti a far festa che nevica una volta ogni 4/5 anni. Da noi, i fiocchi son piccini così e son quasi caldi. Cascano in terra e spariscono subito. Qui in Russia vengono giù palle di neve. In un’ora, diventa tutto bianco.
Pietro:
Mi sarebbe garbato andare in Russia anche a me per capire com’è quel freddo lì. Quel freddo lì che ha patito il mi’ Filippo. In Russia c’erano 40 gradi sotto zero, l’ha scritto Filippo nelle lettere, e come si fa a capire 40 gradi sotto zero? Eh? Ci sarebbe da strapparsi la pelle, i capelli, i muscoli di dosso. Altro che levarsi i vestiti.
E allora delle volte mi sdraio sul letto tutto nudo con la finestra aperta e mi metto addosso un lenzuolo bagnato. E sento che il freddo pianino pianino mi piglia un pezzetto alla volta. Prima perdo i piedi e le mani, poi il naso e le orecchie, i labbri, poi le cosce i bracci. Poi comincio a perdere i pensieri. Non sento nulla e non penso più a nulla. Come se morissi un pezzettino alla volta. Almeno io da morto mi immagino che è così. Che non soffri. Che non hai paura. Che non hai pensieri.
Filippo:
Cara mamma e caro babbo,
Oggi è passato il cappellano militare e ci ha lasciato qualche stecca di sigaretta, ma purtoppo solo Macedonia e niente Milit e allora Bartolan ha iniziato a bestemmiare anche davanti al prete. Italo dice che se la guerra si facesse a bestemmie con Bartolan avremmo vinto di sicuro.
Cara mamma e caro babbo, appena che il cappellano è uscito, un mio commilitone che era di guardia ha iniziato a urlare “O, guardate che cominciano a festeggiare anche i russi. Tenente festeggiano il Natale, Bartolan, uscite! Mica è vero che non credono a un cazzo. Sentite che botti, sembra la fiera del paese. O venite a vedere. E certo che quando festeggiano i russi festeggiano per davvero, senti che fuochi d’artificio. Senti che, dio bono, senti là, senti che, senti dio bono”
Cara mamma e caro babbo, quelli lì però mica erano botti di Natale.
Filippo:
Cara mamma e caro babbo,
chi parla è Filippo vostro e anche chi scrive. Come promesso vi spedisco la prima lettera dalla Russia scritta da solo. Il giorno di Natale sembrava che i russi sparassero i fuochi d’artificio ma quella lì era la controffensiva russa. Per quattro giorni e quattro notti hanno sparato certi razzi che anche di notte era giorno e il cielo cascava a pezzi. Cara mamma e caro babbo per quattro giorni e quattro notti la terra ha tremato, e la sabbia e la neve colavano dentro le tane e dormire era difficile ed era anche l’ultimo pensiero. Abbiamo sparato e mangiato e pisciato in mezzo ai commilitoni morti. Perché la guerra è così: ti fa sembrare normali cose matte, la guerra è il mondo alla rovescia.
L’Armata Rossa ha sfondato il fronte che sarebbe la linea che divideva i russi da noi italiani e che poi era il fiume Don come certo vi ricorderete. I russi sono passati a destra e a sinistra e noi continuavamo a sparare e sparare davanti ma ormai loro erano da tutte le parti: davanti, dietro, a destra, a sinistra.
Cara mamma e caro babbo, per aiutarmi a non pensare conto i passi. Arrivo fino a cento e poi ricomincio. Un passo dietro l’altro. Benzina finita. “Adelmo dove sei, porca la mula?” Un passo dietro l’altro, munizioni finite, un passo dietro l’altro, rancio finito. “Bartolan? E se non credi in dio? Chi bestemmi…” Le dita dei piedi si staccano dal freddo e le lasci per terra. Pezzi di alpini sparsi sulla neve, macchie verdi sulla neve che chiamano mamma e madonna. Mamma e madonna, “dai alzati, dai porco mondo che dobbiamo tornare a casa. Tenente: lancetta piccole le ore, grande i minuti, pensare come i matti per leggere l’ora, pensare come i matti per fare la guerra. Ora che torno a casa lo insegno a tutti poi però chi è che ci compra l’orologio a noi?” Cara mamma e caro babbo, questa lettera è la prima lettera che scrivo e se Italo fosse qui vi saluterebbe come vi saluto io.
Pasquina:
Dopo tre anni che era finita la guerra andai dalla Divina. La Divina era una che segnava le verruche e levava anche il malocchio. Se c’avevi il malocchio lei pigliava tre mazzetti di stipa da una granata nuova, poi li metteva davanti a una tazza piena d’acqua. La stipa era per spazzare il male e l’acqua per lavarlo via. Io però non c’andai per il malocchio, c’andai per sapere se Filippo tornava. Se era morto o no, se tornava o no. La Divina prese una tazza d’acqua e me la mise in testa. Poi ci mise tre gocce d’olio. E stava zitta. O Divina ma che fate? Ditemi qualcosa. Che avete visto? La Divina stava zitta, poi tutto d’un tratto prese la tazza, la rovesciò nel’acquaio e mi si mise davanti. Mi disse che dovevo stare tranquilla, che Filippo ora stava bene, che una brava signora l’aveva sotterrato e che era morto bene. Disse così. E io ci credo.
Pietro:
Ora mi chiedo che mi sarebbe costato spezzarglielo quel braccio lì. Ora che il mio figliolo è morto in Russia. Ora che tutto il mi’ Filippo è andato perso come si perde un bottone nei campi. Ora che Filippo ce lo potrei avere qui davanti a me, vecchio anche lui, coi figlioli e i nipoti, ora mi chiedo che mi sarebbe costato spezzarglielo quel braccio lì. Tagliarglielo come quando col pennato tagliavo di netto i rami degli ulivi. Mozzarlo come avrei voluto mozzare le teste di Stalin e Hitler e Mussolini, fargliele saltare le teste a quei bastardi e poi continuare a aprire in due le teste di tutti quelli che hanno ammazzato Filippo: al soldato che m’ha fatto firmare che Filippo era morto, testa tagliata, al prete che ha benedetto il treno degli alpini, testa tagliata, e generali, colonnelli, e a tutti quelli che non gli basta la roba che hanno, e poi con un colpo secco spezzarmi anche questa grandissima testa di merda che non gliel’ho voluto tagliare il braccio al mio figliolo e che a quest’ora era sempre vivo.
Filippo:
Cara mamma e caro babbo,
chi parla è Filippo vostro e anche chi scrive è Filippo vostro, che Italo non lo vedo ormai da otto giorni cento e ora le facce di quelli che ho d’intorno sembrano tutte uguali, ma noi uguali eravamo già prima, perchè quelli diversi mica son partiti. Quelli diversi mica partono.
Cara mamma e caro babbo chi parla è Filippo vostro ma non scrive mica nessuno, perchè io cammino da ventimila giorni di centomila ore e a scrivere non ho mai imparato che in Russia non c’è mai stato tempo e allora queste due lettere le scrivo solo nel mio cervello e le scrivo a voi mentre cammino con quaranta gradi sotto zero a contare i passi un passo dietro l’altro.
“Mi sarebbe garbato provà quel freddo lì che hai patito, ma ci sarebbe stato da strapparsi i vestiti, la pelle, i muscoli di dosso”
“Mi garberebbe andare avanti ve lo giuro, tornare a casa e insegnarvi a leggere l’orologio a tutti, e portare a ballare le mie Pietre”
“Che se non ci trovi marito te, a noi chi ce lo trova, eh Filippo?”
“Ma sono stanco proprio e allora mi inginocchio leggero sulla neve mentre vi parlo ma voi state qui con me, facciamo finta che siamo a casa, eh, che dite?”
“Sì, facciamo finta che siamo a casa e che sei ancora bimbo e ti tengo in braccio.”
“Facciamo finta che siamo a casa nel campo a zappare forte col sole che ci scalda la schiena.”
“Facciamo finta che siamo piccini tutti e due, eh Filippo, che dici? Mi sarebbe garbato essere piccini insieme.”
“Oppure facciamo finta che son rimasto qui in Russia, eh? che i contadini servon sempre, senza contadini la terra muore.
Ma il padrone, mamma, il padrone a che serve?”
“Il padrone, bimbo mio, il padrone serve solo a prenderti i figlioli e a non ridarteli più.”
“Piano piano ho visto sparire le facce di tutti: Italo, Bartolan, Adelmo, il Tenente, ve li ricordate, no? perchè non ci si riconosce più che qui trenta giorni di guerra son come ventimila anni di freddo e paura. E ora mi levo i guanti, la giacca, i pantaloni, le scarpe. Tutto, che tanto la carne nostra che vale, eh Babbo?”
“La carne nostra vale meno delle foglie di granturco, bimbo mio e avevi ragione te, hai sempre avuto ragione te ma come si faceva a rispondere a una domanda così?”
Ora mi guardo le braccia, la pancia, i piedi, le mani ma roba mia non è, perchè se fosse stata roba mia, io non l’avrei mica portata in Russia a far la guerra, io per conto mio l’avrei lasciata a casa a vangare e a far l’amore. E alla patria, cara mamma e caro babbo, a questa patria qui dei padroni, e dei fascisti, gli avrei mandato solo un braccio.
“Cara mamma e caro babbo, bastava nascer dieci anni dopo”
“bastava nascer ricchi”
“bastava che i padroni non ci fossero stati mai”
“o che ognuno era padrone per se e basta.”
E ora mi accorgo che la vita finisce qui da solo con la neve al posto della terra.
E mi sembra che quest’attimo qui sarà tutta la vita e allora, mica è questione di essere matti: è che la nostra carne vale nulla e che è meglio perdere un braccio che perder tutto. Ma ora è tardi, son stanco proprio e mi vedo dall’alto e divento sempre più piccino come un bimbo, sono proprio io ma piccino. Filippo Pardini detto Il Toscana. Che pur di campare e di non ammazzare nessuno, si sarebbe fatto tagliare un braccio.
Luca Barsottelli è laureato in Filosofia e diplomato come attore presso la Fondazione Pontedera Teatro. Autore di testi di teatro per bambini e adulti e operatore di teatro nelle scuole pubbliche. Nel 2009, assieme a Mirtilla Pedrini e Serena Guardone, fonda La Bottega del Teatro.