Il reale è ciò in cui, presto o tardi, alla fine si risolveranno le informazioni e il ragionamento, e che è quindi indipendente dagli erramenti di ogni singolo individuo. Così, l’autentica origine del concetto di realtà mostra che questo concetto implica essenzialmente la nozione di una COMUNITÀ […] la serie delle cognizioni reali e quella delle cognizioni irreali […] consistono rispettivamente di quelle cognizioni che […] la comunità in futuro continuerà sempre a ri-affermare, e di quelle cognizioni che, nelle stesse condizioni, la comunità in futuro continuerà a negare. […] Ciò che è pensato in queste cognizioni è il reale, come realmente è. Non vi è niente, dunque, che ci impedisca di conoscere le cose esterne come realmente sono, ed è assai probabile che le conosciamo proprio così in innumerevoli casi, sebbene non possiamo mai essere assolutamente certi di conoscerle effettivamente così in nessun caso specifico. […] Infine, qualsiasi cosa realmente esiste, è ciò che di essa si potrebbe conoscere nell’ideale condizione finale di completa informazione. Quindi, quale sia la realtà di ogni cosa dipende dalla decisione finale della comunità.1
Nella cultura occidentale il pensiero è strettamente legato al piano visivo, sia nelle modalità del suo farsi, sia nella sua esistenza ontologica. La relazione tra sfera cognitiva e vista è radicata sin dentro il piano linguistico: la quasi totalità delle lingue europee si riferisce all’attività proiettivo-intellettiva con una parola che si basa sulla predominanza della dimensione visiva rispetto agli altri livelli del sensorio. In particolare, etimologicamente le parole di riferimento sono, dal greco, phantasìa e, dal latino, imago. La prima deriva da phantàzò, “faccio apparire”, “mostro”, che a sua volta deriva dalla radice phaino, “presento alla vista”, phanos, “luce”, e phantos, visibile; la seconda ha uno sviluppo etimologico più incerto, probabile contrazione del latino imitaginem e mimaginem, della stessa radice del greco mimos, “imitatore” – che ne sottolinea l’accezione di rappresentazione e riproduzione della realtà -, e arriva nel presente della lingua viva con lampante coincidenza lessicale nella parola immagine. Dunque, i termini fantasia e immaginazione hanno per nascita uno strettissimo rapporto con ciò che si dà alla vista.
In tale contesto culturale di forte coincidenza tra significato e lingua, nasce e si instaura il concetto di museo come luogo del mostrare, espositore di culture, meccanismo di presentazione. La Storia del museo è, dunque, principalmente una Storia dello sguardo, è la teoria della rappresentazione delle rappresentazioni. Il museo è un contenitore di oggetti che rappresentano altri oggetti, che fanno le veci di altre cose, e che diventa esso stesso oggetto rappresentativo, come in un sistema frattale.
All’intero delle innumerevoli tipologie di museo, il museo della memoria è quello che più mette alla prova il meccanismo espositivo; lungi dall’essere un semplice luogo di rievocazione, questa tipologia di museo sfida le procedure e le consuetudini del mostrare perché il suo oggetto, la memoria, è un oggetto complesso, multisfaccettato, talvolta sfuggevole, sia per la difficoltà insita nel recuperare un’aderenza tra elementi materiali e passato, sia per il suo difficile posizionarsi tra la verità del reale e il vissuto personale, tra il ricordo del singolo e la storia della collettività.
Il Museo della Memoria di Ustica di Bologna, data la peculiarità dell’evento storico che va a raccontare, sembra fare da eco al questionamento concettuale interno a tutti i musei della memoria.
Museo per la Memoria di Ustica, veduta di allestimento. Foto di Sandro Capati
La sera del 27 giugno 1980 l’aereo DC9 I-TIGI della compagnia Itavia parte dall’areoporto Guglielmo Marconi di Bologna diretto a Palermo, trasportando 81 passeggeri. L’ultimo contatto radio con una cabina di controllo avviene alle 20:58; alle 21:04 l’equipaggio dell’aereo viene contattato per autorizzare l’avvio della fase di atterraggio, ma non risponde. Nell’arco di quei quattro minuti l’aereo precipita misteriosamente, in prossimità di Ustica, portando fatalmente con sé tutte le persone che vi erano a bordo. Dopo una prima serie di ipotesi non confermate su cui si concentrarono le indagini (cedimento strutturale, collisione in volo, esplosione di una bomba, abbattimento causato da un missile), quei quattro minuti di dubbio e silenzio si espansero a divenire sei anni, fin quando, nel 1986, un’approfondita inchiesta giornalistica individuò la causa dell’incidente in un’azione militare andata fuori controllo. Era solo l’inizio dello svelamento di quello che si sarebbe confermato come un segreto di Stato terribile nel suo evidenziare un vuoto di contatto tra lo Stato come istituzione e lo Stato nella sua composizione umana, nella sua collettività di persone, dolente nel suo occultamento di una verità doverosa nei confronti delle famiglie delle vittime e di tutta la cittadinanza italiana. La mobilitazione dell’opinione pubblica e la fondazione dell’Associazione dei Parenti delle Vittime della Strage di Ustica, per iniziativa di Daria Bonfietti, spinsero il parlamento a prendere una posizione riguardo la vicenda, che nel 1989 venne presa in esame dalla Commissione Parlamentare Stragi.2
Il fatto e la verità del fatto sono state a lungo sostituite, nell’immaginario ufficiale e collettivo, da una serie di menzogne tra loro incongruenti. La memoria della strage di Ustica è ricomparsa per ricostruzione, il passato si è strutturato nel presente attraverso un’indagine privata e umana e giuridica che ha raccolto degli indizi residuali. Il Museo della Memoria di Ustica non si pone nella retorica del monumento, non viene creato per attestare un fatto. E’ uno spazio che affronta la difficoltà di restituire la memoria (istituzionalizzata) di un evento di cui a lungo non si è posseduta una dichiarata dinamica di causa-effetto, di cui il relitto dell’aereo (recuperato dai fondali marini in due fasi, nel 1987 e nel 1991) era l’unico testimone.
Il Museo è il luogo dove l’aereo è stato consegnato; attorno a questo Christian Boltanski ha concepito l’installazione, stabilendo una distanza ieratica tra il relitto e il mondo. L’aereo a brandelli, fatto di stracci di metallo, è ricomposto al centro della sala; un corridoio balconato e percorribile costeggia il perimetro della struttura architettonica. La circolarità del percorso espositivo invita il visitatore a girare ripetutamente attorno al relitto, in una ridondanza indagatoria.
Su tre delle quattro pareti è presente una fila di specchi neri, 81 in totale, come il numero delle vittime, che rendono difficile la visione della realtà che riflettono ma che restituiscono bene la percezione dell’indeterminatezza, dell’incomprensibile, dello smarrimento cognitivo. Dietro ogni specchio è nascosto un altoparlante attraverso cui Boltanski lavora nella logica del frammento e della sinestesia: ciascuno specchio quasi-cieco ha una voce, tante voci. Le voci che ne escono sono la simulazione degli ultimi pensieri di quei passeggeri, discorsi particolari e particellari di cui non si riesce a tenere il filo. Le identità individuali scivolano l’una dentro l’altra per costituirsi come una memoria collettiva che raccoglie il vissuto comune di tutte le vittime della strage. Le singole storie personali sono affondate nel processo evocativo da cui riaffiorano per suggestione, colte strettamente nel punto che ne ha segnato il destino comune.
La tipologia del museo della memoria solitamente presenta gli oggetti posti sotto teca, strappati al loro valore d’uso e alla contestualizzazione esitenziale di provenienza. Ogni oggetto così si appiattisce, perde la sua tridimensionalità, schiacciato sotto il vetro dell’espositore, e in quell’operazione perde anche il suo posizionamento nella realtà. Ogni oggetto diviene immagine dell’oggetto (immagine di se stesso, oppure oggetto-immagine3); i suoi colori, la sua forma, la sua materia, il suo portato culturale, diventano immagine concettuale, superficie di presentazione che rimanda a qualcosa che è fuori dall’espositore, fuori dal museo, dov’era l’oggetto quando aveva un posto nel flusso del reale, prima di essere bloccato nella dimensione retrospettiva della storicizzazione, ermeneutica e conclusa.
La raccolta tassonomica di cose spesso operata da Boltanski nei suoi lavori ha già di per sé un altro carattere, quello identitario, che sancisce un rimando tra l’oggetto e la persona che lo possedeva, dunque ogni cosa (e il ricordo che vi è legato), nelle sue opere, non è un documento ma è elemento vivo nell’identità, sempre presente, incastonato nello scorrere del reale: è il passato riattivato nel contingente.
Nel Museo della Memoria, l’artista ha fatto un ulteriore passaggio cercando un linguaggio differente con cui trasmettere i ricordi, un linguaggio che includesse lo stato di danneggiamento e oscuramento a cui erano stati sottoposti quei ricordi, resi silenti, nascosti e incomunicabili dall’alterazione sistematica di fatti, responsabilità e documenti relativi all’episodio di Ustica. Un linguaggio che arriva a mettere in crisi il sistema espositivo stesso.
Se generalmente nelle opere di Boltanski, che da sempre si è interrogato sulla persistenza della memoria e sull’identità proiettata oltre l’io, l’oggetto occupa il ruolo del soggetto assente e si dà come sostituto del soggetto, recando su di sé tutti gli elementi dell’identità che rappresenta, in questa installazione gli oggetti appartenuti ai passeggeri dell’aereo si danno come assenza. Il ricordo del passato, nel Museo non è enunciativo né denominativo né rappresentativo; l’elenco nominale e la tassonomia documentaria non sono presi in considerazione come elementi di presentazione. In effetti, però, la questione va posta su un altro piano: gli oggetti di Ustica non sono assenti, sono presenti ma nascosti alla vista. Chiusi in nove grandi casse di legno, avvolte singolarmente in un involucro di plastica nera (che le sottrae ulteriormente alla vista, rendendole come espositori ciechi e accecanti), gli oggetti sono custoditi come reliquie. Il visitatore può conoscerli solo attraverso un opuscolo intitolato “Lista degli oggetti appartenuti ai passeggeri del volo IH 870” che viene fornito all’ingresso del Museo. Nell’opuscolo compare l’elenco nominale di cose come scarpe, abiti, giocattoli, cui segue la loro riproduzione in immagini fotografiche, piccole pochi centimetri, in bassa risoluzione e in bianco e nero. Sono oggetti di pensiero4 che sfuggono alla vista per sfuggire all’immagine e quindi all’archiviazione, allo stoccaggio. Sfuggono alla presentazione per restare presenti.
Secondo lo stesso procedimento, l’installazione fissa la sua ragion d’essere sulla presentificazione del passato. Il museo della memoria in questo caso è un museo di arte contemporanea e non un museo storico che, di consuetudine, si limita a usufruire di elementi materiali nel loro status di documenti.
Collocando l’installazione tra l’oggetto e l’immagine dell’oggetto, qui l’arte contemporanea supera il sistema della rappresentazione e si apre come metodo di storiografia contemporanea, come operazione critica degli eventi passati attraverso il portato residuale che persiste nel presente. L’istituzione museale si mette in posizione dialettica rispetto al vuoto istituzionale verificatosi nella strage di Ustica, dà l’avvio al superamento della storiografia intesa come semplice documentazione e interpretazione del passato e afferma un fare una storiografia contemporanea che interpreta il passato nella sua persistenza nel presente, una storiografia protesa alla formazione di una coscienza critica civile contemporanea, civile e collettiva.
Il Museo della Memoria di Ustica è un museo crepuscolare, illuminato solo da luce naturale e da 81 piccole luci che sembrano sempre sul punto di spegnersi ma sempre tornano a pulsare, in un ritmo lentissimo di accensione e spegnimento. Un’illuminazione, simbolica e non funzionale, dove non c’è intermittenza ma piuttosto un flusso continuo dal buio alla luce, che veicola la riflessione artistica, politica e umana attraverso la differenza tra ciò che esiste e ciò che è visibile, tra la verità e l’immagine.
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Immagine di copertina: Museo per la Memoria di Ustica, particolare. Foto di Sandro Capati
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1 C.S. Peirce, Opere, a cura di M. A. Bonfantini e G. Proni, pp. 107, 109, Bompiani, Milano 2003; in R. Signorini, Appunti sulla fotografia nel pensiero di Charles S. Peirce, pp. 36 – 37, pubblicazione gratuita online, 2009
2 Ulteriori informazioni sulla vicenda storica e giuridica del caso possono essere trovate sul sito www.museomemoriaustica.it
3 Il binomio è da intendersi nell’accezione husserliana, cioè come immagine rappresentante, come ciò che sta per qualcos’altro.
4 “[…] emerge un orientamento semantico che collega l’immagine innanzitutto a una rappresentazione mediata, mista, la quale consente contemporaneamente di unire e opporre due entità o piani contrari, mantenendo fermo il presupposto che nelle concezioni filosofiche della conoscenza sussistano da un lato la realà oggettiva delle cose così come ci viene presentata mediante l’intuizione sensibile e dall’altro un livello d’informazione astratta, concetto o idea, mediante il quale noi ci dotiamo di oggetti di pensiero indipendentemente dalla loro configurazione empirica.” [J.-J. Wunenburger, Filosofia delle immagini, Einaudi, Torino, 2014, p. 14].
Bibliografia
J. Derrida, Memorie di cieco. L’autoritratto e altre rovine, Abscondita, Milano, 2003
D. Eccher, Christian Boltanski, Edizioni Charta, Milano, 1997
P. Montesperelli, Sociologia della memoria, Laterza, Roma – Bari, 2003
J.- P. Sartre, L’immaginario. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione, Einaudi, Torino, 2007
J. – P. Sartre, L’immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni, Bompiani, Milano, 1972
R. Signorini, Appunti sulla fotografia nel pensiero di Charles S. Peirce, pubblicazione gratuita online, 2009
S. Troisi, (a cura di), Boltanski. Monte di Pietà, Edizioni Charta, Milano, 2001
J.- J. Wunenburger, Filosofia delle immagini, Einaudi, Torino, 2014
Jamila Campagna nata a Latina nel 1987, laureata in Scienze Storico-artistiche, presso l’Università La Sapienza di Roma, con una tesi in Storia della fotografia contemporanea, considera lo studio della Storia dell’arte come una sorta di summa mundi, punto d’incontro di tutte le discipline. Parallelamente agli studi universitari, nel 2009 ha conseguito un diploma presso la Scuola Romana di Fotografia, specializzandosi in Reportage fotografico presso l’Istituto Superiore di Fotografia e Comunicazione Integrata di Roma, nel 2010. Nel 2013 ha inoltre conseguito il Master Curatore Museale e di Eventi presso lo IED di Roma. Fa attualmente parte del collettivo curatoriale Il Muro.