Ph. Marco Mastroianni
.A distanza di qualche mese dalla conclusione di Equilibri, mostra nata come un’installazione diffusa presso gli spazi di Maison Ventidue, inizia questa conversazione con la giovane artista Giorgia Valmorri. Ciò che rende davvero interessante la sua ricerca è un lavoro che si posiziona tra sentimento dello spazio e relazione come fulcro centrale del processo artistico. In questa direzione emerge chiaramente quel significato di arte che de-struttura la creazione di qualcosa di nuovo e una fruizione “guidata” e “statica” delle opere. Questo processo sostiene altre priorità dell’artista, che nascono principalmente dal voler sviluppare un dialogo aperto e in divenire tra l’opera e chi si pone si fronte ad essa. E’ un’opera mai conclusa che attende costanti interferenze. E’ un’opera che è organica solo quando si relaziona con le persone instaurando quel valore di connettività che rende l’arte viva, rivelatrice e che diventa divergente rispetto ad una narrazione museale.
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V.P.: Come è avvenuto l’incontro tra te e la realtà di Maison Ventidue?
G.V.: Il progetto di questa mostra si è basato sull’utilizzo dello spazio di una casa privata situata in un palazzo di Bologna. Una casa molto grande dagli spazi molto belli e suggestivi, il cui obiettivo è quello di aprirsi al pubblico attraverso progetti ed eventi. Era la prima volta che i proprietari valutavano di ospitare nella loro casa un progetto installativo perché fino ad allora lo spazio era usato per eventi, concerti e performance. La loro volontà non era quella di creare un’estetica dell’ambiente ma gli interessava mettere in risalto l’aspetto del luogo familiare della casa e del modo in cui viene vissuta. Pur non sapendo anticipatamente questo, io gli ho presentato il mio progetto e in questo senso si sono incontrate le nostre proposte. Non ci conoscevamo, ci siamo incontrati e conosciuti in relazione alla mia proposta. Da qui è partito il tutto, per caso.
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V.P.: Qual’è il tema centrale del lavoro che hai proposto?
G.V.: L’idea che ho proposto, prima ancora di conoscerci, è stata quella di creare degli interventi che potessero vivere in alcuni punti precisi dello spazio. Inizialmente sono andata due giorni a settimana a fare sopralluoghi nella casa e dopo una pausa nella quale ho delineato tutto ho iniziato il lavoro.
Quando il progetto è iniziato l’indicazione che ho dato loro per tutto il tempo della mia permanenza è stata quella di vivere la casa indipendentemente dalla mia presenza. Avrei posizionato in punti precisi le mie opere. Il punto centrale del lavoro era che le persone in visita alla mostra avrebbero potuto interagire liberamente con le opere. Per l’inaugurazione le installazioni sarebbero state dove le avevo collocate, poi durante la settimana tutto sarebbe potuto mutare e prendere altre forme, restituendo così una nuova forma alle installazioni al momento della chiusura. L’indicazione era quella di non spostare assolutamente nulla. Per me questo era importante per testimoniare la presenza e il passaggio di vita all’interno degli spazi. Con l’inizio del progetto è stato proposto a Marco Mastroianni, fotografo, di creare un reportage per tutta la fase installattiva, vivere all’interno dello spazio per la durata della mostra e nella fase di allestimento, così da poter testimoniare tutte le trasformazioni della casa. Abbiamo stabilito insieme che durante l’inaugurazione della mostra ci sarebbe stata una cena, realizzata da Valeria di KitcheninRock, dove i piatti avrebbero attinto idee dalle opere, anche Valeria avrebbe dovuto interagire con le opere lasciando tracce dei passaggi delle cotture dei cibi serviti. Cerco di portare avanti alcune medesime cose per creare una connettività che va oltre quel singolo momento. Come nel caso dell’istallazione “Arso”, nel salone principale, dove la gente veniva munita di un kit, dove all’interno si trovava un filo di silicone, con il quale avrebbe potuto interagire con essa oppure al di fuori del contesto della mostra, collegando persone, oggetti, luoghi, restituendo una testimonianza fotografica. Nell’installazione “Passaggi” ho lasciato a disposizione della gente, semplici tavolette d’argilla fresca, sulla quale erano invitati a lasciare una traccia della loro presenza in quel luogo e in quel preciso momento. Successivamente all’inaugurazione la mostra è stata aperta tre ore al giorno e l’afflusso di visitatori è stato interessante, considerando che Maison non è uno spazio deputato all’esposizione e non ha neppure una segnaletica di riferimento fuori dal palazzo. Pur essendo uno spazio conosciuto, devi cercarlo, suonare il campanello “Lamanna” e scoprire che li c’è Maison. Come chiusura della mostra ho chiesto al musicista Dimitri Sillato di comporre in tempo reale una sonorizzazione per la mostra. In una combinazione di pianoforte, violino ed elettronica ha suonato per un’ora all’interno della mostra.
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V.P.: Eri sola durante la residenza nella casa?
G.V.: La mia non è stata una vera e propria residenza, ho vissuto lo spazio nel momento della progettazione e installattivo, sempre accompagnata da Marco Mastroianni. È stato interessante capire e notare in quei giorni come lo spazio di Maison sia in continuo mutamento. Quando me ne sono andata e per tutto il periodo fino alla chiusura ho lasciato vivere la casa ai suoi abitanti o visitatori. Io c’ero nella misura in cui c’erano le mie opere e esserci sarebbe stata una cosa in più. Era importante che gestissero le cose come volevano, sentendosi liberi.
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V.P.: Al centro di tutto il lavoro si parla di relazioni, con uno spazio abitativo che in questo caso si apre ad una collettività per un uso extra-quotidiano. Ma come è partito in generale tutto il tuo lavoro rispetto alle relazioni, che immagino abbiano viaggiato su più livelli: dai proprietari che la abitano familiarmente, a chi è stato ospite per poco tempo, fino a chi si è ritrovato visitatore della tua mostra. Dal momento che tu hai iniziato ad agire su quello spazio, scegliendo anche su quali precise porzioni di quella casa andare ad intervenire , qual’è stata la tua ricerca?
G.V.: La ricerca sulla relazione è una cosa che mi porto dietro ormai da diversi anni. Questo tipo di percorso nasce partecipando al workshop di Sense of Community a Venezia, condotto dalla curatrice indipendente Silvia Petronici. Costruisco opere partecipate con l’intenzione di creare relazione umana, sia perché vorrei che l’opera non fosse solo la mia sia perché vorrei diventasse sempre un divenire insieme a qualcun altro, affinché crei nella persona memoria. “Io interagisco con quest’opera e quindi di quest’opera mi ricorderò”. Nasce quindi da qualcosa di molto spontaneo e personale. Il mio pensiero rispetto a Maison ventidue è sempre stato quello che fosse un luogo libero, con le chiavi a disposizione sulla serratura, in modo che le persone potessero entrare e uscire liberamente, relazionandosi al luogo e di conseguenza alle opere in base alle proprie storie. Nel momento in cui le persone entravano erano invitate a lasciare una loro traccia, entrando così a far parte di una casa che andava oltre il significato di abitazione. E’ stato interessante durante l’allestimento l’incontro di tante persone, dall’idraulico al vicino, che a diversi livelli capivano o meno ciò che stavo facendo e si instaurava un discorso spesso ironico sul mio lavoro.
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V.P.: Potremmo dire quindi che attraverso questa mostra è nato per te una sorta di dispositivo ludico che ha giocato sulla casualità e su una fruizione aperta dell’opera?
G.V.: La cosa che è importante in un’opera partecipata è creare un dispositivo, che possa essere efficace e compreso, per quanto mi riguarda, dalla maggior parte della gente. Tutto il resto è lasciato al caso, anche se ci sono sempre piccole regole da rispettare. La sola interazione che una persona sceglie o non sceglie di fronte a una delle opere è una sorta di gioco senza un percorso preciso. Guardare come la gente interagisce, oppure tornare nel luogo della mostra alla sua conclusione e vedere come l’ opera sia mutata è sempre una piacevole scoperta.
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V.P.: La scelta del titolo “Equilibri” nasce per caso da questo?
G.V.: Si, questo titolo è nato dall’idea di lavorare sull’unione di persone, di cose, di ambienti, di più situazioni che si ritrovano tutti in uno stesso tempo e devono cercare però un equilibrio nel sapere dove si può sconfinare. In realtà l’equilibrio era inteso proprio come lo sconfinamento da parte di tutti. Ogni persona era invitata alla possibilità di fare qualsiasi cosa, questo era il vero equilibrio in quella situazione. Quello che si deve muovere è un equilibrio dinamico che trova la sua dimensione nel momento in cui invade tutto.
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V: Quali sono gli oggetti e i materiali che hai scelto per la tua azione artistica e quali (se ci sono stati) oggetti già pre-esistenti nello spazio che sono entrati a far parte del lavoro?
G.V.: Come materiali lavoro più che altro con silicone e con materiali di scarto tipo il ferro, telai di ombrelli, miele, ceramica, argilla, semi. Sostanzialmente materiali molto semplici e tendenzialmente ripresi dallo scarto. Lo scarto per me ha un grosso valore. Esso occupa uno spazio ed ha una sua identità, per ciò che è stato ma anche per ciò che può diventare. Alcuni oggetti d’ arredamento della casa sono entrati a far parte delle mie opere. Di sicuro la cucina è stata lo spazio più invaso, soprattutto perché le persone trovavano lì alcuni dei materiali con i quali poter interagire. Una delle camere è stata completamente invasa da gomitoli di lana, impedendo così un passaggio naturale, di conseguenza la gente per entrare poteva creare e inventare una strada nuova per poter valicare la soglia e vivere lo spazio.
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V.P.: Durante il processo di lavoro le persone erano chiamate a interagire liberamente con ciò che tu creavi? Quali erano le indicazioni che davi loro?
G.V.: In realtà non ho dato molte indicazioni, sono bastati brevi imput e poi le persone hanno iniziato a interagire liberamente. Molti si ponevano il problema di spostare le cose da dove erano state da me collocate e così le ho invitate a modificare la disposizione da me scelta. Questo era il senso di tutto. Non considerare nulla come definitivo e immutabile.
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V.P.: Durante la serata conclusiva, dove non c’era il flusso quotidiano e anche casuale di persone, ma con un numero di visitatori che volutamente erano lì per vedere il tuo lavoro com’è avvenuto l’incontro con le opere e con questo tuo senso di relazione?
G.V.: Il pubblico veniva subito chiamato a interagire, perché aprendo la porta ci si ritrovava all’interno di una delle installazioni nelle quali si era invitati a partecipare. Si riceveva subito il kit di cui parlavamo prima e poi si era liberi di esplorare a propria scelta, di avere del tempo, di portarselo via e di farsene ciò che volevano. In più all’ingresso veniva data alle persone una piantina della casa, in ogni stanza c’era la presenza di un simbolo che comunicava il nome dell’opera e i materiali dai quali era composta. Una sorta di mappa senza un percorso preciso e già deciso, ma che invitava ad un andare e scoprire e se non si scopre è perché non si ha osservato abbastanza. La cosa interessante è stata proprio vedere che alcune persone sono ritornate perché rientrando a casa avevano trovato sulla piantina delle opere che non aveva visto. Era un invito ad un attraversamento libero dello spazio. Molte persone mi chiedevano di spiegare meglio, ma io rispondevo che non c’era nulla da spiegare, c’era solo un affrontare questa casa come altre cose, come la si sente e liberi di fare ciò che si vuole. L’esperienza può essere anche quella di fermarsi di fronte ad un’opera e non proseguire sulle altre e va bene, significa che l’esperienza in quel caso si ferma lì.
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V.P.: Vedi un seguito a questo lavoro?
G.V.: Lo spero, cioè lo vedo e spero che ci sia. La mia esigenza di creare un’arte relazionale parte dalla mia persona, nel senso che mi ritrovo molto tempo da sola a creare delle opere e nel momento in cui esco fuori vedo la realizzazione di tutto, ma capisco che non ha un gran senso creare per creare, creare per il sé solo. A me serve per una questione correlata al riuscire a incanalare certe energie e ad esprimere cose che non riuscirei a comunicare in altri modi. Penso però che ciò che viene comunicato debba incontrare qualsiasi persona non per un solo “mostrare” ma per “relazionare”.
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V.P.: Questo lavoro che è nato in un contesto privato che in modo anomalo si è aperto ad un contesto pubblico, potrebbe funzionare secondo te agendo su un luogo istituzionale e pubblico e che quindi non possiede l’intimità che si respira dentro al contesto di una casa?
G.V.: Si secondo me si, nel momento in cui si sceglie di creare un’opera con la quale le persone possano interagire. In più un luogo è un luogo, ha una sua connotazione ma nel momento in cui un’opera lo abita, diventa tutt’altro. E’ pubblico ma nella mente dell’individuo diventa automaticamente privato e quindi si entra anche con un atteggiamento differente. E nel momento in cui ci si chiede di diventare parte di questa azione qualsiasi spazio trova un suo senso.
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Valentina Pagliarani, nasce e vive a Cesena. Danzatrice, educatrice e curatrice di progetti intorno all’arte contemporanea. Si laurea come educatore sociale presso la Facoltà di Scienze della Formazione di Bologna e frequenta successivamente il Master in curatore museale presso IED Roma. Partendo dalla danza come fulcro centrale, sviluppa un trasversale interesse verso la curatela di progetti intorno alle poetiche dell’arte contemporanea. E’ fondatrice di Katrièm Associazione, per la quale è attualmente direttrice artistica. Sceglie di approfondire una ricerca intorno alla didattica dell’arte contemporanea per l’infanzia, tema al quale si sta dedicando attraverso la progettualità di Katrièm Associazione. Lavora da oltre dieci anni nella didattica della danza contemporanea.
Giorgia Valmorri, Nasce il 20 agosto del 1984. Si approccia all’arte fin da bambina iniziando gli studi artistici. Nel 2007 consegue il diploma quadriennale nel corso di Decorazione presso l’Accademia di Belle Arti di Urbino. Nel 2008 ha partecipato al corso di oreficeria sulla lavorazione artista dei metalli a Pietrarubbia (PU) e consegue il Diploma nella Scuola di alta formazione tecniche della lavorazione dei metalli, TAM, presidente Arnaldo Pomodoro, direttore artistico Nunzio di Stefano, presso Pietrarubbia (PU). Nella sua poetica si incontrano il tema della connessioni, l importanza della traccia; traccia che si lascia in maniera consapevole e in modo casuale, creando così connessioni collegamenti impalpabili. Anche il seme prende una grande importanza all interno di suo interessi, seme che trasportato dal vento ritrova il suo luogo ideale così da creare una nuova vita ed interazione con lo spazio. Da due anni partecipa ai workshop sense of community, inerenti l’installazione site specif condotti dalla curatrice indipendente Silvia Petronici.